Violenza e salute

È paradossale che le vittime debbano subire, oltre all’aggressione, anche dei pregiudizi così negativi, colpevolizzanti per loro e de-colpevolizzanti per gli aggressori.

Subire violenze – essere insultata, umiliata, controllata, terrorizzata, stuprata, presa a schiaffi, a pugni, a calci, sbattuta contro un muro – tutto questo fa male alla salute. C’è davvero qualcosa di sorprendente? Eppure, la violenza sulle donne e le sue conseguenze sono state ignorate nella società e nei servizi sanitari fino a solo pochi decenni fa. Oggi sappiamo che la violenza sulle donne, quasi sempre compiuta da uomini che la vittima conosce bene, come il marito o il fidanzato, è frequente e che le sue conseguenze possono essere devastanti. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità “la violenza contro le donne rappresenta un problema di salute enorme. A livello mondiale, si stima che la violenza sia una causa di morte o disabilità per le donne in età riproduttiva altrettanto grave del cancro e una causa di cattiva salute più importante degli effetti degli incidenti del traffico e della malaria combinati insieme”. Le conseguenze della violenza sulla salute possono essere dirette – fratture, lividi e, in caso di stupro, gravidanze, malattie sessualmente trasmissibili o Aids – o indirette: le donne vittime di maltrattamenti accusano qualsiasi problema di salute più spesso delle altre. Anche violenze di natura psicologica – scenate, minacce, essere segregata in casa – possono scatenare gravi reazioni. A medio e lungo termine, la conseguenza psicologica più frequente è la depressione: le donne maltrattate dal partner hanno un rischio di depressione di 4/5 volte maggiore delle altre. In uno studio italiano sulle pazienti di medici di medicina generale, il 44% delle donne maltrattate era depressa contro l’11% di quelle che non subivano maltrattamenti. Un’altra conseguenza dello stato di disperazione indotto nelle vittime dai maltrattamenti è il suicidio: uno studio francese mostra che il rischio di un tentativo di suicidio aumenta di 19 volte nei mesi successivi ad un’aggressione fisica e di 26 volte in seguito ad una violenza sessuale. Queste reazioni non sono legate alla tipologia dell’aggressore: essere stuprate da un partner o un ex-partner (il caso di gran lunga più frequente), da un conoscente, o da uno sconosciuto (il caso in assoluto più raro) provoca reazioni di pari gravità. Non stupisce che le vittime di violenze frequentino più spesso i servizi sanitari e consumino più farmaci delle altre donne. Secondo i risultati di un’analisi della Banca Mondiale, queste donne utilizzano 3 volte di più i servizi sanitari (pronto soccorso, consultori ginecologici, servizi psichiatrici, Sert), fanno maggior uso (e abuso) di psicofarmaci, perdono più giorni di lavoro, vanno più frequentemente incontro ad invalidità, con costi enormi per loro stesse e per l’intera società. La violenza da un partner o ex partner è, probabilmente, la tipologia più frequente che una donna incontra nell’ambito relazionale e familiare. Tuttavia, non vanno dimenticate le violenze compiute da altri familiari: padre, madre, fratelli, figli e figlie adolescenti o adulti. Queste violenze, anche se prevalentemente psicologiche, possono essere devastanti e compromettere benessere e salute della donna che le subisce. Secondo le ricerche internazionali, nei paesi industrializzati, una percentuale di donne compresa tra il 20 ed il 30% ha subito nel corso della vita maltrattamenti fisici o sessuali da un partner o da un ex partner. Le violenze psicologiche sono ben più frequenti. Secondo uno studio che ho coordinato nel 2007, promosso dalla Commissione Regionale per le Pari Opportunità del Friuli Venezia Giulia, su un campione di più di 700 ragazzi e ragazze, il 9% aveva visto il padre picchiare la madre ed il 15% aveva assistito a maltrattamenti di tipo psicologico. Sono più colpite le donne giovani, anche se ci sono mariti che continuano ad essere violenti da anziani. Neppure la condizione di gravidanza protegge dai maltrattamenti; anzi, secondo alcuni autori, gravidanza e puerperio sarebbero dei periodi particolarmente a rischio. Esiste un aggressore “tipico”? Sì e no. No nel senso che gli uomini violenti non presentano, se non eccezionalmente, delle patologie mentali o sociali. L’associazione con l’alcolismo, rilevata da molti, non è esplicativa: ci sono uomini che bevono e sono violenti, ma non è mai il bere che causa la violenza. I mariti o fidanzati violenti, inoltre, non sono affatto confinati ad una determinata nazionalità, religione o classe sociale. Se è vero che ci sono culture o sub-culture in cui il dominio dell’uomo sulla donna è considerato più accettabile, e quindi le violenze sono più frequenti, è altrettanto vero che l’identikit dell’uomo violento corrisponde a