Chi pensa che il problema si possa risolvere con una più equa distribuzione della ricchezza, con il garantire a tutti i prossimi 7 miliardi di persone la stessa qualità di vita è solo cieco. La verità è che affinché tutti gli individui oggi presenti sulla terra possano mantenere un tenore di vita tipico di una nazione industrializzata, servirebbero 2,6 pianeti in più e non saranno certo gli ecoincentivi, le tasse verdi o il cambiamento degli stili di consumo che potranno cambiare questo dato di fatto.
Nel momento in cui ho iniziato a scrivere queste righe, la popolazione mondiale era di 6.800.336.320 abitanti. Il conteggio, visibile in alcuni siti internet alla voce popolazione mondiale, indica che ogni 20 secondi il numero aumenta di 52 unità, ad una velocità, quindi, di 156 in 1 minuto e 9.360 in un’ora.
Gli abitanti sono così distribuiti: 584.829.093 in Sudamerica, 340.016.915 in Nordamerica, 938.446.742 in Africa, 782.038.967 in Europa, solo 21.047.742 in Oceania e 4.100.604.009 in Asia. Osservando il nostro mappamondo ideale, scopriamo che, mentre in Nordamerica ci vogliono 9 secondi per l’aumento di un’unità, in Europa ne bastano 4 e in Africa 2.
E l’Asia? In Asia sono sufficienti 60 centesimi di secondo.
Per coglierne appieno la gravità, questi dati vanno rapportati allo sviluppo registrato nei secoli precedenti: solo nel 1804 la popolazione umana raggiunse il primo miliardo (dopo la comparsa dell’homo sapiens, 500.000 anni prima); nel ‘900 è passata da circa 1,6 miliardi a circa 5.5 miliardi (nel 1991), triplicandosi in meno di un secolo. Nel 2100 verranno superati i 10 miliardi.
Appare evidente che, se il pianeta Terra è un sistema finito, chiuso, e un altro elemento, la popolazione mondiale, non lo è, i due sistemi, prima o poi, entreranno in una situazione di incompatibilità.
Malthus ha avuto ragione: dopo 200 anni, la realtà odierna lo conferma.Thomas Malthus aveva acquisito consapevolezza del problema già alla fine del ‘700, quando la popolazione mondiale era ancora sotto la soglia del miliardo. Aveva denunciato che la popolazione aumentava in progressione geometrica, al contrario dell’aumento dei mezzi di sussistenza, in primis i prodotti agricoli, i quali aumentavano in progressione aritmetica.Nei millenni precedenti all’era industriale, la nostra specie viveva con il solo apporto dell’energia solare: quella accumulata nel cibo e nel legno, l’energia idraulica dei corsi d’acqua sfruttata nei mulini, quella del vento sfruttata nei mulini a vento, o con le vele per la navigazione, e l’energia animale, che dipendeva comunque dall’energia del sole per il mantenimento. In queste condizioni, ogni tendenza alla crescita della popolazione oltre il limite di ricostituzione delle risorse rinnovabili sfruttate nell’ecosistema, quello che si definisce superamento della capacità di carico dell’ecosistema, veniva regolata dalle carestie o dalle malattie. Le guerre potevano essere un effetto della scarsità di risorse e causare, a loro volta, in un classico ciclo di retroazione positiva, ulteriori carestie e malattie.
Nel suo Saggio, Malthus si confrontava con questa realtà ineluttabile proprio nel momento in cui l’uomo stava scoprendo, con il carbone prima e con petrolio e gas successivamente, una riserva di energia solare accumulata in milioni di anni, estremamente vantaggiosa ed immediatamente disponibile. Nei due secoli successivi alla pubblicazione del Saggio, l’uso di questa riserva di energia ha moltiplicato la capacità di carico del pianeta, permettendo l’osservato aumento esponenziale della popolazione umana e, incidentalmente, smentendo Malthus, che aveva previsto un esaurimento molto più anticipato delle risorse alimentari.
L’errore di Malthus è stato quello di non avere considerato le variabili possibili che avrebbero portato ad un aumento della produttività agricola ed industriale, allontanando temporaneamente le prospettive di un esaurimento delle risorse e dando modo ai detrattori di confutare le sue previsioni. In realtà, il consumo delle risorse subiva, con la rivoluzione industriale, una brusca accelerazione, accompagnata da un incremento esponenziale dell’inquinamento del pianeta.
