Cecilia Gallina*
La cooperazione tra Comuni ed Agenzia delle Entrate potrebbe produrre una maggiore efficacia ed efficienza delle rispettive attività e la ripresa ad imposizione fiscale fornire preziose risorse alle finanze degli enti locali.
Il coinvolgimento dei Comuni nelle attività di “accertamento” non rappresenta un tema recente, ma affonda le sue radici nella riforma fiscale degli anni ’70 e, volendo, ancora prima, essendo stato oggetto di diversi dibattiti nei lavori della commissione Cosciani, incaricata – agli inizi degli anni ’60 – degli studi preparatori per la definizione di un sistema fiscale che potesse riferirsi meglio del precedente alla mutata economia italiana.
L’art. 44 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 costituisce la prima norma che ha contemplato il ruolo dei Comuni in un sistema che non poggiava più sulla finanza locale, ma che veniva, invece, delegato alla gestione centralizzata/erariale anche per le azioni di contrasto all’evasione fiscale.
Tale disposizione legislativa è, però, rimasta, negli anni, di fatto inapplicata; sicuramente a causa di difficoltà burocratiche nella gestione dei flussi informativi da parte degli enti interessati, ma anche per un quadro operativo particolarmente generico, privo di direttive, procedure, sanzioni o meccanismi premianti in grado di “motivare” i Comuni nel porre in essere azioni ulteriori rispetto a quelle istituzionalmente attribuite.
Constatata la mancata messa in opera della prima soluzione normativa – e senza mettere mano ad una modifica dell’articolo 44 – il legislatore del 2005 ha individuato un nuovo percorso per perseguire il medesimo obiettivo: nasce, per i Comuni, la partecipazione incentivata all’accertamento dei tributi erariali. Con l’art. 1 del D.L. 203/2005 – così come convertito con legge 2 dicembre 2005, n. 248 – il legislatore ha previsto che “per potenziare l’azione di contrasto all’evasione fiscale, (…), la partecipazione dei Comuni all’accertamento fiscale è incentivata mediante il riconoscimento di una quota pari al 30% delle maggiori somme relative a tributi statali riscosse a titolo definitivo, a seguito dell’intervento del Comune che abbia contribuito all’accertamento stesso”.
All’emanazione di tale decreto hanno fatto seguito i relativi provvedimenti attuativi, i quali hanno delineato l’operatività della previsione normativa definendo, in particolare, gli ambiti di intervento della collaborazione, l’oggetto dello stesso – ovvero la segnalazione qualificata – i tempi e le procedure.
Avviate le prime lavorazioni in materia, il legislatore ha ritenuto di intervenire nuovamente, con varie disposizioni modificative, sul sistema partecipativo, determinando una riscrittura dei due pilastri normativi sopra citati – art. 44, D.P.R. 600/73 ed art. 1 D.L. 203/2005, con l’innalzamento della quota incentivante al 50% in via ordinaria e, successivamente, al 100% per il solo triennio 2012/2014 – e la definizione degli aspetti applicativi della collaborazione, quali l’individuazione dei tributi compartecipati, le modalità di “nettizzazione” degli stessi e le tempistiche dei relativi trasferimenti.
Nel maggio del 2012 è stato, infine, emanato il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n. 78785, che ha rivisto le tipologie di segnalazioni originariamente inserite nel provvedimento del dicembre 2007, individuando quelle da destinare alla Guardia di Finanza.
Fissato il quadro normativo, sul piano operativo va rilevato che la partecipazione vede, a tutt’oggi, notevoli differenze applicative sul territorio; infatti, pur essendo in crescita il numero dei Comuni che hanno avviato le attività di elaborazione e trasmissione di segnalazioni qualificate, una percentuale significativa degli stessi è tuttora concentrata in Emilia-Romagna. Ma quali possono essere i motivi per cui, in alcuni casi, sussistono ancora resistenze ad avviare la collaborazione? Cerchiamo di comprendere le possibili difficoltà e, contestualmente, di offrire spunti di riflessione sulle opportunità offerte dalle attività di partecipazione.
È evidente che la cooperazione tra Comuni ed Agenzia delle Entrate produrrebbe una maggiore efficacia ed efficienza delle rispettive attività e che la ripresa ad imposizione di gettito fiscale potrebbe, indubbiamente, fornire preziose risorse alle finanze degli enti locali.
