La criminalità organizzata non vive solo nella società libera. Esiste ed agisce anche nelle carceri, dove recluta, istruisce, progetta e ordina. Quella alla criminalità organizzata è una guerra che si può vincere solo attraverso una strategia che coinvolga tutti i settori (sociale, politico, culturale, amministrativo e giudiziario).
Le difficoltà del sistema penitenziario colpiscono tutto il Paese. Ma colpiscono soprattutto, o con peculiarità specifiche in rapporto al contesto socio-economico, il Sud. L’attuale crisi del sistema penitenziario rischia di produrre al Sud danni maggiori, perché si inserisce in un ambiente già depresso e più difficile per la presenza grave ed endemica della criminalità organizzata. La situazione di sovraffollamento carcerario crea tensioni forti. Rischia di diventare uno strumento di destabilizzazione anche da parte della criminalità organizzata che, in modo silente e nascosto, è in grado di approfittare delle tensioni e di stimolarle per collassare il sistema penitenziario. Che è fragile, perché senza mezzi, poliziotti, educatori, risorse finanziarie.
Tanto più sarà in crisi il presidio di legalità e sicurezza che il carcere rappresenta, tanto più la criminalità organizzata potrà strumentalizzare tale disagio e rafforzarsi. Un reale ostacolo alla criminalità organizzata può opporsi solo investendo adeguate risorse finalizzate al rafforzamento dei presidi di legalità. Condizione essenziale è allora una maggiore presenza dello Stato sul territorio, attraverso le Forze dell’Ordine, tutte le forze di polizia, anche penitenziaria, perché la criminalità organizzata non vive solo nella società libera. Esiste ed agisce anche nelle carceri, dove recluta, istruisce, progetta e ordina.
Occorrono anche educatori, assistenti sociali e psicologi. Occorrono, cioè, tutte quelle risorse umane necessarie a contrastare la criminalità attraverso l’impulso pedagogico e risocializzante. Ancor più indispensabile nelle terre di mafia, per contrastare la subcultura del crimine, che promuove il denaro facile attraverso la lesione dei diritti altrui. Nell’istituzione penitenziaria, e nei suoi operatori, occorre creare coesione istituzionale, coordinamento tra le diverse istituzioni, per un operare congiunto e mirato al contrasto della criminalità organizzata. Occorre anche nuova linfa dirigenziale, che vada a rimpinguare la dirigenza penitenziaria, negli anni ridottasi vistosamente a causa dei naturali collocamenti a riposo che hanno prodotto carenze di organico non colmate.
Da anni, ormai, non vengono banditi concorsi. Il direttore-dirigente penitenziario costituisce il volano del carcere, l’organo decisionale e di bilanciamento delle esigenze penitenziarie. Occorre, pertanto, non solo che ogni istituto penitenziario abbia il proprio direttore, ma che questi possa contare su altri dirigenti e su funzionari in ciascuna delle aree dell’Istituto per assicurare la complessa gestione penitenziaria. Un sistema penitenziario senza risorse è un sistema che, nella migliore delle ipotesi, riesce solo a sopravvivere. È invece necessario un sistema penitenziario che vive ed opera in una progettualità di miglioramento, non di mera emergenza, in modo che si creino le condizioni di funzionalità necessarie ad un’azione di contrasto alla criminalità organizzata coordinata con le altre istituzioni della sicurezza. Il carcere è un osservatorio privilegiato. Se utilizzato appieno, è in grado di fornire letture importanti del territorio per un efficace contrasto alle mafie. Quella alla criminalità organizzata è una guerra che si può vincere solo attraverso una strategia che coinvolga tutti i settori (sociale, politico, culturale, amministrativo e giudiziario).
Per questo occorre utilizzare tutte le risorse disponibili. La criminalità organizzata, peraltro, si avvale della criminalità comune, dalla quale assolda i propri soldati, i propri garzoni, e questa manovalanza utilizza e controlla. Il mafioso contemporaneo é quello che gestisce patrimoni, è sempre più istruito e ben collocato nella società. Cura gli interessi attraverso una manovalanza fatta di persone senza lavoro e senza futuro, per poche briciole disposte a tutto. Sovente, all’interno delle carceri, anche il delinquente per reati comuni è in qualche modo legato, “affiliato” o comunque “gravitante” nell’ambito di un’organizzazione mafiosa, soprattutto al Sud. Le organizzazioni mafiose, in questo modo, non solo hanno soggetti che potranno utilizzare quando saranno liberi, ma possono orientare o prescrivere comportamenti all’interno delle carceri.
Mascherati dalla rivendicazione di diritti del detenuto, mirano all’attenuazione dei controlli, se non anche alla tensione penitenziaria. È per questa ragione che al Sud occorre prestare un’attenzione particolare al grave problema del sovraffollamento. La criminalità organizzata potrebbe cercare di strumentalizzare il momento di difficoltà che le carceri stanno affrontando per acutizzare la percezione del disagio reale che la detenzione in stato di sovraffollamento determina, con l’obiettivo di minare l’ordine e la sicurezza interni. Non bisogna dimenticare che, al di fuori delle prescrizioni più rigorose che la legge stabilisce per i soggetti sottoposti al regime speciale di cui all’art.41 bis O.P., meglio conosciuto come “carcere duro”, il detenuto, anche mafioso, ha di norma la possibilità di effettuare telefonate, il diritto di fruire di colloqui con i familiari senza essere ascoltato ed il diritto di ricevere ed inviare corrispondenza senza alcun controllo sullo scritto.
Occorrono, allora, non solo interventi normativi che consentano un controllo dei capi mafiosi, già sottoposti al 41 bis, ma anche norme che rendano possibili maggiori controlli sugli altri detenuti, al fine di combattere la criminalità organizzata. L’errore più comune sta nella diffusa convinzione che il carcere sia una sorta di realtà isolata dal contesto territoriale. Chi delinque, si pensa, è allontanato dalla società, rinchiuso e controllato in ogni sua azione, cosicché non abbia alcuna possibilità di contatto con l’esterno. Quando poi, in qualche occasione, ci si accorge che così non è, ci si scandalizza, ignorando che il carcere non può vietare ciò che le leggi consentono. Si deve allora ricordare che i detenuti effettuano regolari colloqui con le persone autorizzate, i colloqui sono controllati visivamente e non possono essere ascoltati, le stesse telefonate consentite non sono ascoltate, se ciò non sia disposto dall’autorità giudiziaria. Parimenti, non sono di norma registrate, se non per alcuni reati più gravi. I detenuti, anche i boss mafiosi, qualora non sottoposti al 41 bis, non sono gravati dal visto di controllo sulla corrispondenza, se non in relazione a specifiche esigenze e su provvedimento dell’autorità giudiziaria competente. Dobbiamo pensare a quanti detenuti mafiosi sono in carcere ed a come un flusso costante di comunicazioni con l’esterno non venga monitorato.
L’obiezione potrebbe essere che il visto di controllo sulla corrispondenza non soddisfa le esigenze di sicurezza e quelle investigative, perché il relativo provvedimento deve essere notificato al detenuto. Per contro, si consideri che comunque il controllo su tali flussi comunicativi recherebbe non poco disturbo alle organizzazioni criminali. Ricordo poi che, per effetto della legge n.95 del 2004, persino l’ispezione della busta nella quale è contenuta la corrispondenza, per rilevare denaro o altri generi vietati o pericolosi diretti al detenuto, sia pur senza lettura dello scritto, deve essere preventivamente autorizzata dall’autorità giudiziaria, o consentita dal detenuto. Occorre quindi essere consapevoli che il sistema presenta spazi di aggredibilità, soprattutto in contesti dove la criminalità organizzata è forte e dove anche il detenuto comune è socialmente inserito in un contesto di prossimità alla criminalità organizzata, anche quando non ne faccia parte organicamente. È necessario che siano ben considerati gli effetti di un regime penitenziario che ha un impatto sulla sicurezza diverso a Trieste rispetto a Napoli, Bari, Catanzaro o Palermo. Se poi si ritiene che alcune norme costituiscono un acquisto irrinunciabile di garanzia dei diritti individuali, allora dobbiamo ammettere che vogliamo rinunciare ad una maggiore garanzia sociale.
Rosario Tortorella
Membro del Consiglio Direttivo del SI.DI.PE. (Sindacato Direttori e Dirigenti Penitenziari)
Direttore della Casa Circondariale di Catania “Piazza Lanza”