Normative edilizie

Illustri studiosi hanno definito il carcere in Italia come una struttura re-infantilizzante e non come una struttura re-sponsabilizzante. Manca l’anima al progetto lasciato nelle sole mani dell’ingegnere che, necessariamente, lo misura in termini di efficienza e solidità delle strutture.

In Italia, progettazione e realizzazione del carcere sono soggette alla normativa che disciplina le opere pubbliche. Questa condizione sacrifica irrimediabilmente il ruolo del progettista, quale portatore di valori culturali, atrofizzato dalla previsione di affidare progettazione, costruzione e ogni altra incombenza a gruppi di imprese. Si privilegia esclusivamente l’aspetto, troppo spesso solo nominalmente “raggiunto”, dell’economicità dell’opera da realizzare, inibendo la capacità di rinnovare il carcere dal punto di vista della sua qualità architettonica e coerenza spaziale con le finalità della pena. Si impedisce, quindi, il progresso del trattamento intramurale, valore promosso dalla riforma penitenziaria del 1975 (Cesare Burdese 16.6.2009). Per questa ragione, nelle facoltà di Architettura e di Ingegneria non si attribuisce al carcere il rango di analoghe strutture di pubblica utilità. Non ne viene curato l’insegnamento, non esistono pubblicazioni recenti. La progettazione è estromessa dal circuito del libero mercato. I modestissimi progetti architettonici non sono che parzialmente compatibili con l’ordinamento penitenziario e con l’imperativo costituzionale. Non tengono conto, ad esempio, che la struttura deve essere funzionale al percorso risocializzante e non alla afflittività della pena. L’articolo 5 della Legge penitenziaria dispone che gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti. Il successivo articolo 6 chiarisce quali siano le qualità richieste ai locali di soggiorno e di pernottamento. L’articolo 14 stabilisce criteri per assegnazione, raggruppamento e categorie dei detenuti. Il titolo II, al capo I, tratta degli istituti penitenziari, distinguendoli (art. 59) in quattro categorie. Al successivo articolo 64, chiarisce che i singoli istituti devono essere organizzati con caratteristiche differenziate in relazione alla posizione giuridica dei detenuti e degli internati e alle necessità di trattamento individuale o di gruppo degli stessi. Potremmo poi aggiungere che non prevedono il refettorio (DPR 230/00, articolo 13, comma 3), non possiedono adeguati spazi destinati allo studio, al lavoro, all’impiego costruttivo del tempo libero. Sono, soprattutto, organizzati sul concetto pena = cella e cella = esclusione.

Lo schema di penitenziario tipo per circa 400 posti detentivi, definibile ad aggregazione radiale e contenuto nel documento programmatico del piano straordinario, è derivato dai vecchi sistemi fine ‘800. Rappresenta l’immagine della regressione dell’edilizia penitenziaria italiana, in totale assenza di attenzione da parte di chi di architettura si occupa. Si conferisce all’architettura una valenza oppressiva, nemmeno minimamente mediata da una forma plastica dei fabbricati. La delocalizzazione degli istituti dai centri cittadini determina ulteriore contrasto con i principi e le norme volte a favorire i legami con la collettività esterna. Vengono utilizzate le riserve di spazio delle aree suburbane e di frangia. Manca la ricerca e la progettazione di spazi cerniera con il territorio circostante. Il processo costitutivo di un rapporto tra città e carcere è infinitamente più lento e complicato. Il progetto di realizzazione di strutture galleggianti, ove non confortato dai suggerimenti e dalle indicazioni di quanti, direttori d’istituto e comandanti, realmente vivano e conoscano la realtà penitenziaria, impatterà ancora di più con le reali possibilità di interazione con la società esterna e costringerà ad un’ulteriore lontananza dalle ipotesi trattamentali per quelle fasce di extracomunitari comunque destinate ad un futuro di espulsione. Costituzione e ordinamento penitenziario pare non siano considerati dall’attuale progettista, quasi che la questione dell’edilizia sia una semplice e modesta riproposizione del concetto arcaico di pena. Il termine carcere, secondo alcuni, deriva dal latino coercere. Secondo altri, dall’ebraico carcar, tumulare. Il modello architettonico attuale appare più orientato verso quest’ultimo. Del resto, come si è già detto, non esiste in Italia una facoltà di Architettura che preveda, all’interno del suo corso di laurea, una qualche attenzione per la materia. Né esistono architetti, o progettisti, che possono essere indicati come esperti di edilizia penitenziaria. Si continua a progettare su modelli architettonici uguali e senz’anima. Ma, soprattutto, senza legarne l’identità alle funzioni della pena. Progettista e fruitore sono distanti. Non dialogano fra loro. Quando il progetto è realizzato, si ricomincia da capo con modifiche ed adeguamenti. Il fruitore è insoddisfatto, perché vengono tradite le aspettative ingenerate dal nuovo.

