È molto difficile offrire un aiuto che permetta di riparare ferite profonde. Le donne parlano un linguaggio ed esprimono bisogni non sempre decodificabili, mettono in crisi comunità e servizi, ci costringono a confrontarci con la “follia”, con l’imprevedibile, con il sentimento dell’impotenza e con i nostri fallimenti.
Il problema del disagio psichico e, in molti casi, di vere patologie psichiatriche strutturate in donne vittime di tratta, è attuale ed in aumento, come denunciano le associazioni che di queste vittime si occupano. Molte delle strutture di accoglienza previste dall’art.18 ospitano donne con patologie psichiatriche conclamate tali da richiedere interventi specialistici e, spesso, anche il ricovero in ambiente ospedaliero. Ma qual è la causa di questo problema? Perché oggi rileviamo con sempre maggiore evidenza questa forma di sofferenza? Nella mia pluriennale esperienza di lavoro con queste donne (collaboro da anni con l’associazione GIRAFFA di Bari) ne ho incontrate molte e con il loro malessere mi sono confrontata. La maggior parte di loro, specialmente durante il primo periodo di permanenza in struttura, presenta disturbi psichici assimilabili al disturbo post traumatico da stress (insonnia, paura, ansia, ricordi persistenti dei traumi subiti), che però si attenua con il passare del tempo, a mano a mano che si crea una relazione d’aiuto con chi le ospita. A questa fase di malessere acuto, segue, per molte, un periodo “depressivo”, legato ad un complesso movimento psicologico per il quale queste donne si sentono “colpevoli” e non vittime di quanto è loro accaduto. Tale reazione, comune a molte vittime di violenza, è sostenuta dal desiderio inconscio di non sentirsi completamente in balia del proprio persecutore. Prendendo su di sé la colpa, si evita di sentirsi totalmente impotenti di fronte alla violenza: “se quello che mi è accaduto dipende da me, forse, comportandomi diversamente, potrò evitare di essere annientata“. Questo sentimento di colpa, se pur protettivo nei confronti dell’angoscia di annientamento, non permette di riconoscere la propria parte vittimizzata ed impedisce nei fatti di provare rabbia verso chi ci ha ferito. Raramente questi disturbi evolvono in patologie psichiatriche se si offre alle donne trafficate un adeguato supporto psicologico che permetta loro di orientare la propria rabbia non più verso se stesse, ma verso chi le ha vittimizzate. È dal superamento di questa fase che è possibile iniziare un percorso di “risarcimento”, interrompere la relazione, che esiste, tra vittima e carnefice e riconoscere le responsabilità fuori di sé, identificando chiaramente le proprie ferite interne. In questa fase, spesso, le donne arrivano a sporgere denuncia verso chi le ha costrette a prostituirsi. Negli ultimi tempi, però, il disagio psichico in forma strutturata di patologia è presente in un numero sempre maggiore di donne ospiti delle strutture di accoglienza. Fatto, questo, che ha messo in crisi non pochi operatori che avevano imparato nel tempo a confrontarsi con il percorso di fuoriuscita dalla tratta, spesso doloroso e angosciante. Di fronte, però, a disturbi psicopatologici imponenti, quali i deliri, le allucinazioni, i disturbi comportamentali, i tentativi di suicidio, gli operatori si trovano spesso impreparati. Così come spesso accade anche ai servizi sanitari cui queste vittime si rivolgono. Il più delle volte, queste donne hanno alle spalle esperienze di vita dolorose. In molti casi, già soffrivano, prima di arrivare in Italia, di forme di disagio psichico. Spesso, molte di loro avevano subito violenza anche nel loro paese d’origine (nella mia esperienza molte erano vittime di abuso sessuale intrafamiliare), oppure erano state esposte per lunghi periodi ad esperienze familiari violente. Su questa fragilità psichica si è successivamente inserita l’esperienza destrutturante della tratta, con tutte le implicazioni legate all’espropriazione del proprio corpo, all’annientamento della volontà, alla vendita della propria sessualità, alla riprovazione sociale e culturale legata alla prostituzione ed ai conseguenti fenomeni di esclusione sociale e di solitudine. È molto difficile offrire a queste donne un aiuto che permetta loro di riparare queste ferite profonde. Molte volte interrompono i programmi di protezione, accumulano tanti fallimenti, parlano un linguaggio ed esprimono bisogni non sempre decodificabili, mettono in crisi comunità e servizi, ci costringono a confrontarci con la “follia”, con l’imprevedibile, con il sentimento dell’impotenza e con i nostri fallimenti. Per poterle aiutare è necessario saperle ascoltare, non rinviando la loro cura a miracolistici interventi specialistici, ma imparando a farci carico del loro dolore.
Tina Abbondanza
Psichiatra, Direttore del Centro di Salute mentale di Bari