Le donne vittime di violenza domestica hanno una maggiore probabilità di perdere il lavoro o abbandonarlo, facendo ricadere su di sè e i propri figli le conseguenze economiche, educative, sanitarie, sociali.
Qualche mese fa ho partecipato a una conferenza su finanza etica e genere e ho riscontrato una certa difficoltà a combinare queste due parole. “Strano!”, mi sono detta. Lo strumento per eccellenza che lega le donne al sistema creditizio è il microcredito. Sicuramente non parliamo di alta finanza ma di microfinanza, né di un ceto sociale ricco. Nei Paesi in via di sviluppo 88.726.893 donne sono clienti di microcredito ovvero l’83,24% del totale (Microcredit Summit Campaign). In Europa non siamo ancora a questi livelli, ci aggiriamo intorno al 30% della partecipazione femminile (in Spagna si arriva al 60%) che ha accesso al microcredito. Perché? Manca una cultura della finanza tra le donne? O forse questa assenza è il risultato di discriminazioni continue che si perpetrano a scapito del mondo delle fate, streghe, curatrici e angeli del focolare? Certo, finché il mondo non capirà che siamo generatrici di reddito, lavoratrici, imprenditrici, e risparmiatrici sarà difficile per noi farci valere con il sistema bancario! No, non vogliamo passare per le solite vetero femministe! Guardiamo i dati. In Europa le donne lavoratrici guadagnano in media tra il 15% ed il 17% in meno dei loro colleghi maschi per lo stesso lavoro; in Italia, secondo i dati della Presidenza del Consiglio, il ”differenziale retributivo di genere” è mediamente al 23,3%. In Italia lavora solo il 46,3% delle donne; sette milioni in età lavorativa sono fuori dal mercato del lavoro; al sud il tasso di occupazione crolla al 34,7%. Le donne che si presentano ad una banca per chiedere un prestito spesso non corrispondono al profilo richiesto (un po’ come la scarpetta di cenerentola): sono state casalinghe per troppo tempo, non hanno un curriculum adeguato, non hanno abbastanza soldi e ne chiedono troppi, non danno garanzie sufficienti per quello che la banca richiede loro (Esclusione Sociale). Inoltre, le attività lavorative scelte dalle donne spesso sono troppo piccole, richiedono poco capitale perché legate al settore dei servizi: piccolo commercio, turismo, cura e ospitalità; e prevedono un lavoro flessibile, part-time. Le banche hanno serie difficoltà a capire quale prodotto bancario è adatto a loro. (Esclusione Economica e di Prodotto Bancario). Dulcis in fundo recentemente è uscita una ricerca* che mostra come in Italia il numero dei crediti concessi ad imprese individuali e familiari sia cresciuto negli ultimi anni, ma se parliamo delle donne imprenditrici allora le cifre cambiano. Alle donne imprenditrici le banche chiedono in media un tasso di interesse più alto dello 0,30% rispetto agli uomini. Se il garante dell’impresa femminile è a sua volta donna, il tasso di interesse aumenta ulteriormente e la possibilità di finanziamento diminuisce. Ciò va decisamente controcorrente rispetto ai dati che confermano che le imprese femminili italiane sono mediamente più solvibili e meno rischiose di quelle maschili. Non c’è un dato che possa giustificare questo comportamento se non che forse “si tratta di discriminazione o di semplici pregiudizi”, forse “una donna è per la banca un cliente peggiore per il solo fatto di essere una donna”, afferma sempre Alesina ne “Il credito care alle donne” in www.lavoce.info. Se pensiamo che la presenza di donne nei consigli di amministrazione delle banche è scarsa, 2-3 donne ogni 10-15 uomini, e che quindi il settore bancario è riservato quasi esclusivamente agli uomini, forse troviamo la risposta da sole. Le donne sono maggiormente sottoposte a minaccia di disoccupazione e licenziamento degli uomini, cause la maternità o il matrimonio, quindi sono maggiormente vittime di processi di impoverimento rispetto agli uomini. Queste violenze economiche e lavorative ci riconsegnano al resto del mondo ricordandoci che il 70% dei poveri sono DONNE. Se incrociamo questi dati con quelli della violenza di genere diventa evidente come la donna sia costantemente ostacolata ed esclusa per cause di genere, aumentando i processi di impoverimento che si riflettono oggi nel mondo e domani sulle future generazioni. La violenza riduce l’abilità di una donna a lavorare; la tiene lontana da educazione, lavoro, reddito intrappolandola in una doppia spirale non solo di violenza ma anche di povertà. Le donne vittime di violenza domestica hanno una maggiore probabilità di perdere il lavoro o abbandonarlo, facendo ricadere su di sè e i propri figli le conseguenze economiche, educative, sanitarie, sociali. L’esclusione dal reddito si trasforma in impoverimento divenendo perdita di produttività che si riscontra a livello nazionale. Diverse inchieste hanno dimostrato che: • in India, le donne vittime di violenza perdono almeno sette giorni di lavoro e a volte sono licenziate per l’assenza protratta; • in Nicaragua i figli di donne vittime di violenza abbandonavano mediamente la scuola quattro anni prima rispetto agli altri bambini; • le donne colombiane che hanno subito violenza fisica guadagnano il 14% in meno delle altre. La società colombiana ha perso approssimativamente il 4% del PIL per le cause indirette della violenza domestica nel 2003 (Banca Mondiale). Molte sopravvissute degli stupri durante la guerra in Rwanda ancora oggi soffrono fisicamente delle ferite inferte loro riducendo la capacità di lavoro e di cura di se stesse e degli altri. In quante di queste situazioni possiamo riconoscere qualcuna di noi? Tutto il mondo è uguale per le donne, anche in Italia. Negli anni Pangea ha sperimentato che attraverso il microcredito le donne hanno maggiore autonomia economica o/e esperienze lavorative, di conseguenza hanno più opzioni per affrontare la violenza e la vita in generale. Migliorare la condizione economica e la sicurezza finanziaria non serve solo a fermare o prevenire l’impoverimento, ma anche ad avere maggior fiducia in se stesse, maggiore forza di decisione e riduce la vulnerabilità delle donne nei confronti della violenza, aprendo altre opzioni di percorsi e formazione. Ecco perché Pangea quest’anno “importa” il microcredito dalle sue esperienze all’estero, e lo attiva per le donne che vivono in Italia, per coloro che hanno subito violenza, sono in un percorso di uscita e vogliono reinserirsi socialmente e professionalmente, quante sono al margine dell’economia ma hanno idee ed esperienze per contribuirvi, coloro che si vogliono formare o si devono riqualificare, coloro che non sono bancabili ma hanno la forza di ricominciare da se stesse! Quest’opportunità è il nostro modo di rispondere alla crisi economica attraverso l’unica cosa che non può e non deve andare in crisi, la solidarietà. Mettiamo in rete e facciamo tesoro del nostro grande patrimonio che è la differenza di genere. Il microcredito è al nostro servizio!
*Alesina, A., Francesca Lotti & Paolo Emilio Mistrulli, “Do Women Pay More for Credit? Evidence from Italy”, Nber Working Paper 14202.
Simona Lanzoni
Responsabile progetti Fondazione Pangea Onlus