Le forme di valorizzazione economica della cultura che si dimostrano realmente efficaci e sostenibili nel tempo sono quelle che sono capaci di fare leva sulla dimensione pro-attiva piuttosto che su quella passiva. Mentre quest’ultima trova riscontro soprattutto nelle logiche del turismo culturale e della partecipazione ai grandi eventi, la prima si concentra sui temi dello sviluppo dell’infrastruttura culturale produttiva e sul rapporto tra cultura e innovazione.
L’idea secondo cui la cultura deve essere a tutti i costi ‘protetta’ dalla dura realtà dell’economia, si fonda su una concezione pre-industriale della committenza culturale fondata sull’esistenza di una figura, il mecenate, che, per propria inclinazione o per calcolo (poco importa, alla prova dei fatti), era disposto a sostenere economicamente alcuni produttori culturali (artisti, musicisti, letterati, ecc.) sollevandoli dalla triste necessità di fare i conti con le leggi del mercato. Alla benevolenza dei protettori privati, con il consolidamento degli stati moderni, soprattutto europei, si è progressivamente sostituito il settore pubblico, il ‘mecenate istituzionale che sostiene la cultura in quanto attività socialmente meritoria, a prescindere dalla sua capacità di generare flussi economici significativi, e spesso anche a prescindere dal gradimento di gran parte della base dei contribuenti che fornisce le risorse che rendono ciò possibile. In ultima analisi, quindi, il ‘mecenate istituzionale non è altro che l’aggregazione di un gran numero di ‘mecenati involontari’ quando non addirittura inconsapevoli. Da questo punto di vista, si tende spesso a contrapporre l’approccio europeo continentale – basato appunto sul finanziamento pubblico e quindi su un prelievo coercitivo a sostegno di attività che non riscontrano necessariamente il gradimento di tutti – a quello anglosassone, basato invece sugli incentivi fiscali alla contribuzione diretta dei privati, che fa sì che a pagare siano appunto coloro che sono realmente interessati alla cultura e la apprezzano. In realtà, si tratta di una contrapposizione più apparente che reale: la detrazione fiscale dei contributi privati alla cultura rappresenta comunque una mancata entrata che incide negativamente sul bilancio pubblico, e potrebbe addirittura configurare in alcuni casi una forma regressiva di tassazione, in quanto concentrerebbe maggiormente la pressione fiscale su chi non può usufruire di simili detrazioni.
Potrebbe così darsi che, in presenza di regimi fiscali particolarmente favorevoli, anche privati del tutto disinteressati alla cultura potrebbero essere disposti a finanziarla per mere ragioni di opportunismo. Si potrebbe concludere che non sarebbe comunque un gran danno, visto che in fondo il risultato sarebbe il finanziamento di attività culturali socialmente meritorie. Ma se si crede davvero che la cultura sia meritoria, perché allora non finanziarla direttamente attraverso la spesa pubblica in modo più equo e trasparente piuttosto che esporsi ai machiavellismi dei consulenti tributari dei contribuenti più ricchi e bisognosi di detrazioni? Seguendo questa logica diventa quindi evidente il rischio di impantanarsi in discussioni abbastanza sterili, che producono facilmente forti e poco costruttive contrapposizioni su base ideologica. In fondo, se si vuole che la cultura sia pagata da chi ne usufruisce e ne gode, è sufficiente affidarsi al mercato, come accade per la maggior parte dei beni di consumo. Ma la vera questione non ha affatto a che fare con un ragionamento astratto sul maggiore o minore gradimento di un generico menu di esperienze culturali da parte dei contribuenti/clienti e sul modo più appropriato per decidere chi paga il conto, e a maggior ragione non ha a che fare con velleitarie istanze di ‘democratizzazione della cultura, siano esse rese possibili dalla mano pubblica o da quella privata. Nel corso della storia è sempre stata l’offerta culturale a creare un proprio pubblico, e quindi una propria domanda pagante, e mai viceversa. Nessuno sa di desiderare una determinata esperienza culturale prima che qualcuno sia in grado di mostrargliela e soprattutto di fargliela apprezzare. Un sorprendente rovesciamento di prospettiva per coloro abituati a ragionare sul consumo culturale secondo la prospettiva dei mass market tradizionali, ma un dato di fatto pressoché ovvio per coloro che hanno una reale e diretta esperienza del funzionamento delle arene culturali.
