È come se lo Stato avesse deciso l’autofallimento sul fronte del sistema penitenziario, aumentando il livello di carcerizzazione e dandosi delle regole che non è in grado di rispettare. Nel corso degli ultimi 5 anni lo Stato ha pagato circa 213 milioni di euro di risarcimento, la quasi totalità per ingiusta detenzione cautelare, rilevantemente meno per gli errori giudiziari.
I direttori penitenziari e gli altri operatori penitenziari tentano da sempre di richiamare l’attenzione del mondo politico ed istituzionale sulla necessità che il carcere non sia dimenticato. Richiedono interventi ed attenzione progettuale su diversi aspetti essenziali per la promozione e lo sviluppo di un sistema penitenziario effettivamente capace di rispondere alle esigenze di sicurezza della società ed a quelle di reinserimento sociale dei detenuti (che poi, così distanti dalle prime non sono, in una logica avveduta di prevenzione) e, più in generale a quelle di umanizzazione della pena e rispetto della dignità dell’uomo detenuto e dei diritti ad esso riconosciuti dalla normativa internazionale, dalla Costituzione Repubblicana e dall’ordinamento penitenziario. Gli interventi richiesti sono i seguenti: riduzione della cancerizzazione (tanto il ricorso alle pene detentive che alla custodia cautelare poiché il carcere deve essere l’extrema ratio per garantire la difesa sociale e per assicurare il colpevole all’accertamento processuale della verità); riduzione dei tempi processuali per giungere a sentenza; recupero strutturale degli spazi detentivi, risorse umane e finanziarie; impegno degli enti locali sul fronte delle misure di reinserimento sociale dei detenuti; formazione continua per tutto il personale (anche quello di base); strumenti adeguati di incentivazione al personale penitenziario per un lavoro che altri non saprebbero e non vorrebbero fare. Anche il ricorso alla carcerazione preventiva è un grave problema, che incide in modo rilevante sul sovraffollamento. Lo dicono i dati: i detenuti imputati sono oltre il 50%, mentre, negli ultimi 5 anni, per le procedure di risarcimento causa “ingiusta detenzione”, lo Stato ha pagato circa 213 milioni di euro di risarcimento (la quasi totalità per ingiusta detenzione cautelare, in via residuale per gli errori giudiziari). Nel corso degli anni, abbiamo assistito ad una proliferazione normativa rivolta a perseguire obiettivi di sicurezza sociale più attraverso lo strumento della sanzione penale e del ricorso alla cancerizzazione che mediante interventi di prevenzione e sostegno sociale (per disincentivare il ricorso al reato come modalità di sostentamento). Abbiamo anche assistito ad un sistema di potenziamento assolutamente teorico della qualità degli istituti penitenziari e, conseguentemente, della “qualità” della detenzione e dei diritti (o presunti tali) riconosciuti alla persona detenuta, sovente inattuabili per le ragioni di depotenziamento progressivo dell’apparato amministrativo deputato a darne attuazione.
È come se lo Stato avesse deciso l’autofallimento sul fronte del sistema penitenziario, aumentando il livello di carcerizzazione e dandosi delle regole che non è in grado di rispettare. ”Cronaca di una morte annunciata”, mutuando l’espressione dal titolo del noto romanzo di Gabriel García Márquez, è la sentenza del 16.07.2009 della Corte di Giustizia Europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Italia al pagamento di mille euro per violazione dell’art.3 della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali” (CEDU), non avendo garantito lo spazio minimo di mq 3 a Izet Sulejmanovic, detenuto extracomunitario della Bosnia-Erzegovina, il quale, per circa cinque mesi, dal novembre 2002 all’aprile 2003, aveva condiviso con altre cinque persone una cella di 16,2 metri quadri del carcere romano di Rebibbia, avendo così a propria disposizione in media solo 2,70 mq. Questa sentenza va ad aggiungersi ad altre condanne che la Corte europea ha inflitto all’Italia per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Per Strasburgo, i processi penali che durano oltre 5 anni (per 3 gradi di giudizio) sono in contrasto con l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848. Dall’esame della prassi giurisprudenziale di Strasburgo, risulta che solo nei procedimenti particolarmente complessi, e quindi in via eccezionale, la durata può arrivare fino a 8. D’altra parte, gli stessi giudici italiani, per effetto dell’art.2 (Diritto all’equa riparazione) della cosiddetta Legge Pinto (L.24 marzo 2001, N.89), secondo la quale “Chi ha subíto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”, hanno dovuto liquidare, sino al 2008, circa 81 milioni di euro per risarcimento danni. Come recentemente dichiarato dallo stesso Ministro della Giustizia (ottobre 2009), il processo penale viaggia con un bagaglio di processi pendenti che ammontano a oltre 3.600.000. Per il primo grado si attendono in media 420 giorni, in appello se ne aspettano altri 73 per ottenere giustizia.
