Nuove povertà

Ai “nuovi” poveri si aggiungono quelli da tempo presenti tra noi: i disoccupati, i “senza fissa dimora”, gli immigrati privi di permesso di soggiorno o di residenza, gli ex carcerati, i tossicodipendenti, gli alcoolisti. Ma anche uomini o donne disoccupati; separati, anziani, studenti universitari che hanno perso il sostegno familiare.

Sia pur rapidamente, desidero delineare perché sia legittimo accostare l’aggettivo “nuovo” ad una situazione – la povertà, appunto – antica, radicata, estremamente diffusa. L’aggettivo può essere giustificato a due livelli: il primo riguarda i mutamenti intervenuti nel modello di interazione sociale della contemporaneità, fortemente caratterizzato, soprattutto nei centri urbani, da una frammentazione progressiva, che colpisce istituzioni e gruppi consolidati da secoli, addirittura da millenni, alcuni, come la famiglia, e da un modello che esalta l’individualismo proprietario, il successo personale, che fa perdere valore alla coesione sociale, ed anche familiare, alla solidarietà sociale diffusa, alla responsabilità comunitaria. I nomadismi, le migrazioni, i nuovi contesti urbani, con la loro incapacità a generare posti di lavoro sufficienti, le difficoltà di risolvere nelle città – a livello, cioè, locale – i problemi che la globalizzazione genera, sono i fattori concreti che danno alimento all’insorgere dell’isolamento, dell’anonimato, dell’indifferenza. Il secondo livello rimanda, invece, ai nuovi soggetti che oggi appaiono sulla scena della povertà e che appartengono a gruppi sociali che negli ultimi anni sembravano al riparo dalla minaccia della povertà, e che solo recentemente, per svariate cause, vivono in questa situazione: uomini o donne che hanno dovuto affrontare improvvisamente la disoccupazione; oppure una separazione legale che ha fatto loro perdere l’abitazione e le cure familiari, diminuendo di molto la loro disponibilità finanziaria; donne rimaste sole con una prole numerosa in età infantile o adolescenziale; anziani con basso reddito a cui è venuta meno la rete familiare e amicale; famiglie con prole numerosa; lavoratori che da lungo tempo vivono una situazione di lavoro precario o hanno occupazioni continuative con basso reddito; studenti universitari che hanno perso il sostegno familiare e/o il lavoro e perdono la continuità nei loro corsi di studi; il 10% dei giovani dai 15 ai 18 anni che, secondo i dati ISTAT, non lavora e non studia

.
A questi “nuovi” poveri si aggiungono, e spesso con loro si mescolano, quelli da tempo presenti tra noi: i disoccupati, i “senza fissa dimora”, gli immigrati privi di permesso di soggiorno o di residenza, gli ex carcerati che non riescono a reinserirsi nella vita lavorativa, i tossicodipendenti, gli alcoolisti. Questo quadro, nelle sue linee generali, si applica all’intero nostro Paese, ma assume andamenti che presentano variazioni, anche notevoli, secondo i diversi contesti regionali e cittadini. Recenti ricerche hanno messo in luce i grandi cambiamenti che negli ultimi anni hanno caratterizzato molti luoghi della città di Bologna, evidenziandone sia le trasformazioni del tessuto demografico, sia il generale impoverimento in termini economici ed in termini di relazioni sociali: anche se a Bologna è difficile rilevare radicali processi di ghettizzazione, molti spazi sono stati scelti come luogo abitativo o di “attraversamento” da molti immigrati e da utenti dei servizi comunali. In questi “territori”, leggendo i dati quantitativi e le analisi qualitative che ad essi si accostano e, in un certo senso, li interpretano, è possibile delineare le prime conseguenze specifiche dei processi di impoverimento. Attraverso lo studio delle trasformazioni nel tessuto demografico, delle recenti migrazioni, delle nuove politiche del welfare cittadino, dei nuovi utenti dei servizi sociali, è possibile evidenziare l’aumento del tasso di abbandono e di fallimento scolastico, la situazione sempre più a rischio di attori sociali quali i minori stranieri, le famiglie monogenitoriali, gli anziani con basso reddito, le donne arrivate nella città in seguito alle politiche di ricongiungimento familiare, i giovani laureati con percorso formativo diverso dall’offerta dominante del mercato, i disoccupati di ritorno.