Gli studi di fattibilità devono essere affidati alla preliminare valutazione di quegli operatori che hanno vissuto una lunga esperienza di organizzazione e gestione delle strutture periferiche. Gli ingegneri troveranno le soluzioni “tecniche”, ma dopo che sia conosciuta e definita destinazione, tipologia di detenuti, attività, le infinite variabili che sono patrimonio e terreno di quotidiano confronto del fruitore e non del progettista. L’ultimo progettista consapevole delle finalità rieducative della pena può essere considerato l’architetto Sergio Lenci, ma le sue realizzazioni risalgono a circa trenta anni fa. Oggi, la progettazione è affidata ad uffici tecnici dell’amministrazione penitenziaria, che ripetono in un continuo copia/incolla uno stereotipo sempre più stimolato dalla semplicità di costruzione, dal risparmio dei fondi, dalle regole delle scatole cinesi: la più piccola è la cella, poi la sezione, il piano, il cortile, il padiglione. E se vogliamo un istituto più grande, basta duplicare, triplicare, affiancare scatola a scatola e rinchiuderle in una scatola più grande. Si tratta sempre di scatole senz’anima. Contenitori fatti per rinchiudere, per tumulare. Illustri studiosi hanno definito il carcere in Italia come una struttura re-infantilizzante e non come una struttura re-sponsabilizzante. Manca l’anima al progetto lasciato nelle sole mani dell’ingegnere che, necessariamente, lo misura in termini di efficienza e solidità delle strutture: robustezza dei muri, numero di cancelli e di corridoi. Egli è portato a pensare che il carcere deve essere sicuro, destinato a contenere, a non far evadere, a non far entrare nessuno dall’esterno. Deve dimostrare una sua intrinseca e visibile capacità ad essere inviolabile dall’interno e dall’esterno. Manca l’approccio della conoscenza normativa, della dignità di chi vi è rinchiuso e di chi vi lavora. Manca il dimensionamento degli spazi in funzione di un risparmio di risorse umane, di una facilità di manutenzione, di una riduzione degli spostamenti. Il carcere della rieducazione deve invece essere sempre meno re-infantilizzante e sempre più re-sponsabilizzante. La cella è solo il luogo dove si riposa, quindi necessariamente “lontana” dai luoghi dove si ri-costruisce la dignità della persona reclusa. È fatto di spazi per la scuola, il lavoro produttivo, le attività di tempo libero assistito, i colloqui con gli operatori.

