La cellula staminale mesenchimale rappresenta un candidato ideale per protocolli di terapia cellulare per le malattie neurodegenerative, sia per la sua possibile trasformazione in cellula simil-neuronale, sia perché produce fattori neurotrofici in grado di modificare il microambiente danneggiato.
Le cellule staminali (CS) sono un argomento di grande attualità, sia per la ricerca scientifica, sia per le implicazioni bioetiche che comportano. L’attività scientifica in questo settore sta facendo passi da giganti, come testimonia il numero sempre crescente di lavori scientifici pubblicati su questo argomento. Tali studi permettono non solo di capire i meccanismi biologici che determinano lo sviluppo di un organismo complesso, ma anche di condurre una ricerca traslazionale capace di trasferire i risultati prodotti in laboratorio all’attività clinica. Ciò determina grandi aspettative nella popolazione dei “malati” e grande attenzione mediatica. La forte impronta bioetica che caratterizza il dibattito scientifico sulle cellule staminali ha indotto alcuni paesi, tra cui l’Italia, ad attuare politiche di tipo restrittivo. Altri, come la Gran Bretagna, risultano essere più liberali. Il dibattito verte sulla possibilità di utilizzare le cellule staminali embrionali o, in alternativa, solo le cellule staminali adulte. Nel nostro Paese, la ricerca scientifica si è dovuta focalizzare sulle cellule staminali adulte, ricercandone nuove fonti, dopo quelle classicamente note, quali quelle di origine midollare (presenti all’interno del midollo osseo) e cordonali (presenti all’interno del sangue del cordone ombelicale), ed identificandone le variabili biologiche. Midollo osseo e sangue del cordone ombelicale contengono Cellule Staminali Ematopoietiche (CSE), idonee ad originare tutte le cellule mature del sangue, e Cellule Staminali Mesenchimali (CSM), in grado di dare origine a diverse cellule dell’organismo, tra cui cellule dell’osso (osteoblasti), della cartilagine (condrociti), del tessuto adiposo (adipociti), dei tendini (tenociti), del muscolo (miociti), del microambiente midollare (cellule stromali), e, probabilmente, di “transdifferenziare” in neuroni.
Mentre le cellule staminali ematopoietiche sono ampiamente utilizzate per le cure delle malattie ematologiche, tumorali e non, esistono grandi ostacoli all’impiego clinico di altre cellule staminali, quali quelle mesenchimali, nonostante gli studi preclicnici siano incoraggianti. A tale proposito, si è compreso che la staminalità è una funzione, più che una caratteristica temporalmente legata ad un gruppo di cellule, e può essere evocata grazie all’impiego di geni o di miscele di fattori di crescita. La staminalità è il frutto delle interazioni tra genoma (contenuto nel DNA) e ambiente e dell’interazione tra cellula e microambiente. In tale ottica, diventano di cruciale importanza tutte le molecole, i fattori di crescita e di adesione prodotti dalle stesse cellule staminali. In particolare, le CSM sono in grado, tramite la produzione di molecole particolari, di agire direttamente sul tessuto danneggiato (neuronale, osseo, cartilagineo), riducendone l’infiammazione, o di stimolare indirettamente le cellule staminali in loco ad intervenire nel processo di rigenerazione tessutale. La cellula staminale mesenchimale rappresenta, pertanto, un candidato ideale per protocolli di terapia cellulare per le malattie neurodegenerative, sia per la sua possibile trasformazione in cellula simil-neuronale, sia perché produce fattori neurotrofici in grado di modificare il microambiente danneggiato. In tale scenario, la nostra struttura, in collaborazione con l’unità neurologica diretta dalla dott.ssa Mazzini, ha iniziato i primi protocolli sperimentali per la cura della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) con le cellule staminali. La SLA, conosciuta anche come Morbo di Lou Gehrig o malattia di Charcot, è una patologia degenerativa del sistema nervoso centrale che interessa selettivamente i motoneuroni centrali (a livello della corteccia cerebrale) e periferici (a livello del tronco encefalico e del midollo spinale).
