Francesco Giardinazzo
Locuzioni come “paradiso fiscale” e toponimi geografici quali “Cayman Islands” contribuiscono alla costruzione di un sistema complesso che arricchisce la fiaba di elementi indispensabili quali geografie fantastiche e contesti solo apparentemente benevoli ed invitanti.
Anno di grazia 1993, ben dentro Tangentopoli. Nell’edizione dello Zecchino d’oro, Oscar Avogadro e Piero Massara presentano una canzone destinata a diventare uno dei “tormentoni” della cultura fin-de-siècle: Il coccodrillo come fa? La canzone non vince l’edizione e, come spesso accade, spopola divenendo ben presto materia d’uso proprio ed improprio. Non solletica la sollecitudine degli etologi, ma interviene spesso a corollario di vicende più o meno favolistiche come in questo caso, oltre ad aver tramortito le casalinghe in una famosa trasmissione di cucina. Si sa, il coccodrillo non gode di buona fama, come il repertorio favolistico africano, su tutti, dimostra. Diciamo che una letteratura tendenziosa lo colloca fra i simboli della crudeltà e fraintende alcuni processi fisiologici che noi umani vorremmo attribuirgli: proverbi come “piangere lacrime di coccodrillo”, per esempio, o il “coccodrillo” sinonimo di necrologio nel gergo giornalistico ne sono un buon esempio. La canzone, invece, si sofferma su un aspetto certamente negletto nella letteratura e nella dossologia antecedente: qual è la voce del coccodrillo? Animale muto o dotato di forme di comunicazione non decisive per la sua codificazione simbolica? Fatto sta che nel ritornello della canzone si afferma quanto segue:
Il coccodrillo come fa
non c’è nessuno che lo sa.
Si dice mangi troppo
non metta mai il cappotto
che con i denti punga
e molto spesso pianga,
però quando è tranquillo
come fa ‘sto coccodrillo?
Risposta corale, inequivocabile: “Boh!”. Bisognerebbe inventare un genere letterario ibrido e apposito, metà fiaba e metà antropologia manzoniana per attribuire a questa canzone il ruolo trasgressivo di favola terribile. Come insegnano i maestri del surrealismo, basta spostare di poco ciò che è consueto per farlo apparire inquietante. Perciò, cosa succede se questa strofa diviene centrale nella fenomenologia dell’evasore fiscale? Da Esopo a La Fontaine, la questione non è stata mai posta, mentre oggi potrebbe essere di capitale importanza. Lasciare che una ben triste realtà invada il campo della favola significa proporre una morale rovesciata, nella quale il racconto è conseguenza di un’azione deprecabile e perciò non può che essere crudele nei suoi intenti. Non che la crudeltà sia ignota alla favola, anzi. Ma questo spostamento fa capire quanto sia ad un tempo semplice e perverso il sistema di cui parliamo. Qui, però, interviene il secondo elemento, definito per inquietante comodità “paradiso crudele”. Locuzioni come “paradiso fiscale” e toponimi geografici quali “Cayman Islands” contribuiscono alla costruzione di un sistema complesso che arricchisce la fiaba di elementi indispensabili quali geografie fantastiche e contesti solo apparentemente benevoli ed invitanti. Non siamo nuovi a queste prelibatezze nomenclatorie: basterebbe rammentare “pulizia etnica” o “guerra preventiva” per ampliare il lessico a ben altre latitudini. Ma anche “condono tombale”, vagamente gotico, non scherza. Di fronte a questo lussureggiante ed arcano repertorio, concetti quali “reato”, “illecito”, “evasione”, “truffa ai danni dell’erario” conservano un persistente grigiore più degno di un travet neorealista che di queste vite vissute “à bout de souffle” e, in pratica, in silenzio. Solo questa risposta (al netto dell’Elton John di Crocodile Rock, 1972) potrebbe annettere questa spiegazione alla candida questione della nostra canzone. Rimane sullo sfondo, inquietante per sempre, il coccodrillo di Capitan Uncino immortalato da Rockcoccodrillo di uno smagliante Edoardo Bennato (1980). Naturalmente, la cinematografia ha contribuito non poco a questa lettura retrospettiva, come nel caso de Il caimano di Nanni Moretti, che ricostruisce la resistibile ascesa, prima economica e poi politica, di un noto imprenditore elevato a rango di statista da un’incredibile connessione fra poteri oscuri e i vari predatori nello stagno nostrano. “Sopire… tacere”, raccomandava il Conte zio, archetipo manzoniano di una galleria, purtroppo, ben più reale, che abbiamo imparato bene a conoscere, soprattutto per la caratteristica più evidente: il silenzio. Tutti i maggiori reati emergono da una coltre di silenzio, destano sconcerto per la loro vastità e gravità, sorprendono proprio per la loro emersione da un regno silenzioso, ma operosissimo, capace di creare mondi paralleli, scaltre macchinazioni per sopire e far passare inosservati i più evidenti reati ospitati nei codici nazionali ed internazionali.