È fatto di spazi perché la pena non sia inedia, ma crescita, perché il tempo trascorso in espiazione sia produttivo e portatore di risultati. All’interno dei complessi carcerari, è ancora opportuno tenere conto di tutti i fattori ambientali che possono influire sui comportamenti, sia dei detenuti, sia degli operatori. Servono modalità di riduzione dell’inquinamento acustico, progettazione degli interni orientata, alla ricerca di una caratterizzazione meno istituzionalizzante. Ad esempio, attraverso l’utilizzo dei colori e della luce. È necessario creare spazi di personalizzazione e di caratterizzazione dei locali. Ci si può riferire a progetti di arte terapia, ma anche più semplicemente ad incentivare la realizzazione di opere (ad esempio, sculture, vetrate, murales) realizzate dai detenuti e che arricchiscano gli ambienti, rendendoli più facilmente accettati (Corrado Marcetti, 13.6.09). In Francia, Paese con un patrimonio di edilizia penitenziaria più vecchio, l’approccio è modulato sulla base di tre criteri basilari: dignità, sicurezza, riabilitazione. È generalmente richiesta all’architettura un’organizzazione degli spazi che faciliti la coesistenza pacifica e l’esecuzione di molte attività che incoraggino la reintegrazione nella società. Un’organizzazione che garantisca adeguati spazi ai servizi dell’amministrazione e un alto livello di flessibilità. In Italia, il carcere è tema ampiamente rimosso dalla cultura architettonica. Modesti segnali di risveglio possono esser fatti risalire ad un’iniziativa della primavera del 2001, a Roma: concorso di idee per un prototipo di istituto penitenziario di media sicurezza destinato a duecento detenuti ed al recente seminario Gli spazi della pena e l’architettura del carcere, organizzato presso il Carcere di Sollicciano, a Firenze, il 13 giugno 2009. Entrambi ignorati dall’amministrazione penitenziaria. La rimozione o il disinteresse, e quindi lo scarso dibattito, sono conseguenza del fatto che non si è voluto andare verso l’ipotesi di uno spazio responsabilizzante, dove i soggetti, sebbene reclusi, esprimano soggettività, svolgendo attività e assumendo compiti volti alla gestione del loro presente. Si è mantenuta, invece, l’idea di uno spazio infantilizzante, dove al soggetto è chiesto di obbedire a regole e di recepire ordinatamente quanto a lui fornito e proposto. Tutto è passività, nulla è organizzazione responsabile, lo spazio è rimasto un mero contenitore muto. I più recenti capitolati prodotti dalla competente D.G. del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fanno riferimento ad una progettazione che prevede che l’edificio detentivo debba essere organizzato in modo tale da avere sullo stesso piano più sezioni attestate ad uno snodo distributore, comprendente i percorsi verticali.

La compattezza, al fine di razionalizzare i percorsi, centralizzare gli impianti ed economizzare l’impiego di personale è data dall’adozione di un unico corpo di fabbrica, con i servizi generali in comune, allocati in un corpo di fabbrica con tipologia a piastra. Un tale progetto è la negazione di ogni attività trattamentale, se non quella mirata al solo colloquio con gli operatori. Al più, potrebbe essere utilizzato come modello di ampliamento della capienza di un istituto esistente, che già possiede tutte quelle risorse strutturali orientate al soddisfacimento del disposto normativo. In effetti, si è prodotto tale progetto per superare la norma che prevede una competenza degli uffici tecnici dell’amministrazione committente solo per la manutenzione straordinaria, per le ristrutturazioni e per i restauri. Il programma straordinario realizza un ulteriore superamento della previsione normativa che attribuisce la competenza al Ministero delle Infrastrutture. Il luogo fisico, il suo disegno, la sua organizzazione sono conseguenza e motore del mutamento concettuale di ciò che in esso si realizza. Ne è conseguenza perché avviene dopo la riflessione teorica sui significati e le funzioni del suo contenuto, ma ne è anche consolidamento perché dà al mutamento una connotazione fisica, concreta (Mauro Palma 13.6.2009). Il carcere deve necessariamente essere reinterpretato con una diversa organizzazione spaziale in cui il detenuto sia forzato ad assumere responsabilità e si prepari al suo ritorno nella società. Deve prevedersi una diversa possibilità di spostamento per poter frequentare luoghi di socializzazione e stanze per le attività ludiche, ma anche aule scolastiche e laboratori. Il carcere deve indirizzare all’autodisciplina del gruppo ed alla capacità di autoregolamentazione che ciascuno deve acquisire attraverso responsabilità ed interazione.

Francesco Dell’Aira
Direttore del carcere di Terni, componente del Consiglio Direttito del SI.DI.PE.
(Sindacato Direttori e Dirigenti Penitenziari)

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