Donne comprate e vendute, rivendute e ricomprate. Donne considerate res nullius, cioè proprietà di nessuno e dunque di tutti o, meglio, di chi per primo riesca ad accaparrarsela facendone l’uso che più ritenga opportuno. Oppure storie di violenze su violenze.
Tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio, alcuni mutamenti di carattere statale, politico, economico o sociale hanno introdotto profonde trasformazioni ed hanno provocato un impatto rilevante in paesi a volte anche distanti da quelli dove tali mutamenti si sono verificati. Anche l’Italia è stata coinvolta direttamente da questi nuovi fenomeni e, da paese storicamente di forte emigrazione, si è trasformata in un paese di immigrazione. Con un termine efficace, potremmo dire che l’Italia è diventata una “frontiera”, investita dalle due principali ondate migratorie, una proveniente dai paesi poveri del sud del mondo e l’altra che ha origine nei paesi dell’Est europeo. Le motivazioni che spingono enormi moltitudini di esseri umani ad abbandonare il loro paese d’origine sono le più diverse. Dalla letteratura specialistica vengono definiti, a seconda dei casi, ‘fattori di spinta’ o ‘fattori espulsivi’ o ‘fattori di attrazione’. Altre motivazioni sono più direttamente legate a quanto è accaduto a ridosso del crepuscolo del Novecento, alle guerre, alle carestie, alle dittature, ai mutamenti di regime intervenuti nei paesi dell’Europa orientale dopo la caduta del muro di Berlino. Altre, ancora, hanno una più stretta attinenza con un moderno mercato mondiale ormai globalizzato, luogo sopranazionale, dove circolano le merci più disparate e dove trova spazio e mercato una nuova merce, la merce umana – donne e bambine o, a volte, bambini – da destinare al mercato del sesso a pagamento. Assistiamo così alla riemersione di un fenomeno che si pensava fosse oramai consegnato alle pagine più brutte della storia degli uomini: il fenomeno della riduzione in schiavitù di un numero enorme, ancorché difficilmente quantificabile, di donne, di fanciulle e di bambine costrette, con la violenza, a prostituirsi nelle strade delle nostre città. L’obiettivo del Progetto West è stato proprio quello di descrivere il fenomeno della tratta degli esseri umani – donne e bambine provenienti dai paesi dell’Est – per scopo di sfruttamento sessuale a pagamento. Dalla ricerca, molto ampia e che comprende cinque specifici campi di intervento, comprendiamo come il mondo della prostituzione sia un universo in rapida evoluzione e che, rispetto al passato più prossimo o più lontano, è mutato radicalmente di segno. È notevole la componente della prostituzione di tipo coatto, la vera e propria riduzione in schiavitù, che, dopo una lunga assenza dal proscenio della storia, ricompare prepotentemente nella fase aurorale di questo terzo millennio. La parte della ricerca riferita alle problematiche della tratta e dello sfruttamento si concentra sugli atti giudiziari prodotti nel decennio 1994-2004, nelle varie procure interessate. È proprio leggendo gli atti che ci imbattiamo di frequente in casi di violenza di vario tipo, di carattere psicologico, fisico e sessuale. Le parole delle vittime consegnate nei verbali della polizia giudiziaria o nelle deposizioni davanti ai giudici e in presenza della difesa degli imputati, ci danno un quadro di vita vissuta vivido e crudo. Senza le parole della vittima – sia pure filtrate dalla mediazione linguistica della prosa giudiziaria – non si potrà mai comprendere il senso di annichilimento, di forzata sottomissione, di distruzione della volontà e della stima di se stessa che può provocare, ad esempio, uno stupro fatto volutamente davanti ad altre persone costrette ad assistere a quella pubblica umiliazione. Questo pubblico del tutto peculiare, che fa da corona all’esibizione del maschio, è composto dalle altre vittime, obbligate a vedere con i propri occhi quanto potrebbe capitare anche a loro, se non si mostreranno docili. Poi, ci sono altri sfruttatori, che partecipano allo spettacolo come spettatori oppure come attivi protagonisti, alternandosi l’un l’altro. Questo particolare tipo di stupro si ripete più volte, e con le stesse modalità, per umiliare, spezzare resistenze, annullare volontà, imprimere un marchio che ne certifichi proprietà e totale assoggettamento. Senza le parole