Dal momento in cui viene cancellata l’omosessualità dalla lista del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (1973), le ricerche si sono focalizzate sulle determinanti della discriminazione nei confronti degli omosessuali.
Il modo in cui ci affacciamo al mondo sociale non è ingenuo. Al contrario, il nostro sguardo è guidato da un insieme di apriori che influenzano la nostra attenzione, costruiscono le nostre percezioni e guidano la nostra condotta. Non potremmo addentrarci nel caotico e ricco mondo sociale senza mettere ordine tra tutte le informazioni sensoriali a cui siamo esposti. Il nostro sistema cognitivo organizza tali informazioni in categorie, sulla base delle somiglianze e delle differenze tra di loro. Il processo di categorizzazione ci permette di semplificare l’ambiente sociale e di reagire agli stimoli che incontriamo, non sulla base delle caratteristiche proprie allo stimolo, ma sulla base delle caratteristiche proprie alla categoria a cui tale stimolo appartiene. Per esempio, se incontriamo un ragazzo omosessuale è molto probabile che le nostre reazioni immediate siano guidate dagli attributi associati al gruppo degli omosessuali piuttosto che dalle peculiarità dell’individuo che ci sta di fronte. In altre parole, le categorie ci permettono di inferire velocemente, non necessariamente in maniera accurata, delle qualità, così da poter prevedere il comportamento altrui e, di conseguenza, modulare le nostre reazioni. Il processo di categorizzazione tende ad estremizzare le differenze tra le categorie e ridurre o cancellare le differenze all’interno delle medesime. Pertanto, nel momento in cui ricorriamo ad un sistema di categorizzazione, vediamo molte più differenze di quante ce ne siano tra specie diverse e neghiamo la presenza di differenze tra gli elementi racchiusi all’interno di una di loro. Le immagini semplificate che emergono da questo processo sono gli stereotipi. Dal momento in cui l’Associazione Psichiatrica Americana ha cancellato l’omosessualità dalla lista del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (1973), le ricerche in psicologia si sono focalizzate sulle determinanti della discriminazione nei confronti degli omosessuali, con particolare riguardo agli stereotipi. Gli stereotipi relativi a questo gruppo sociale si concentrano in prevalenza sulla non conformità al ruolo di genere degli omosessuali (Taylor, 1983).
I gay vengono associati a tratti di personalità, comportamenti e abitudini tipicamente femminili. Sono considerati sensibili, delicati, affettuosi ed effeminati. Le lesbiche vengono rappresentate con attributi tipici del genere opposto; si ritengono poco attente alla cura del corpo, poco sensibili e impegnate in occupazioni lavorative e sportive tipicamente maschili. Gli stereotipi non sono soltanto delle immagini nella testa degli individui. Forniscono delle vere e proprie giustificazioni a posizioni discriminatorie. Prendiamo in considerazione l’atteggiamento contrario all’omoparentalità, la possibilità per una coppia omosessuale di essere genitori. Le argomentazioni sottese a tale atteggiamento ritraggono le lesbiche come poco materne, mentre i gay come interessati unicamente al sesso occasionale (Hitchens & Kirkpatrick, 1985). Entrambe queste rappresentazioni confermano l’idea che lesbiche e gay siano poco adatti al ruolo di genitori. Studi empirici nord-americani hanno confrontato sistemi familiari composti da genitori dello stesso sesso o di sesso opposto, con figli di 5 anni o in età adolescenziale. Tali ricerche hanno verificato l’inesistenza di differenze tra questi sistemi familiari in termini di salute mentale dei genitori, di clima familiare e di cura nei confronti della prole (Lyons, 1983; Miller, Jacobsen & Bigner, 1981). Un’altra credenza diffusa riguarda la sostanziale anormalità dell’omosessualità. Tale anormalità dovrebbe generare altre anormalità nella progenie nelle dimensioni della persona legate alla sfera relazionale, affettiva, sessuale: l’identità di genere (identificazione di sé come maschio o femmina), l’adesione ai ruoli di genere (rappresentazione di sé in maniera conforme a ciò che, in una determinata cultura, viene definito maschile e femminile), l’orientamento sessuale (scelta preferenziale per un partner affettivo-sessuale appartenente ad un determinato genere). La comparazione di campioni (rappresentativi e di convenienza) di figli di coppie omosessuali con campioni di figli di coppie eterosessuali ha dimostrato che l’orientamento sessuale dei genitori non influenza l’identità di genere dei figli né tanto meno l’adesione ai ruoli di genere (Patterson, 2006; Stacey & Biblarz, 2001). I due campioni sono molto simili nella scelta dei giochi, dei programmi televisivi e delle attività rilevanti per le convenzioni di genere. Inoltre, in nessuno degli studi presi in esame l’orientamento omosessuale dei genitori determina un orientamento affine dei figli.Per quanto riguarda l’età adolescenziale (Wainright, Russel, & Patterson, 2004; Wainright & Patterson, 2006) i ragazzi e le ragazze cresciuti/e in coppie omosessuali non differiscono dai coetanei cresciuti in famiglie eterosessuali relativamente alla capacità di instaurare relazioni affettive e significative con un partner. Infine, nei due campioni qui in esame, non emergono differenze significative per quanto riguarda il benessere percepito, il livello di auto-stima e di ansia, lo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale (Perrin, 2002).
Una differenza significativa emersa nei due campioni riguarda invece l’aver incontrato forme di discriminazione dovute alla tipologia non frequente di famiglia. Non esistono però in letteratura dei dati empirici che permettano di affermare con certezza l’esistenza di un legame tra tale esperienza di discriminazione ed il livello di benessere percepito (Patterson, 2006). È stato infatti riscontrato che i figli adolescenti di coppie omosessuali riescono a spiegare e a far comprendere ai pari la specificità della loro situazione familiare (Perin, 2002). Gli stereotipi relativi all’omosessualità sono molto spesso appressi e interiorizzati dalle persone omosessuali, vittime di tali stereotipi. In altre parole, attraverso l’esposizione agli stereotipi sull’omosessualità, veicolate dai mass-media e rinforzate nei gruppi dei pari, queste immagini stereotipiche vengono apprese anche dagli stessi omosessuali. Tale apprendimento può sfociare in un atteggiamento che giustifica la discriminazione nei confronti del proprio gruppo omosessuale. In letteratura si fa riferimento a questo atteggiamento con il termine di “omofobia interiorizzata”. Più elevata è l’interiorizzazione di tale omofobia, ossia maggiore è l’adesione ad una visione grottesca e denigratoria del proprio gruppo, minore sarà la probabilità che le persone omosessuali confidino il proprio orientamento sessuale ad amici e conoscenti. Inoltre, le persone omosessuali che considerano veri gli stereotipi relativi al proprio gruppo (Herek, Cogan, Gillis & Gunt, 1997) presentano maggiori sintomi depressivi, una più bassa auto-stima, fanno maggior ricorso all’alcol e alle droghe rispetto a coloro che sono convinti della non veridicità di tali stereotipi. La revisione delle credenze stereotipiche risulta pertanto un traguardo rilevante non solo per la correzione delle percezioni errate, gli stereotipi, ma altresì per il miglioramento della vita delle persone omosessuali. A tale scopo, è opportuno creare contesti normativi improntati alla non-discriminazione, per esempio mediante l’apertura dei diritti civili anche alle persone omosessuali. In questi contesti è opportuno esporre gli individui ad informazioni ed esempi relativi alle persone omosessuali meno stereotipate e più conformi alla variabilità esistente in questa popolazione. Attraverso un lavoro congiunto tra aspetti normativi e cognitivi possiamo sperare di aprire la strada verso una società meno discriminante.
Andrea Carnaghi
Docente e ricercatore dell’Università di Trieste presso la facoltà di psicologia