La morte progressiva ed irreversibile dei motoneuroni si traduce, sul piano clinico, in una progressiva plegia di tutta la muscolatura spinale e bulbare, che si manifesta con disfagia, disartria, perdita del controllo dei muscoli scheletrici, fino all’exitus, generalmente determinato da insufficienza respiratoria, nell’arco di 2 o 5 anni dall’esordio. L’eziopatogenesi della malattia è al momento attuale sconosciuta e non vi sono terapie in grado di modificarne il decorso. L’approccio terapeutico basato sull’utilizzo di CSM nella SLA è iniziato nel 2001, con uno studio pilota di terapia cellulare che ha coinvolto nove pazienti, sottoposti ad espianto di midollo osseo per isolare le CSM autologhe. Tali cellule sono state poi “espanse” in laboratorio e successivamente somministrate a livello del midollo spinale mediante operazione chirurgica. Un secondo protocollo con modalità di conduzione molto simili al precedente è stato condotto su altri 10 pazienti dopo aver avuto l’autorizzazione da parte del Ministero della Salute. Entrambi gli studi avevano l’obiettivo principale di verificare la sicurezza e la non tossicità del trapianto di CSM a livello intraspinale. Tutti i pazienti coinvolti in questa sperimentazione sono stati, e vengono tuttora, sottoposti a monitoraggio periodico dello stato di malattia. Tutti i dati relativi vengono comunicati all’Istituto Superiore di Sanità ed inseriti nel database nazionale per la terapia genica e cellulare. I risultati ottenuti dalle valutazioni cliniche (esami neurologici) e strumentali (risonanze magnetiche), effettuati finora sui pazienti, anche a distanza di 8 anni dall’impianto, hanno dimostrato che le CSM iniettate a livello intraspinale sono sicure e ben tollerate e non hanno subito modificazione genetiche o stimoli proliferativi tali da indurre trasformazioni tumorali. In alcuni pazienti è stata osservata una stabilizzazione della malattia, ma, sebbene questi dati siano incoraggianti, non è possibile trarne conclusioni cliniche, dato il numero ristretto di pazienti trattati.
La trasferibilità di questo protocollo clinico dal laboratorio al paziente è stata un iter lungo e laborioso, che ha coinvolto unità operative differenti, ognuna con una propria competenza, la cui interazione e collaborazione è stata fondamentale nelle varie fasi del processo. Gli studi preclinici sono risultati fondamentali per definire il protocollo sperimentale, a partire dagli esperimenti in vitro sulla caratterizzazione e capacità differenziativa e proliferativa delle CSM fino a quelli in vivo per verificare la loro sopravvivenza, migrazione ed efficacia dopo essere state trapiantate in topi con una mutazione genetica che causa una malattia molto simile alla SLA. È necessario, inoltre, ricordare che l’attuale normativa prevede che il prodotto di terapia cellulare utilizzato per qualsiasi sperimentazione clinica sia paragonato ai farmaci. Come tale, deve sottostare a regolamentazioni nazionali ed internazionali molto rigide per dimostrare le sue caratteristiche di efficacia, sicurezza e qualità. Ogni nuovo farmaco sperimentato per la prima volta sull’uomo comporta rischi ignoti e presenta proprietà farmacologiche e tossicità ignote. Pertanto, la prima fase di uno studio (fase I) ha l’obiettivo di monitorare, su un numero ristretto di pazienti, il primo contatto del farmaco sull’uomo ed analizzarne la sua tossicità. Il nostro studio, che prevedeva per la prima volta l’utilizzo clinico di CSM nella SLA, aveva l’obiettivo primario di verificare tali proprietà da parte delle cellule. Superata la fase I della sperimentazione, che ha individuato la non tossicità delle CSM nei pazienti con la SLA, è necessario condurre studi più ampi per stabilire l’attività e la sicurezza (fase II), l’efficacia (fase III) e, quindi, gli effetti a lungo termine del trattamento (fase IV) in un numero di pazienti sempre più ampio.
Franca Fagioli
Centro Trapianti Cellule Staminali e Terapia Cellulare (CTCS).
Direttore della divisione di oncoematologia pediatrica
all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino