Il dibattito bioetico che aspira a ridare dignità al morente, s’è arrestato sul lacerante problema dell’eutanasia, ma il vivere e il morire è buono o cattivo, e forse bello o brutto, nella misura in cui gli si riesce a dare senso.
Oggi si parla di eutanasia anche nel nostro Paese. Ne parlano tutti. C’è chi è d’accordo, chi ne prevede uno spiraglio nel proprio programma politico, chi è contro. Eppure, la morte rappresenta un evento difficilmente comprensibile all’uomo contemporaneo, soprattutto alla luce della pretesa onnipotenza della tecnologia biomedica. Troppo facilmente, allora, il pensiero dell’eutanasia si presenta alla mente dell’uomo di oggi come soluzione a problemi che in realtà richiederebbero di approfondire gli eventi “vivere” e “morire”. Quando si toccano tematiche così profonde prima di dare una valutazione etica, è importante chiarire cosa si intende per eutanasia o aiuto a morire.
Il termine eutanasia deriva dal greco “eu – thànatos” per indicare una morte serena. Oggi il termine ha assunto un significato completamente diverso, sia nei contenuti, sia nei significati: non più morte serena e accettata perché la natura così vuole. In ambito bioetico per eutanasia s’intende una morte intenzionalmente provocata, non dolorosa, anticipata artificialmente da parte di una terza persona per porre fine alle gravi sofferenze psico-fisiche e spirituali di un malato incurabile. Tutto ciò con la giustificazione che la vita debba essere conclusa “dignitosamente”. Diventa quindi “soppressione per pietà”, per liberare il malato grave e inguaribile da una sofferenza ritenuta soggettivamente insopportabile. L’eutanasia si può procurare attraverso la somministrazione di farmaci che causano una violenta anticipazione della morte, e in questo caso si parla di eutanasia attiva. Eutanasia è anche il caso in cui volutamente ci si astiene dal somministrare le cure ordinarie e doverose (idratazione, alimentazione, cure igieniche, assistenza infermieristica) con l’intenzione di procurare la morte, ed è il caso dell’eutanasia passiva. Si distingue, inoltre, tra eutanasia volontaria, quando è esplicitamente richiesta dal paziente, ed eutanasia involontaria, quando la volontà del paziente non può essere espressa, perché persona incapace o perché praticata contro l’espressa volontà del paziente. Si definisce invece suicidio medicalmente assistito – neologismo di appena una decina di anni – la soppressione del paziente come conseguenza di un atto suicida dello stesso, ma consigliato e/o aiutato da un medico o assistito da un’altra persona. In realtà, le distinzioni citate non hanno ragione d’essere, poiché entrambe le modalità comportamentali – azione ed omissione, volontaria e involontaria, suicidio assistito – conducono alla realizzazione intenzionale di dare la morte al malato. Naturalmente, quando si parla di eutanasia, si arriva inevitabilmente alla questione dell’accanimento terapeutico, il cui significato sta nell’uso sproporzionato dei trattamenti terapeutici (ulteriori terapie farmacologiche, interventi chirurgici e terapie di rianimazione) pur di mantenere in vita artificialmente e con ogni mezzo un paziente in fase terminale. Quando la vita di un paziente è agli sgoccioli e non c’è più una ragionevole speranza di cure efficaci.
Tale pratica oggi è possibile grazie allo sviluppo medico-scientifico e all’applicazione delle nuove tecnologie all’esercizio medico. Non rientrano però nella categoria dell’eccezionalità dei mezzi di terapia l’idratazione, la nutrizione, l’aiuto alla respirazione, l’assistenza igienica ed un’attenzione infermieristica generale. Queste cure cosiddette “normali” devono essere sempre dispensate, perché esse rappresentano l’assistenza e l’accompagnamento, insieme alla terapia del dolore, al processo del morire. La loro sospensione, come si è detto, rappresenterebbe un procedimento di eutanasia passiva (Cr. Documento Comitato Nazionale di Bioetica 30/9/2005). Il tema dell’eutanasia si ripresenta costantemente in ogni dibattito riguardante la vita (il nascere e il morire). Il “morire” è drammatico in sé e, ad accentuarne i toni, si verificano casi che fanno riflettere e verso i quali si esprimono opinioni a seconda della concezione filosofica, antropologica, teologica, etica e morale. Quando la concezione antropologica è fondata sul valore della vita, sulla libertà e dignità della persona nonché sul significato del soffrire come esperienza dolorosa appartenente alla stessa natura dell’uomo, allora si perviene a soluzioni anti-eutanasiche. La perdita del carattere trascendentale della vita, il diritto di fare le nostre scelte, il desiderio di libertà, lo stile di vita edonistico, non si addicono al progressivo deterioramento fisico ed alla crescente dipendenza dagli altri, normale della fase terminale della vita. Pertanto, la conclusione secondo cui “la vita non vale la pena di essere vissuta in queste condizioni”, è troppo spesso la giustificazione per cui si assume la responsabilità di concludere la propria esistenza senza aspettare che la fine arrivi naturalmente. Il dibattito bioetico che aspira a ridare dignità al morente, s’è arrestato sul lacerante problema dell’eutanasia, ma il vivere e il morire è buono o cattivo e forse bello o brutto, nella misura in cui gli si riesce a dare senso. Di fatto, la richiesta di eutanasia è espressione di sconfitta e di incapacità di assistere la persona giunta negli ultimi momenti della propria vita. Tuttavia, la persona chiede con maggiore volontà di essere considerata come tale, con tutta la dignità possibile, come fine di ogni azione e mai come mezzo. Solo così si può parlare di umanizzazione dell’assistenza, umanizzazione della morte.
Licia Gentili
Infermiera professionale, esperta in bioetica,
laureata in Scienze dell’educazione