quello di un “signor qualunque”: disoccupato, operaio, impiegato, professore, poliziotto, medico. È vero invece che l’alcolista, il disoccupato, lo straniero, sono più “visibili”, attirano maggiormente l’attenzione delle forze dell’ordine ed è più probabile che siano denunciati. Consideriamo i dati, concordi nelle varie ricerche, sullo stupro: almeno l’80% degli stupri è compiuto da uomini noti alla vittima; solo tra il 5 ed il 15% degli stupri viene denunciato; e più il rapporto vittima-aggressore è distante, come nel caso dello “stupro da sconosciuto”, più è probabile che ci sia la denuncia. Allora, in che senso l’uomo violento è tipico? Quel che lo caratterizza è un’idea della donna come un essere inferiore, che non ha diritto all’autonomia, alla libertà, e di sé stesso come legittimato a controllare, dominare, possedere questa donna. Gli uomini violenti, inoltre, anche se privi di patologie mentali identificate, hanno subito più spesso degli altri maltrattamenti in famiglia, o hanno visto il padre picchiare la madre: questo dato ci conferma l’importanza di intervenire nei casi di violenza domestica, anche per prevenire le conseguenze sui bambini ed il ripetersi delle violenze. Ci sono numerosi pregiudizi nei confronti delle donne vittime di violenza. Molti pensano che la donna maltrattata sia una cattiva moglie, che ha provocato, esagera, oppure è masochista, altrimenti, perché non lo lascia? È paradossale che le vittime debbano subire, oltre all’aggressione, anche dei pregiudizi così negativi, colpevolizzanti per loro e de-colpevolizzanti per gli aggressori. Una ricerca svolta a Bologna dal medico Lucia Gonzo, ha evidenziato che molti operatori sanitari sono privi di conoscenze e strumenti per riconoscere la violenza; molti considerano la violenza domestica un fatto privato tra marito e moglie e giustificano i maltrattamenti; la maggior parte è favorevole alla prescrizione di psicofarmaci alle vittime di violenza, risposta doppiamente inappropriata, perché trasmette alla donna il messaggio che ha dei problemi mentali e la rende meno reattiva nel proteggersi dalla violenza (fuggendo o chiamando la polizia). Questi pregiudizi non trovano riscontro nella realtà. Riguardo alle mogli maltrattate, basti ricordare alcuni dei motivi per cui una donna non lascia un uomo violento: lui la minaccia di cose terribili se lei se ne va (e spesso mette in atto queste minacce, vedi le persecuzioni o stalking e gli omicidi, che avvengono sempre dopo la separazione); non ce la fa economicamente, soprattutto se ci sono bambini; non vuole togliere il padre ai figli, e spesso i parenti le fanno pressioni in questo senso; spesso ha amato quest’uomo e spera che cambi, anche perché lui glielo promette… Tutto questo ha poco a che fare con il “masochismo” e molto con la mancanza d’aiuto e sostegno che le donne maltrattate incontrano nella famiglia e nella società. La prevenzione primaria della violenza sulle donne è un problema sociale e politico più che sanitario. La prevenzione secondaria (screening per l’intervento iniziale) e terziaria (intervento per minimizzare gli effetti a lungo termine) dovrebbero essere invece il focus dell’intervento sanitario. Ciò comporta una revisione delle pratiche di accoglienza e delle procedure che riguardano la prima visita della donna, sia in ambito medico che psicologico: è indispensabile inserire nei protocolli di accettazione di ogni paziente, in ogni tipo di servizio, domande sulla violenza. Sappiamo che tutte le donne sono vulnerabili, perciò è importante far domande a tutte le donne che accedono ad un servizio. Spesso il personale sanitario ammette di essere in difficoltà nell’affrontare il tema della violenza: temono che le donne si sentano offese se vengono fatte loro domande in proposito. Al contrario, numerose ricerche mostrano invece che le donne non sono disturbate da tali domande; anzi, se hanno subito violenza, colgono con sollievo l’occasione di parlarne con il sanitario. Il personale sanitario può rappresentare un soggetto privilegiato nell’intercettare su vasta scala il fenomeno della violenza contro le donne e può intervenire facilitando l’emersione del fenomeno e la riduzione del danno. Questo intervento dovrebbe avvenire nel contesto di un programma che coinvolga anche gli operatori sociali e della giustizia, le forze dell’ordine ed il mondo dell’associazionismo femminile. I Centri anti-violenza sono in grado di offrire alla donna rifugio, solidarietà e proposte concrete di uscita dalla violenza, e soprattutto di affiancarla nella rilettura della sua esperienza personale alla luce di una storia sociale e collettiva che le restituisca forza e consapevolezza di sé.

Patrizia Romito
Professore associato, Dipartimento di Psicologia, Università di Trieste

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

Rispondi