Vicini ai cittadini

Il terremoto è una grande prova per una comunità, ma, come ogni momento di crisi, può anche trasformarsi in un’occasione di rinascita e crescita. Ciò accade soprattutto se le autorità preposte sviluppano una capacità di progettazione a lungo termine.

1. Il “modello Friuli”
Quando si parla di terremoti in Italia, è difficile non menzionare quello che nel 1976 ha colpito il Friuli. Questa tragedia viene ricordata innanzitutto per le sue dimensioni: due forti scosse, una a maggio e una a settembre, oltre mille morti, centonovantatre paesi devastati (raggruppati in quarantuno comuni), diciottomila case distrutte, settantacinquemila danneggiate, quarantamila sfollati e più di quattromilacinquecento miliardi di danni (Strassoldo e Cattarinussi 1978).
Oggi, a più di trent’anni dall’evento, si parla ancora di un “modello Friuli”, che ha fatto scuola per diversi motivi. La gestione dell’emergenza e della ricostruzione e l’esperienza dell’autogoverno locale hanno sicuramente dato vita ad un laboratorio che ha prodotto risultati originali ed importanti. Nella fase iniziale, quella dell’immediato post-impatto, la priorità è stata quella di dare ricovero ai terremotati, costruire le tendopoli, garantire i servizi essenziali e mettere in sicurezza i paesi disastrati. Un aiuto fondamentale è arrivato dai sessantamila militari impegnati nelle attività di soccorso, molti dei quali già presenti sul territorio nelle numerose caserme dislocate in questa zona di confine. L’organizzazione dei soccorsi è stata rapida e ha avuto il suo centro logistico a Gemona, da subito identificata come la capitale del terremoto. Proprio lì, sotto una grande tenda, è stato costituito il primo centro operativo che è diventato uno dei tanti simboli del modello Friuli, anche a livello internazionale. Da questa esperienza è nata l’idea della Protezione Civile Italiana, che verrà istituita come servizio nazionale con la legge 225/1992. Dopo il successo del primo centro, ne sono stati organizzati altri, per un totale di dieci centri operativi dislocati sull’intero territorio, ognuno dei quali gestiva dieci comuni e circa duemilacinquecento persone.
Un’altra peculiarità del modello Friuli è costituita dall’affidamento della gestione del post-impatto e della ricostruzione ai comuni e ai sindaci, che ha permesso di semplificare notevolmente le procedure amministrative e burocratiche. Questa delega ai comuni ha conferito ai sindaci i mezzi, gli strumenti, le procedure d’intervento per la ricostruzione, facendo sentire le istituzioni più vicine ai cittadini in un momento di estrema difficoltà, amplificato dalla seconda scossa del settembre 1976.
Questo secondo evento non ha fermato il già avviato processo di ricostruzione, gestito seguendo lo slogan “prima le fabbriche, poi le case, infine le chiese”. La priorità è stata infatti quella di garantire i posti di lavoro per evitare un esodo di massa. Un secondo slogan è stato “ricostruire com’era, dov’era”, cioè operare sulle maglie generali dell’organizzazione pre-esistente, sia per garantire la continuità con il passato, sia per facilitare quel difficile processo di ri-appropriazione dell’identità, individuale e collettiva, che segue ogni evento catastrofico. A posteriori, questa scelta è stata giudicata da molti come una grande intuizione, che ha permesso di evitare lo spopolamento della zona. Esempio emblematico è stato quello del paese di Venzone, ricostruito, sia pure con grande spesa, proprio com’era. Protagonisti degli interventi, non solo a Venzone, ma nella maggioranza dei comuni colpiti, sono state le stesse persone colpite dal sisma. Hanno seguito personalmente i loro progetti, nonostante molti fossero stati temporaneamente sfollati nell’alto litorale adriatico (Grado e Lignano in particolare). Complessivamente, il 90% della ricostruzione è stato affidato direttamente alle famiglie, attivamente coinvolte nella progettazione del loro futuro anche grazie alle possibilità offerte dalla normativa regionale. Questa scelta si è rivelata vincente. Ha favorito un’intensa partecipazione e ha aumentato il senso di responsabilità, che ha trovato terreno fertile nella ferma volontà delle famiglie colpite di ricostruirsi la casa. L’esperienza della ricostruzione del Friuli viene presa a modello anche per i tempi record in cui è stata portata a termine, per l’efficace gestione da parte della regione e del commissario straordinario nominato dal Governo e per le scelte operate che hanno fatto da volano per la rinascita economica, ma non solo, di diversi paesi.