E’ indubbio che la scoperta dei combustibili fossili abbia portato molti risvolti positivi, come lo straordinario balzo scientifico e tecnologico. Ma non ha né eliminato, né attenuato, la fame, la miseria e le ingiustizie. Ha spostato gran parte della miseria, o, almeno, la sua parte più insopportabile, dai sobborghi industriali dell’Europa dell’800 alle favelas e alle bidonville del terzo e quarto mondo.
Malthus non ha avuto torto. E’ stato semplicemente temporaneamente smentito. Il suo nome è per sempre legato al riconoscimento del problema creato dalla crescita della popolazione umana in rapporto alle risorse della Terra e le obiezioni alla sua teoria, come quella di Ralph Waldo Emerson, che sosteneva “Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana era anch’essa un fattore nell’economia politica, e che i crescenti bisogni della società, sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere di invenzione.” risultano oggi tragicamente smentite.
Oggi, la comunità umana non riesce a fornire soluzioni, non solo alla distribuzione equa delle risorse attuali, ma anche alla produzione di sostanze inquinanti, CO2 in testa, all’aumento della desertificazione, all’ enorme richiesta di energia.
Nei Paesi in via di sviluppo, l’aumento delle risorse disponibili, derivanti anche dall’esterno, si accompagna ad un aumento incontrollato della natalità. E’ drammaticamente attuale la situazione di Haiti, ma lo stesso vale per Vietnam, Cambogia e tanti Paesi africani.
Concetti come la “capacità di carico del geosistema quale limite massimo dell’intervento antropico sull’ecosistema terrestre, superato il quale l’effetto dei disequilibri ambientali causati dalle attività umane diventa irreversibile” cominciano ad essere accettati universalmente. Oggi, due miliardi di individui soffrono la fame, un miliardo e 300 milioni non hanno accesso all’acqua liberamente, e il loro numero aumenta di 84 unità ogni 15 secondi.
Le risposte finora fornite sono tragicamente inadeguate, o, addirittura, peggiorative.
Si va dall’ipotesi di una ridistribuzione delle risorse ad un diverso modo di alimentarsi, abolendo, per esempio, l’allevamento di bovini e suini, considerato uno spreco energetico. Si pensa all’utilizzo di fonti di energia rinnovabili, che richiedono, a loro volta, consumi ingenti per la loro realizzazione (pannelli fotovoltaici o impianti eolici). Si menziona il nucleare da fissione, che genera enormi problemi, tuttora irrisolti, in tema di smaltimento delle scorie.
Sono tutti rimedi parziali, che non risolvono il problema
“Cercando un nuovo nemico contro cui unirci, pensammo che l’inquinamento, la minaccia dell’effetto serra, della scarsità d’acqua, delle carestie potessero bastare… Ma nel definirli i nostri nemici cademmo nella trappola di scambiare i sintomi per il male. Sono tutti pericoli causati dall’intervento umano… Il vero nemico, allora, è l’umanità stessa”. Queste furono le conclusioni a cui giunse il “club dei 10” a Roma nel 1991 (The first global revolution).
La veridicità di queste affermazioni, che secondo alcuni giustificavano scelte drastiche e totalitarie, e la vacuità delle posizioni cosiddette umanitarie, sono testimoniate da una semplice considerazione incontestabile: risolto il problema della mera sopravvivenza, garantendo a tutti un adeguato apporto calorico ed idrico, la richiesta di risorse per migliorare le proprie condizioni e la durata della propria vita esploderebbe in maniera catastrofica nel giro di pochissimo tempo.
Allo stato attuale, vengono prodotte 28 automobili ogni 15 secondi. Nello stesso tempo, sono costruite 56 biciclette e venduti 146 computer. Il problema non è quindi legato solo al numero degli abitanti del pianeta, che comunque raddoppierà ogni 50 anni, mantenendo l’attuale ritmo di crescita, ma anche all’aspirazione di ciascun uomo di migliorare progressivamente le proprie condizioni. E se un Canadese medio consuma oggi 436 volte quanto consuma un Etiope, saranno gli Etiopi che vorranno raggiungere i Canadesi appena possibile, mai il contrario. I flussi migratori che le nazioni industrializzate stanno subendo lo dimostrano chiaramente.
L’unica soluzione ecologica seria è quindi la limitazione del numero degli abitanti della Terra.