Ma, nel valutare i benefici di un’azione partecipativa, si potrebbe, addirittura, prescindere dal considerare l’opportunità offerta dalla quota incentivante. È, infatti, lapalissiano che, se tutti i cittadini contribuissero realmente “in base alla propria capacità” alla res pubblica, non potrebbe che beneficiarne l’intera comunità. In tale ottica, il principale effetto positivo della partecipazione potrebbe proprio essere una maggiore propensione alla tax compliance (o adempimento spontaneo): sapersi “fiscalmente” osservati anche dall’ente più vicino potrebbe rappresentare un ottimo deterrente verso l’evasione fiscale e contributiva.
Tuttavia, nonostante gli effetti benefici che derivano dalla collaborazione, un certo numero di Comuni italiani appare ancora lontano dall’avvio della stessa. Il motivo di tale ritardo può rintracciarsi, in primis, nel fatto che l’attività di “qualificazione” della segnalazione è piuttosto complessa e, spesso, non in linea con le competenze proprie di chi lavora nell’ente locale.
Questa difficoltà è, tuttavia, superabile con una formazione specifica – basata anche su casi concreti già lavorati – che consenta di fornire le indicazioni di base sui fenomeni da osservare e sui dati da raccogliere per arricchire il più possibile l’elemento che ha, in origine, evidenziato il fatto evasivo. D’altra parte, l’esperienza acquisita consente di affermare che gli operatori comunali, laddove adeguatamente formati, mostrano e sviluppano interesse e passione per le attività di contrasto all’evasione. Lo stesso timore che l’avvio di un’attività di segnalazione di fatti evasivo/elusivi possa essere mal interpretata ed accolta con diffidenza da parte della comunità, appare, a sua volta, un falso problema.
Talvolta ci si dimentica che l’evasione non è un fatto naturale, ma un’indebita sottrazione di risorse alla collettività: l’evasore non è semplicemente un soggetto un po’ più “furbo” degli altri; è chi utilizza servizi pubblici pagati da altri. Su questa base, l’attività di partecipazione/segnalazione potrebbe consentire al Comune di beneficiare di un positivo ritorno d’immagine, laddove le risorse recuperate con gli accertamenti, e trasferite all’ente locale, siano specificamente destinate all’erogazione di servizi aggiuntivi alla collettività, restituendo al cittadino fiducia verso le istituzioni.
Né è da trascurare il fatto che il recupero di gettito erariale comporta riflessi diretti anche sulle addizionali comunali, tramite l’emersione della relativa base imponibile, riportando la partecipazione ad un’attività, a tutti gli effetti, “comunale”, al pari di quelle riguardanti gli adempimenti ICI/IMU o TARSU.
Appare, infine, utile proporre una breve disanima dei fatti evasivi più facilmente intercettabili dal Comune. In merito, l’esperienza dell’Emilia Romagna ha confermato l’intuizione di chi ha elaborato il primo provvedimento attuativo, quello del dicembre 2007, provvedimento che – con la definizione dei cinque ambiti di collaborazione e delle relative, specifiche, tipologie – ha fotografato in modo sufficientemente compiuto i fatti evasivo/elusivi che l’ente locale è in grado di osservare ed approfondire.
A prescindere dalle caratterizzazioni territoriali del fenomeno evasivo, si possono individuare alcune fattispecie ricorrenti tra le best practices delle segnalazioni:
– enti che, dietro la maschera del “non profit”, svolgono attività puramente commerciali a danno non solo del fisco, ma anche (in termini di concorrenza sleale) degli operatori economici che effettuano le medesime attività con la corretta veste giuridica, quella commerciale.
– trasferimenti immobiliari non correttamente valorizzati (in termini sia di corrispettivo/valore dichiarato in atto, sia di plusvalenze realizzate) e contratti di locazione non registrati (i c.d. affitti in nero) con i correlati redditi non dichiarati.
– manifestazioni di ricchezza non compatibili con i redditi dichiarati dal contribuente e/o dal suo nucleo familiare, indagate attraverso il cosiddetto “redditometro”, in particolare, per quei soggetti difficilmente individuabili dall’Amministrazione finanziaria – in quanto, magari tramite intestazioni fittizie, hanno disponibilità di beni di lusso senza averne la titolarità – e che, invece, il Comune riesce a ben “fotografare” con l’osservazione diretta delle relative manifestazioni di ricchezza.
– soggetti che hanno trasferito fittiziamente la propria residenza all’estero.
In tutti i casi sopra riportati, fondamentale è l’interazione e lo scambio informativo tra i diversi servizi comunali (Ufficio tecnico, Servizio scuola, Ufficio Anagrafe, Polizia Municipale, ecc.) e tra questi e l’Ufficio tributi, che, spesso, si occupa di approfondire, verificare e sviluppare le informazioni raccolte dai primi.
Cecilia Gallina
Funzionario Agenzia delle Entrate-Direzione Regionale Emilia-Romagna
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