Ma questo silenzio, ovviamente, ha un prezzo: il prezzo del silenzio. Non è un atto gratuito: nel paradiso di Arpocrate, per esservi accolti occorre offrire qualcosa, bisogna fare in modo che la connivenza diventi un business redditizio a vari livelli. Tutta questa letteratura dell’evasione non si configura come un passatempo innocente. La potenziale pericolosità del silenzio consiste in questa evidente tattica del far credere vera la favola di una specchiata onestà che, in condizioni più serie, sarebbe facilmente smascherata. Quando avviene, la macchina dell’indignazione non può che mettersi in moto. Lo stupore che si genera spontaneamente si chiede allibito come sia stato possibile. “Boh!”, che altro dire? Sappiamo bene che il contenuto profondo delle favole non risiede nella loro morale, ma in qualcosa di più oscuro e persistente, minaccioso, che incombe nel racconto riconducendo ad una paura primordiale, pre-razionale.
Già Simmel, nella sua Filosofia del denaro (1900), parla del valore economico come oggettivazione dei valori soggettivi. Avere o essere si tramuta da alternativa in equivalenza: avere è essere. La moneta, come la metafora, conosce trasformazioni del significato nominale: le false comunicazioni in bilancio ed i reati societari connessi assumono un valore metaforico oltre a rappresentare fattispecie di reati. Si tratta di un tradimento sociale e di un delitto contro la vita delle garanzie. Le favole non ci raccontano tutto, ma, di certo, molti meccanismi resi complessi dalla realtà nel loro mondo sono affidati a quello che si chiama “l’aiutante magico”. A volte, questo assume i caratteri ambigui del “trickster”, il demiurgo trasgressivo: nel linguaggio della realtà, il “faccendiere”. La genealogia del ramo italico della stirpe occuperebbe un’enciclopedia. Delitti contro la fede pubblica, figure criminose che attraversano la vita pubblica col loro sorriso ammanettato e meritevoli della damnatio memoriae da parte della vita pubblica che hanno tentato criminosamente di corrompere e deturpare.
Che gli animali rappresentino simbolicamente la gamma dei vizi e delle virtù umane fu privilegio, a volte lieve, a volte ossessivo, della favolistica. La filosofia morale moderna ha preferito sporcarsi le mani con la realtà, piuttosto che attribuire ad altri le tipiche debolezze del solo genere umano. Il punto è come accettare la più recente versione della favola, quella che racconta di gioiellieri che guadagnano, secondo le dichiarazioni al fisco, meno dei loro impiegati. Come faranno? Boh! L’unica è vedere quando mister Crocodile Dundee farà loro visita nella morta gora dove custodiscono lacrime preistoriche trasformate in gemme. Per fortuna, i bambini, di tutto questo, non ne sanno nulla.
Francesco Giardinazzo
Professore a contratto di Antropologia dei processi comunicativi e Letteratura italiana
Università Alma Mater Studiorum di Bologna