Una delle resistenze principali a questa scelta nasce dalle principali religioni monoteiste. Comparse in periodi in cui era prioritaria la sopravvivenza della specie, e tutto il pianeta era da conquistare, hanno fatto della difesa della vita ad ogni costo il pilastro del loro insegnamento, privilegiando sempre e comunque la quantità rispetto alla qualità, contando sempre e comunque su una vita compensatoria ultraterrena. A questo si aggiunga una visione apocalittica insita nel proprio messaggio, che vede come inevitabile la fine del mondo e che porta a considerare vani, anzi, immorali, gli unici rimedi idonei a scongiurare questa fine.
Un’altra resistenza proviene dai cultori della religione del mercato, che vedono comunque in una limitazione della crescita demografica un motivo di impoverimento e un attacco al più indiscusso indice di benessere, rappresentato dal PIL, destinato a crescere costantemente, pena il verificarsi delle contingenze più disastrose.
Chi pensa, poi, che il problema possa risolversi con una più equa distribuzione della ricchezza, con il garantire a tutti i prossimi 7 miliardi di persone la stessa qualità di vita, è solo cieco, e diventa complice delle logiche sopradescritte, che pretenderebbe, invece, di combattere. Affinché tutti gli individui oggi presenti sulla Terra possano mantenere un tenore di vita medio, tipico di una nazione industrializzata, servirebbero 2,6 pianeti in più. Non saranno, quindi, gli ecoincentivi e le tasse verdi, o il cambiamento degli stili di consumo, per quanto lodevoli, che potranno cambiare la situazione complessiva.
Nel 1960, solo tre dei dieci agglomerati urbani più grandi del mondo si trovavano in Paesi in via di sviluppo, e solo uno di essi, Shangai, superava i dieci milioni di abitanti. Oggi ci sono diciotto città con più di dieci milioni di abitanti.
Questa situazione sarebbe ancora più grave se il governo cinese non avesse adottato severe politiche di controllo delle nascite, dal momento che ogni coppia non può generare più di un figlio. Ma il continente africano, nonostante la fame, la sete, le disperate condizioni igieniche, manifesta un tasso di natalità che arriva a 4,39 figli per donna, contro una media dei Paesi in via di sviluppo pari a 2,73 e 1,6 dei Paesi industrializzati.
L’obiezione relativa all’invecchiamento della popolazione, che una riduzione della natalità comporterebbe, non tiene, infine, conto dei progressi registrati negli ultimi decenni nei Paesi ad alto sviluppo in termini di salute ed efficienza fisica, cui si deve necessariamente accompagnare un allungamento della vita attiva senza aumento, fortunatamente, del periodo di fertilità naturale. D’altra parte, il temuto invecchiamento delle società appare come una benedizione in una fase storica in cui la tipica aggressività giovanile, adatta alle fasi di colonizzazione, deve lasciar spazio alla saggezza ed alla collaborazione, senza le quali i tempi duri che verranno favoriranno le guerre.
Affidarsi alla provvidenza divina, a meccanismi naturali di autocontrollo della crescita dovuti a carestie, epidemie, guerre o esaurimento dei combustibili fossili, all’illusione della soluzione tramite provvedimenti parziali (limiti alla CO2, efficienza agricola, fonti energetiche alternative, ecc.) serve solo a rinviare ulteriormente il momento delle scelte.
La nostra proposta è che, da subito, tutti gli interventi di collaborazione internazionale tesi a migliorare le condizioni di vita dei Paesi in via di sviluppo, o a ridurne lo sfruttamento da parte dell’Occidente e della Cina, debbano essere accompagnati da provvedimenti adeguati di controllo della natalità.
Auguriamoci che il ritardo già accumulato non sia irrimediabile, anche se due miliardi di ragazzi al di sotto di 15 anni, la maggior parte dei quali residente nelle regioni in via di sviluppo, e con un enorme potenziale procreativo, potrebbero far pensare al contrario.
A loro, e a tutte le generazioni future, è nostro dovere lasciare un ambiente il più possibile intatto, ed in grado di garantire a tutti una vita almeno dignitosa. Questo sarà possibile solo se l’umanità cesserà di crescere.
Attualmente siamo 6.818.763.215, 18.000 in più rispetto all’inizio dell’articolo. Quale soluzione è in grado di ridurre inquinamento, consumi energetici, consumo di acqua, produzione di rifiuti, altrettanto rapidamente?!
Massimo Adorati Menegato
Direttore della SOC di Nefrologia e Dialisi dell’ASS 4 “Medio Friuli“
Presidente di “Essere Udine”