In Italia, il volontariato ha tre grandi tradizioni: una ecclesiale e cattolica, legata all’opera di evangelizzazione della Chiesa, fondata sul concetto di pietas cristiana e tuttora molto viva; accanto a questa, si sviluppa, fin dall’Ottocento, un’intensa attività di volontariato di tradizione operaia e socialista; infine, una tradizione liberale molto ricca, successivamente scomparsa. La fine degli anni Settanta segna il declino di un modello prevalentemente filantropico dell’assistenza e vede il diffondersi di un volontariato che, attraverso progressive puntualizzazioni, diventerà vero e proprio soggetto politico, riconosciuto anche dalla successiva produzione legislativa. È in questi anni che si diffonde la consapevolezza che, per tutelare deboli e bisognosi, non bastano azioni di carità e benevolenza, ma necessitano interventi di affermazione dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini. Le attività di solidarietà trovano un nuovo spazio grazie agli articoli 2 e 3 della Costituzione, che stabiliscono l’assegnazione originaria della funzione della solidarietà alla comunità, mentre affidano alla pubblica amministrazione l’organizzazione del modo di assolvere a tale funzione. Ad una prima fase in cui il volontariato era chiamato a rispondere a situazioni di emergenza sociale, segue quindi una seconda fase in cui gli obiettivi diventano quelli di portare i cittadini alla consapevolezza dei propri diritti e stimolare le pubbliche amministrazioni a compiere le proprie funzioni in modo efficiente. Nella seconda metà degli anni ’90 abbiamo assistito, in Italia, all’esplosione del cosiddetto Terzo Settore, la cui funzione principale è diventata quella di fattore di contenimento dei costi e di flessibilizzazione della pubblica amministrazione, da realizzarsi attraverso il conferimento di obiettivi pubblicamente rilevanti ed il finanziamento dei servizi tramite contratto. Si è infatti affermata, anche in Italia, quella che viene definita “cultura del contratto”, una logica di relazione basata su accordi di acquisto di servizi prodotti dal terzo settore da parte delle amministrazioni pubbliche. Dal punto di vista sociologico, il terzo settore si configura come un soggetto autonomo delle dinamiche societarie: è l’ambito della solidarietà, che segue regole di scambio diverse da quelle del mercato e dello Stato e si struttura in forme organizzative peculiari, finalizzate sì alla realizzazione del “bene comune”, ma diversificandosi dallo Stato perché specializzato nella produzione di “beni comuni relazionali”. Utilizzando i dati provenienti da un’indagine comparata, basata su parametri prevalentemente economici, il terzo settore risulta avere, in Italia, dimensioni di tutto rispetto: 418.000 unità di lavoro standard retribuite, cioè l’1,8% del totale degli occupati nel nostro Paese, più, all’incirca, 273.000 volontari, 15.000 obiettori di coscienza, 16.000 persone distaccate dal proprio datore di lavoro. Sommati ai lavoratori retribuiti, fanno toccare al settore no-profit il 3,1% dell’occupazione totale nazionale. La relazione tra Stato e Terzo Settore emerge nella prospettiva di subordinazione, poiché lo Stato esprime la chiara volontà di arrogarsi il diritto di definire i requisiti soggettivi delle attività di interesse collettivo di finalità sociale. La relazionalità con il mercato risulta invece essere debole: in Italia è tuttora in una fase iniziale e sembra seguire una via indiretta di legame, mentre altrove, come in Gran Bretagna e Germania, è maggiormente consolidata e perseguita attraverso forme dirette di sostegno.
Sara Crisnaro
Studentessa lingue e letterature orientali Università Ca’ Foscari di Venezia