“Buona” e “cattiva” politica

Edmondo Coccia

La lettera di Quinto Tullio Cicerone va vista come una semplice “rilevazione” di un “costume politico” ravvisabile, purtroppo, in ogni epoca storica.

È opportuno chiarire che il titolo Come vincere le elezioni. Un’antica guida per politici moderni, sotto il quale è stata pubblicata dall’Armando Editore la lettera attribuita a Quinto Tullio Cicerone, è stato strategicamente scelto per scopi divulgativi, per suscitare l’interesse dei lettori in momenti così tipici della vita politica/sociale quali sono quelli delle competizioni che precedono le elezioni per organi di governo. In realtà, il titolo originario dell’opera in questione è, in latino, Commentariolum petitionis, traducibile, più o meno, in «Breve commento [o annotazioni] sulla candidatura». E non appare molto importante stabilire, in termini di accertamenti filologici, se si alluda o meno alla candidatura di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) alla carica di console nel 63 a.C. La lettera, comunque databile in un’epoca che va dal I secolo a.C. a quello successivo, risulta estremamente interessante perché il suo contenuto permette di comprendere qualcosa del “clima politico” che caratterizzava le fasi finali della Repubblica Romana e gli inizi dell’Impero soprattutto in occasione delle “competizioni elettorali”. Ciò che sorprende, e che merita di essere rilevato, è la sua straordinaria “attualità”, tale da sembrare scritta anche per la situazione politica-culturale che caratterizza anche le “Democrazie” moderne. L’importante, in una competizione elettorale, è “vincere”, un obiettivo per raggiungere il quale è necessario mettere in atto opportune “strategie”. E proprio queste “strategie” costituiscono il contenuto dei quattordici capitoli nei quali risulta divisa la “lettera”: “preoccuparsi di apparire più che di essere”, “farsi amici in ogni ceto sociale”, “screditare gli avversari”, soprattutto “abbondare in promesse al popolo”, ecc.
Non sono forse le stesse “strategie” con le quali tutti gli attuali “contendenti” al governo del nostro Paese (che si chiamino Ber-lusconi o Ber-tinotti o Ber-sani, ecc.; ma anche tutti gli altri, si permetta di dire, che considerano gli elettori come ber-tucce già “addomesticate” o da “addomesticare”!) intrattengono il pubblico tutti i santi giorni e tutte le sante sere negli infiniti ed estenuanti talk-show di Porta a Porta, Ballarò, Che tempo che fa, ecc., condotti dai soliti ben retribuiti conduttori della televisione pubblica o privata?
Forse è altrettanto opportuno chiarire che l’intento della lettera attribuita a Quinto Tullio Cicerone non è quello di “consigliare” [in pratica: “istigare”] i politici a seguire “strategie” in evidente contrasto con gli intenti “etici” che suo fratello, Marco Tullio Cicerone, proclama in tutta la sua opera letteraria, filosofica, politica. Basta leggere, per convincersene, il suo De Republica, dove il grande oratore arpinate analizza le varie “forme di governo” e le loro degenerazioni (da “monarchia” a “tirannide”, da “aristocrazia” ad “oligarchia”, da “democrazia” a “oclocrazia”, nel senso di “democrazia degenerata” con cui Polibio usa questa parola). Muovendosi nell’ambito dello “stoicismo” della sua formazione filosofica, espone la teoria costituzionale dell’antica Roma, stabilendo e ribadendo il nesso non eliminabile tra la morale dei costumi politici e le virtù morali dei comportamenti individuali. La lettera di Quinto Tullio Cicerone va vista, quindi, come una semplice “rilevazione” di un “costume politico” ravvisabile, purtroppo, in ogni epoca storica. E se è vero che la storia, come la definisce lo stesso Marco Tullio Cicerone, è o dovrebbe essere “magistra vitae”, “maestra di vita”, le varie generazioni di uomini “politici” non ne hanno tratto alcun “insegnamento” per migliorare le proprie prospettive di vita sociale/politica.
Questo modo “errato” di vedere la “politica” risulta denunciato nei termini più significativi da Dante Alighieri, che già nel VI canto dell’Inferno si fa dire da Ciacco le “cause” di questa “degenerata” visione dell’impegno politico: «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c’hanno i cuori accesi» (Inferno, VI, vv.74-75). Ieri come oggi, troppi cosiddetti “politici” mostrano d’essere animati, anzi “esagitati” nella maniera più scandalosa, proprio da queste tre “molle” della loro partecipazione alla vita “politica”: la superbia, che li fa ritenere d’essere assolutamente “superiori” a tutti i loro avversari; l’invidia, il sentimento che non fa vedere loro eventuali pregi altrui; l’avarizia, così ben visibile nella loro bramosia e voracità di “compensi”, “privilegi”, “vitalizi” per quello che “fanno”, anzi “non fanno”. Risulta interessante notare che Ciacco viene identificato dai commentatori in un personaggio fiorentino che frequentava i “banchetti” dei potenti, abituato, quindi, al “troppo mangiare e bere”, tanto che, come informa il Buti, il suo era «nome di porco, onde costui era così chiamato per la golosità sua». Viene spontaneo stabilire qui, per il comune contesto politico, una certa connessione con la “legge porcellum” che ha fornito al Parlamento italiano tutta l’attuale generazione di politici… Dante, poi, prosegue la sua “diagnosi” dei mali prodotti dalla politica del suo tempo nel VI canto del Purgatorio, dove, dopo aver assistito all’affettuoso abbraccio tra Virgilio e Sordello, denuncia la perenne “litigiosità” degli Italiani, privi di una vera guida (vv. 76-87):

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;

e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.

Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.

Oggi, la divisione, la “guerra tra li vivi” di una sola terra, è triste vicenda visibile non solo tra Nord e Sud, tra Padanie ed altre regioni d’Italia, ma addirittura tra individui e gruppi politici sempre più animosamente contrapposti gli uni agli altri.
E il poeta, infine, nel VI canto del Paradiso, addita nel caos legislativo la causa determinante del disordine che impedisce un più sereno vivere. Per questo evoca la figura di Giustiniano, colui il quale, con il Corpus juris, regalò al mondo intero il tesoro più prezioso per la convivenza ordinata tra gli esseri umani:

Cesare fui e son Iustiniano,
che per voler del primo amor ch’i sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e il vano
Si potrebbero citare altri spiriti illustri che hanno dedicato il loro genio letterario all’analisi dei mali politici che affliggono l’umanità. Persino Niccolò Machiavelli, al quale viene comunemente rimproverata la massima secondo cui «il fine giustifica i mezzi» contenuta nella sua opera più discussa, Il Principe, giustifica però questa condotta soltanto in nome della salvezza dello Stato, per sottolineare la necessità che il “principe” (cioè chi ha la responsabilità di governo) debba anteporre l’interesse dello Stato alle sue stesse convinzioni etiche personali. Il “principe” è il primo “servitore” dello Stato, non il suo “padrone”. Giustamente, per altro, un poeta come Ugo Foscolo celebra Machiavelli nel suo capolavoro, I sepolcri (vv. 154-158), come colui che “svela” all’umanità il male commesso dai “politici”:

…Io quando il monumento
vidi ove posa ‘l corpo di quel grande
che temprando lo scettro a’ regnatori
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue…

È altrettanto importante, tuttavia, accennare anche agli illustri personaggi che, anche attraverso il genio artistico, hanno voluto celebrare “positivamente” il “Buon Governo” ed i suoi effetti, oltre che il “Cattivo Governo” ed i suoi effetti.
Una città famosa per la sua storia e per il suo patrimonio artistico come Siena assurge oggi agli “onori” della cronaca per lo scandalo finanziario legato al «Monte dei Paschi di Siena». Ma Siena andrebbe ricordata soprattutto per quel grande artista di nome Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) che ci ha lasciato come suo più grande capolavoro quelle Allegorie del Buono e Cattivo Governo e dei loro Effetti in Città e in Campagna, dispiegate su tre pareti per una lunghezza complessiva di circa 25 metri nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico della città.
Sulla parete di fondo della sala si trova l’Allegoria del Buon Governo, dove tutti gli aspetti del governo (la giustizia, l’amministrazione civica, i cittadini, le forze dell’ordine, ecc.) e le virtù che ne sono ispiratrici (sapienza divina, generosità, pace, virtù cardinali e virtù teologali, ecc.) sono rappresentati da figure umane. Tutte queste interagiscono secondo un preciso ordine a rappresentare una scena assai complessa. Sulla parete di destra è presente l’Allegoria degli Effetti del Buon Governo in Città e Campagna, con una rappresentazione allegorica del lavoro produttivo entro la città di Siena e nella sua campagna. Sulla parete sinistra è presente l’Allegoria del Cattivo Governo, con personificazioni degli aspetti del malgoverno e dei vizi e dei suoi effetti in città e campagna.
Questo ciclo di affreschi è da sempre studiato da critici ed appassionati non solo di storia dell’arte, ma anche di storia e del pensiero politico e del costume. In effetti, tale ciclo di affreschi rappresenta uno dei primi messaggi di propaganda politica in un’opera medievale, con riferimento, dal punto di vista dottrinale, al pensiero di San Tommaso d’Aquino. Esso non solo illustra la gerarchia dei princìpi e dei fatti, delle cause e degli effetti, ma pone come motivi fondamentali dell’ordine politico proprio l’”autorità” (nelle allegorie) e la “socialità” (negli effetti), insistendo specialmente sul concetto aristotelico della “naturalità” della socievolezza umana.
È da ritenere importante, in conclusione, accompagnare gli inevitabili rilievi “critici” sul modo “errato” di governare e di fare politica, con “riflessioni” e “considerazioni” che possano risultare utili per un “Buon Governo” ed una “Buona Politica”.

Edmondo Coccia
già professore di Lettere nei Licei, traduttore di opere classiche

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