Nel frattempo, a fronte di un limite di tollerabilità di 63.568 posti negli istituti penitenziari, l’ultima rilevazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria registra oltre 65.000 detenuti (65.225 al 02.11.2009), di cui 24.085 (circa il 37%) sono stranieri, mentre 31.346 (il 50% del totale) in attesa di giudizio. Una situazione che lo stesso Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Franco Ionta, nel piano carceri annunciato, avrebbe definito da “emergenza nazionale”, tanto da invitare il personale che opera nelle carceri, con una lettera inviata ai direttori penitenziari, a “mantenere i nervi saldi” e a “lavorare con lucidità”. E mentre è annunciato il “piano carceri”, che prevederebbe nel 2012 la creazione di 20 mila posti nuovi, si registra che tra il 2007 ed il 2010 le risorse finanziarie per il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria hanno subito un taglio pari a circa il 50%. A fronte di un fabbisogno di circa € 2.500.000, nel 2007 sono stati stanziati € 1.927.563 euro, nel 2008 1.687.000 e nel 2009 1.160.439. Per il 2010, pare sia stato previsto lo stanziamento di soli € 1.310.859. Tale situazione finanziaria deve però essere rapportata all’aumento della popolazione carceraria: dopo l’indulto, di cui alla Legge 31.07.2006, n.241, si registrava la presenza di circa 40.000 persone. Negli anni successivi, i detenuti sono aumentati in maniera esponenziale, fino ai citati 65.000. Si aggiunga che gli organici di tutte le categorie professionali, compresi quelli della dirigenza penitenziaria, vanno incontro ad un progressivo ridimensionamento per effetto dei pensionamenti e della mancanza di nuove assunzioni. Di recente, è stata prevista addirittura la rideterminazione delle dotazioni organiche per effetto dell’art.74 della L. 06.08.2008 N.133. Questa situazione, in assenza di spazi fisici ed adeguate risorse finanziarie e di personale, rischia di divenire ingestibile, al di là di qualunque sforzo che pure i direttori e gli altri operatori penitenziari di “trincea” mettono quotidianamente in campo.
Divengono inoltre sempre più tangibili le preoccupazioni per l’ordine e la sicurezza pubblici, non solo in relazione alle manifestazioni di protesta dell’estate appena trascorsa, da parte dei detenuti, ma anche alle aggressioni al personale di polizia penitenziaria: una situazione difficilissima che, in assenza di un’informazione corretta e completa, rischia addirittura di essere aggravata. La situazione è ben nota, sia ai mass media, sia alle forze politiche, tanto che numerosi parlamentari, nell’estate di quest’anno, hanno visitato le carceri italiane. Tuttavia, gli operatori penitenziari continuano ad essere soli e non si registra alcuna azione di positivo miglioramento sui diversi e concorrenti fronti auspicati. Questo alimenta uno stato di malessere grave del sistema, che di fatto si “scarica” sulle articolazioni periferiche dell’Amministrazione, gli Istituti penitenziari, gli operatori che in essi quotidianamente operano, i direttori penitenziari. I quali divengono gli unici interlocutori diretti sui quali si scagliano i fulmini prodotti dai diritti negati a monte e dalle risorse non assegnate. Le tensioni che si scaricano verso il basso colpiscono proprio la base operativa, che più delle altre componenti vorrebbe fare e soffre della propria impotenza costretta. In questo clima, si rivela fertile il terreno per coloro che, meno interessati alla soluzione dei problemi, appaiono più interessati a contrastare ideologicamente il carcere (del quale a tutt’oggi non pare però sia stato individuato un valido sostituto). Peggio, il sistema penitenziario italiano (il più avanzato e garantista nel panorama internazionale), enfatizzando episodi specifici e finendo, ancora una volta, per colpire gli operatori penitenziari. I quali, di fatto, vengono dipinti come irresponsabili, crudeli o, peggio ancora, responsabili dei diritti negati, se non, addirittura, complici di tali negazioni o finanche diretti sopraffattori.