delle vittime, non si riesce a comprendere il senso di angoscia e di impotenza che investe queste donne dinanzi ai ricatti di chi minaccia ritorsioni sui familiari rimasti a casa, spesso figli o genitori anziani. In ogni caso, persone deboli e senza difese. Seppure i loro cari siano distanti, le donne sanno bene che i loro carnefici sono in grado di tenere fede alle loro minacce; è capitato già molte volte ad altre donne. E non si potrà neanche cogliere il senso di solitudine, di smarrimento, di vero e proprio spaesamento di giovani donne catapultate in Italia, un paese sconosciuto di cui ignorano la lingua e le abitudini, prive come sono di ogni documento di identità, e dunque senza un nome, un cognome, un luogo di nascita. Come definire le parole pronunciate da una giovane rumena che, conversando al telefono con un suo connazionale che si informava su come andasse il suo lavoro sulla strada a Rimini, gli risponde: “Mi sono comprata un grande orsacchiotto e dormo con lui”? Fanno tenerezza, ma, nello stesso tempo, sono parole agghiaccianti: da sole, in modo diretto ed immediato, ci dicono della solitudine e dell’immensa disperazione di una giovane donna. Sono percorsi personali, storie individuali, che sommate l’una all’altra ci danno anche la dimensione umana, quotidiana, privata, del moderno fenomeno della tratta e della prostituzione. I racconti delle ragazze sono utili anche perché ci descrivono concretamente la riduzione in schiavitù nella sua attualità, la trasformazione di un essere umano in una merce che, come i prodotti inanimati, può essere venduta e comprata, barattata, scambiata, esposta e ‘battuta’ in un’asta pubblica che si tiene all’estero, in appositi luoghi. Ma che sempre più di frequente si svolge in Italia, nelle nostre città. Donne comprate e vendute, rivendute e ricomprate. Donne considerate res nullius, proprietà di nessuno e dunque di tutti o, meglio, di chi per primo riesce ad accaparrarsele facendone l’uso che più ritiene opportuno. Oppure storie di violenze su violenze. Sempre dagli atti giudiziari, apprendiamo che una ragazza rumena di 18 anni è “stata cacciata da casa dalla madre dopo essere stata violentata da un ragazzo, quando aveva 14 anni. La madre le aveva detto che non voleva avere per figlia una prostituta, non considerando la violenza subita dalla figlia”. Non stupisce, allora, che sia diventata davvero una prostituta nel suo paese e che poi sia arrivata a Milano nella speranza di guadagnare di più. Anche qui, con parole semplici e chiare, è descritta la crudele motivazione che ha spinto tante ragazze a venire da noi o a recarsi in altri paesi europei a prostituirsi, perché macchiate nell’intimo, perché prive di via d’uscita. Come distinguere, quindi, una donna vittima di tratta e violenza da una prostituta che esercita per libera scelta e senza condizionamenti? Forse schiavitù non è il termine più adatto, perché evoca una condizione servile che non è direttamente o immediatamente collegabile all’uso sessuale del corpo. Del resto, chi vede una donna sulla strada o chi compra sesso da una donna rinchiusa in un appartamento, la definisce immediatamente come prostituta o, meglio ancora, puttana, usando un linguaggio popolare comprensibile a tutti. Senza esitazione, dirà che prostituzione è l’attività svolta dalle prostitute. Più difficile definire la donna costretta a prostituirsi, proprio perché manca la parola adeguata, adatta, chiara, immediatamente comprensibile a tutti. Ci sono alcune parole che vengono usate: schiava, donna trattata, trafficata, donna ridotta in condizione analoga alla schiavitù, prostitu-i-ta – con questa “i” che separa e distingue irrimediabilmente due mondi che, uguali all’apparenza, sono in realtà abissalmente diversi. Questi termini, però, non hanno avuto fortuna e, tranne quello di schiava, non sono entrati nell’uso popolare, ma solo nel linguaggio degli specialisti e degli addetti ai lavori. Trovare la parola o le parole adatte non significa porre un problema formale o linguistico, ma significa individuare i termini giusti per distinguere e per comprendere meglio aspetti profondamente diversi di uno stesso fenomeno e della violenza insito in sé. La parola giusta ancora non c’è, e la sua mancanza si sente.
Bianca La Rocca
Responsabile dell’ufficio stampa di Sos Impresa Confesercenti