Le questioni su cui vale realmente la pena di riflettere sono più profonde, e hanno a che fare con i modi attraverso cui la cultura genera valore economico e sociale. É ponendosi a questo livello che divengono evidenti i limiti di applicazione alla sfera culturale delle forme di ragionamento economicistico più meccaniche e strumentali, e si comprende come la contrapposizione tra ‘mecenatismo’ e ‘mercatismo’ in ambito culturale sia più che altro apparente, in quanto le due posizioni a prima vista così inconciliabili si basano su una medesima forma di fraintendimento. La vera contrapposizione, quella che produce gli effetti più sostanziali e decisivi, è invece quella tra due concezioni pressoché antitetiche della produzione e della circolazione sociale della cultura, che definiremo rispettivamente, per brevità, ‘passiva’ e ‘pro-attiva’. Secondo la concezione ‘passiva’ della generazione del valore economico e sociale della cultura esiste in primo luogo una separazione netta tra i produttori e i fruitori della cultura, ovvero tra il lato dell’offerta e quello della domanda. Di conseguenza, la finalità dell’offerta è quella di avere riscontro nella domanda, di attrarre pubblico. Ci si concentra quindi sulla dimensione dell’intrattenimento culturale, sugli eventi, e sulla ‘valorizzazione del patrimonio culturale nel senso di una ricerca di elementi di interesse e di curiosità che attirino volumi sufficienti di pubblico pagante. L’impatto dell’esperienza culturale si misura quindi in termini di audience e di ritorno economico, diretto e indiretto. Se e come l’esperienza abbia avuto effetti sul sistema di motivazioni e sul bagaglio cognitivo dei fruitori è tutto sommato irrilevante, e resta confinato nel regno dell’arbitrio dei gusti individuali.
É questa concezione della generazione del valore economico e sociale della cultura che produce il fenomeno sconcertante delle ‘città d’arte (tipiche peraltro della realtà italiana) aggredite da un turismo di massa apparentemente caratterizzato in senso culturale ma di fatto interessato ad una modalità di uso delle città interamente centrato sull’auto-rappresentazione (che si traduce in un bisogno ossessivo di documentazione della propria presenza, sotto forma di raccolta di immagini e oggetti-feticcio, ma spesso anche di graffiti deturpanti su monumenti di grande valore culturale, che certifichino tale presenza nei confronti degli altri). L’impatto economico e di audience prodotto da queste modalità di uso della città potrà anche essere rilevante, ma l’effetto che contestualmente si produce sull’identità culturale e sociale può essere devastante e finisce spesso per pregiudicare non soltanto la capacità di produrre nuova cultura in quei luoghi, ma anche di conservare il senso di quella che si è ricevuta nel tempo. Alla concezione passiva si contrappone quella pro-attiva, nella quale non soltanto non è possibile tracciare una netta distinzione tra offerta e domanda (nel senso che coloro che in una determinata occasione agiscono da fruitori in altre situazioni, fossero anche soltanto quelle domestiche, si trasformano in produttori), ma ci si concentra appunto in primo luogo sul modo con cui una determinata esperienza culturale agisce sul ‘bilancio cognitivo’ di chi vi partecipa. L’impatto primario della cultura in questo caso riguarda lo sviluppo umano, ovvero le forme di accumulazione di capitale umano, sociale e culturale-identitario che sono il prodotto della partecipazione attiva e consapevole all’esperienza.
Le forme di espressione culturale costruiscono un proprio pubblico quando inducono in esso un desiderio di acquisire gli strumenti che sono necessari a dare senso all’esperienza stessa. Quando ciò accade, le esperienze continuano a produrre valore e significato nel tempo. Al contrario, quando le esperienze replicano banalmente le competenze e le aspettative del pubblico a cui si rivolgono, possono anche produrre un riscontro immediato, ma perdono molto rapidamente di interesse e diventano obsolete quasi contestualmente alla loro produzione. Le forme di valorizzazione economica della cultura che si dimostrano realmente efficaci e sostenibili nel tempo sono quelle che sono capaci di fare leva sulla dimensione pro-attiva piuttosto che su quella passiva. Mentre quest’ultima trova riscontro soprattutto nelle logiche del turismo culturale e della partecipazione ai grandi eventi, la prima si concentra sui temi dello sviluppo dell’infrastruttura culturale produttiva e sul rapporto – oggi cruciale – tra cultura e innovazione. I Paesi che presentano i più alti livelli di partecipazione alle attività culturali (e che tipicamente comprende una quota importante di partecipazione pro-attiva) sono anche quelli che manifestano la maggiore capacità innovativa. La relazione è così sistematica e stabile da non poter essere casuale, e la ragione è relativamente semplice: chi, attraverso la partecipazione culturale, si abitua ad aggiornare costantemente il proprio bagaglio cognitivo e le proprie conoscenze, si sottopone ad una ‘ginnastica’ che costituisce la premessa ideale per essere pronto a rimettersi in discussione di fronte a situazioni e problemi che richiedono soluzioni nuove: la sostanza stessa dell’innovazione. É per queste ragioni che, nelle future riflessioni sulle politiche di crescita dei Paesi industrializzati che sempre più decisamente fanno leva appunto sulla capacità innovativa, le politiche culturali non potranno che acquisire una rilevanza crescente, forse anche superiore a quella oggi attribuita alla formazione in quanto tale. Il vero problema, quindi, prima ancora della sostenibilità economica della produzione culturale, è quello della sua sostenibilità sociale: se si agisce efficacemente su quest’ultimo piano, far quadrare i conti non è poi così difficile.
Pier Luigi Sacco
Professore Ordinario di Economia della Cultura presso l’Università IUAV di Venezia
Direttore del Dipartimento delle Arti e del Disegno Industriale (DADI)
Pro-rettore alla comunicazione e alle attività editoriali