Gli operatori penitenziari operano con grande responsabilità ed impegno, anche in questo difficile momento, e, come già altri hanno detto “se la situazione ancora non esplode è solo grazie al grande senso di responsabilità dei detenuti e allo spirito di servizio e l’abnegazione degli operatori penitenziari” (Desi Bruno, coordinatrice nazionale garanti e Garante diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna). Segno, aggiunge chi scrive, che lo sforzo continuo degli operatori penitenziari è costantemente rivolto a garantire le migliori condizioni di vita possibili nelle carceri e l’attivazione di ogni intervento diretto ad assicurare la tutela dei diritti o, quantomeno, la comprensione ed attenuazione dei disagi delle persone private della libertà personale, con spirito umano e pedagogico. Non c’è dubbio, infatti, che a nessuno stia più a cuore degli operatori penitenziari un carcere nel quale siano rispettati i principi loro affidati dalla legge e dalla Costituzione. Un penitenziario nel quale non si debba sperimentare la sofferenza ulteriore di spazi vivibili ridotti, di vite che non si è riusciti a salvare sotto il profilo rieducativo o, peggio, sotto quello della vita fisica. Un suicidio, infatti, è sempre vissuto da qualunque operatore penitenziario, poliziotto o educatore, comandante o direttore, come un fallimento, proprio e dell’istituzione. In qualche modo, come un lutto da elaborare. Se fosse possibile far respirare, a chi non crede, il clima di sofferenza che si respira nel penitenziario allorquando un detenuto rinuncia a vivere, costui scoprirebbe questo lutto, sentirebbe le mille domande che ciascuno degli operatori penitenziari si pone sull’evento, percepirebbe come gli operatori non riescono mai ad “assolversi”, anche quando è stato acclarato che tutto il possibile hanno tentato perché la strada della vita e della speranza non si spezzasse. Il suicidio è un evento difficile da impedire e ancor più difficile da prevedere.
Chi conosce veramente il carcere sa che il detenuto intenzionato a togliersi la vita riesce, purtroppo, a farlo comunque, sulla scelta di vivere, come per la partecipazione individuale all’opera di rieducazione, un ambito insopprimibile di autodeterminazione dell’individuo che nessun intervento professionale, di polizia o psico-pedagogico, può riuscire a condizionare. Si deve però dire che molti suicidi non sono morti provocate dalla sofferenza da privazione della libertà in carcere (sovente la sofferenza che li determina è causata da altri fattori, personali, sociali e familiari) e che l’impegno e la professionalità degli operatori penitenziari, quotidianamente, contribuisce a salvare molte vite umane: di questo si vorrebbe che si rendesse loro più merito. Purtroppo, i successi, anche numerosi, non fanno “audience”. Non c’è dubbio che la morte di un uomo, ancorché detenuto, imponga e renda legittima una domanda di chiarezza. È però altrettanto indubbio che non è eticamente ammissibile che si costruiscano gogne mediatiche sul carcere e sui suoi operatori. Questo non aiuta gli operatori penitenziari nel loro difficile compito, né i detenuti a vivere meglio la loro carcerazione, né la società ad avere fiducia nelle istituzioni. Non si può criminalizzare un sistema. Significherebbe gettare via il bambino con l’acqua sporca. Occorre analizzare i problemi e cercare soluzioni possibili, compatibili con le reali possibilità. Per questo, occorre una riflessione seria, che valuti la situazione nella sua dimensione di realtà, anche sotto il profilo dei possibili interventi. Soprattutto in un momento difficilissimo, nel quale le risorse finanziarie sono sempre più scarse a causa della crisi economica internazionale. Soprattutto in un momento in cui registriamo un incremento notevole di extracomunitari in carcere, per l’assenza di fattive collaborazioni politiche internazionali volte a contrastare il fenomeno dell’immigrazione clandestina nel nostro Paese, piattaforma di approdo facile e privilegiato nel Mediterraneo.
Rosario Tortorella
Membro del Consiglio Direttivo del SI.DI.PE. (Sindacato Direttori e Dirigenti Penitenziari)
Direttore della Casa Circondariale di Catania “Piazza Lanza”