I dati che risultano dalle molte ricerche svolte da soggetti diversi sulla situazione della povertà nella nostra città consentono di individuare alcune importanti dinamiche che il fenomeno assume oggi: l’aumento fra i soggetti “bisognosi” del numero di individui in possesso di diploma di scuola media superiore, gli immigrati privi di permesso di soggiorno, i “rifugiati” in attesa della definizione del loro stato giuridico, gli uomini e le donne disoccupati, così come è evidente una diminuzione dell’età in cui si manifesta il bisogno. Tuttavia, per motivi di carattere metodologico, e anche per posizioni ideologiche assunte nei confronti del fenomeno, è difficile poter ricavare da essi orientamenti per migliorare la qualità della vita di questi gruppi, al fine, soprattutto, di poter disegnare programmi specifici che sviluppino le loro risorse in termini lavorativi e sociali, dando loro la possibilità di sottrarsi alla situazione di marginalità in cui vivono o che li minaccia pesantemente. Intravediamo il rischio di estendere riflessioni e politiche di intervento disegnate per le “vecchie” povertà anche a gruppi che vivono in termini diversi le dinamiche della “loro” povertà, che sono giunti ad essa da traiettorie, individuali o di gruppo, differenti, che non vivono ancora le fasi più estreme dell’emarginazione, che ancora non si percepiscono come bisognosi di un’assistenza pubblica continua, per i quali può essere ipotizzato che ancora abbiano in sé risorse ed energie utili per iniziare processi che, in qualche modo, rappresentino la possibilità di un nuovo inserimento in campo lavorativo e sociale. Il quadro della povertà, insomma, non è colto nelle dinamiche attuali, ma spesso interpretato con un sistema di riferimento che non riesce a cogliere le molte differenze che oggi lo caratterizzano: si rischia, così, di considerare la povertà una situazione statica alla quale si può dar sollievo solo con l’intervento tradizionale dei servizi sociali e delle azioni caritatevoli. Con il pericolo di procedere lungo un percorso che tenda ad isolare i poveri dall’intero corpo sociale, ad offuscarne le relazioni positive ed attive che molti di loro sono in grado di offrire, a toglier loro la dignità di soggetti sociali, a ridurli al rango di vittime canalizzando la loro voce sul lamento e la nostra risposta sulla compassione. Su questi temi abbiamo costituito, presso la Fondazione Gramsci, un laboratorio sugli andamenti che il fenomeno assume nella nostra città, chiamando a farne parte esperti che, sinora, lo hanno incrociato ed affrontato da punti di vista disciplinari diversi, usando metodologie di analisi diverse.

L’obiettivo che ci proponiamo è duplice: da un lato, approfondire la riflessione sul fenomeno “povertà”, cercando di coniugare “saperi”, linguaggi, metodologie sinora per lo più disgiunti, dall’altro, convogliare la riflessione sui diversi ambiti problematici di altri esperti e del più vasto pubblico cittadino. Del Laboratorio fanno parte studiosi dalle competenze disciplinari diverse: quelle proprie delle scienze sociali, dall’antropologia alla sociologia, dall’etnografia alla demografia, dall’economia alla pedagogia, ma anche del linguaggio e della storia sociale. Il Laboratorio ha presentato la sua attività con due iniziative pubbliche, svoltesi a Bologna il 23 febbraio ed il 2 marzo: con esse abbiamo voluto aprire pubblicamente il confronto su due modalità di lettura del fenomeno “nuove povertà”, che, a nostro avviso, vanno strettamente collegate, quella che privilegia il taglio economico e quella che pone in primo piano la soggettività con cui esso è vissuto: la prima intitolata “Diseguaglianze di genere, generazionali e territoriali. Analisi dei redditi dichiarati nel 2007 a Bologna”, la seconda, “Marginalità urbana. Ricerche e testimonianze”. Del gruppo di lavoro coordinato da Matilde Callari Galli fanno parte: Gianluigi Bovini, Paolo Capuzzo, Alessandro Caspoli, Maria Grazia Contini, Danielle Londei, Giovanna Guerzoni, Giuseppe Scandurra, Siriana Suprani.

Matilde Callari Galli
Professore Ordinario di Antropologia Culturale all’Università di Bologna e VicePresidente della Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna

Rispondi