2. La ricostruzione delle comunità e il ruolo dell’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia
Come sempre accade dopo un evento catastrofico, la ricostruzione fisica dei luoghi (nel caso del Friuli favorita anche dall’adozione di un piano urbanistico regionale) prosegue di pari passo con la ricostruzione dell’identità, individuale e collettiva. Questa può sembrare annullata dopo un simile trauma, e molto spesso lo è, almeno nella percezione dei sopravvissuti. Le dinamiche di ri-appropriazione e ricostruzione dell’identità hanno però tempi diversi rispetto a quelle del territorio e seguono logiche proprie. Come già rilevato in numerose ricerche sulle catastrofi naturali (Fritz 1961, Wenger e Parr 1969), durante l’emergenza e l’immediato post-impatto prevalgono i comportamenti altruistici e solidaristici: spesso nasce una vera e propria comunità terapeutica (Bates 1970): i legami sociali si rafforzano, si crea un clima non conflittuale e un sistema di sostegno che produce una serie di effetti benefici per i sopravvissuti.
Ciò è accaduto anche in Friuli, dove, nei mesi successivi al terremoto, si sono attivati meccanismi virtuosi di assistenza, volontariato e mutuo-soccorso. Queste esperienze hanno generato una sorta di orientamento verso il presente, alimentato dalla necessità di azioni immediate, chiare, efficaci e di decisioni urgenti. Questo orientamento ha rafforzato in un primo momento l’identificazione comunitaria delle persone colpite. Con il passare del tempo, però, la situazione è cambiata ed è seguita una fase di chiusura, in cui i conflitti già presenti prima dell’evento si sono spesso ripresentati, acuiti dai disagi derivati dalle nuove condizioni e stili di vita, dalle incomprensioni tra gli sfollati e i baraccati (ovvero coloro che sono rimasti nelle zone colpite), dai problemi legati all’attribuzione delle responsabilità e al risarcimento dei danni, etc. Ulteriori tensioni sono state generate dal fatto che molti hanno dovuto cambiare la loro precedente occupazione, affrontando, soprattutto inizialmente, i problemi economici e i disagi legati alla ricerca di un nuovo lavoro.
Questa “doppia faccia” del terremoto, oggetto di studio dei ricercatori dell’Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia (Programma Emergenze di Massa), non è nuova per chi si occupa dell’analisi degli aspetti sociali legati alle catastrofi naturali. Infatti, nella maggior parte di questi casi, vale il cosiddetto “principio di continuità”, secondo il quale l’evoluzione di un disastro è determinata dalla situazione e dalle dinamiche sociali ad esso antecedenti. I cambiamenti che si possono osservare rappresentano quindi la continuazione di processi già in atto, piuttosto che l’introduzione di direzioni completamente nuove: la situazione pre-evento diventa il migliore indicatore per predire quanto accadrà nel post-evento (Quarantelli 1977; Cattarinussi e Pelanda 1981; Cattarinussi et al. 1981).
In Friuli, ciò ha implicato da un lato l’amplificazione di alcuni conflitti, e dall’altro un’accelerazione di una fase di trasformazione già in atto. Molti conflitti e recriminazioni hanno riguardato gli interessi delle persone, spesso contrastanti, ma anche le decisioni, i progetti e la pianificazione del futuro. Al contempo, il terremoto ha accelerato una fase di modernizzazione e sviluppo, caratterizzata da mutati processi di produzione e da un’industrializzazione in crescita. Non stupisce pertanto che gli anni del post-terremoto siano stati contrassegnati da grandi mutamenti nell’urbanistica, nell’economia, ma anche nel costume e nella mentalità delle persone. Le caratteristiche di questa trasformazione e, più in generale, la risposta sociale al disastro sono state oggetto di numerose indagini, che hanno analizzato le reazioni psico-sociali e politico-organizzative alla catastrofe, le strategie di adattamento nelle diverse fasi del disastro, le condizioni dei baraccati e degli sfollati, le aspettative dei principali attori economici, gli effetti a lungo termine, la solidarietà internazionale.

3. In conclusione
Il terremoto è una grande prova per una comunità, ma, come ogni momento di crisi, può anche trasformarsi in un’occasione di rinascita e crescita. Il clima di statu nascenti che caratterizza la fase della ricostruzione può cambiare la traiettoria evolutiva di una comunità. Ciò accade soprattutto se le autorità preposte sviluppano una capacità di progettazione a lungo termine, che recepisce la realtà e i bisogni delle persone, e che, al contempo, implica una certa risolutezza nel compiere alcune scelte decisive.
Il terremoto del 1976 non ha solo costituito una sorta di spartiacque nella storia del Friuli (tanto che si parla di “un prima e un dopo”), ma ha lasciato in eredità un prezioso capitale di esperienze, a livello istituzionale e politico. Nel primo caso, la decisione più significativa è stata quella di affidare il processo di ricostruzione ai comuni e di semplificare le procedure amministrative per la ricostruzione. Lo Stato ha fornito i “mezzi”, la Regione ha definito il quadro normativo, i Comuni hanno amministrato e i privati, e su richiesta anche il pubblico, hanno ricostruito: i risultati hanno sicuramente dimostrato che l’autonomia degli enti locali è un efficace strumento per risolvere i problemi di una comunità duramente colpita. A livello politico, invece, il fenomeno più interessante è stata la partecipazione della popolazione. I problemi e le loro soluzioni sono stati oggetto di discussione, sia nelle organizzazioni, sia in quelle nuove agorà della politica diretta che sono diventate le tendopoli. La pressione popolare sui centri decisionali è stata così forte e decisa da indurre la maggior parte di coloro che erano coinvolti nel processo della ricostruzione ad agire bene e in fretta.

Alberto Gasparini
Direttore, Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia
Anna Scolobig
Ricercatrice, Istituto di Sociologia Internazionale di Gorizia

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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