Passivity Rule e fondi sovrani

Gli ultimi anni hanno rappresentato un’importante fase di evoluzione della legislazione finanziaria nazionale; il recepimento di molteplici normative comunitarie ha costretto gli intermediari a un complesso processo di ridefinizione delle procedure interne, generando al tempo stesso criticità nella distribuzione di prodotti di investimento.

Il mondo finanziario, scosso in profondità dalle recenti crisi internazionali, sembra muovere verso nuovi equilibri. In un momento in cui molti presidi su cui si reggeva l’ordine economico preesistente appaiono allentarsi, è necessario comprendere le motivazioni che hanno determinato un così vasto sconvolgimento e, in chiave prospettica, operare tempestivamente le opportune variazioni all’assetto regolamentare del sistema. Questo processo di rapido e violento aggiustamento si svolge però in presenza di fattori esogeni ed endogeni che rendono più complessa l’adozione di misure condivise e neutrali da un punto di vista politico. Gli ultimi anni hanno rappresentato un’importante fase di evoluzione della legislazione finanziaria nazionale.

Il recepimento di molteplici normative comunitarie (tra cui spicca per pervasività la direttiva Mifid in tema di servizi di investimento e mercati) ha costretto gli intermediari ad un complesso processo di ridefinizione delle procedure interne, generando al tempo stesso criticità nella distribuzione di prodotti di investimento. L’eccesso di strutturazione dei prodotti, fenomeno percepibile con sempre maggiore evidenza negli ultimi anni, si è accompagnato a strategie di investimento più aggressive, determinate dalla ricerca di elevati margini di profitto. A ciò si è accompagnato il frequente utilizzo di strumenti derivati e di cartolarizzazione di crediti, che hanno incrementato la creazione e la distribuzione dei rischi.

La nascita di nuove tipologie di investitori istituzionali (quali i cosiddetti fondi sovrani1) ha infine trasferito il baricentro della disponibilità di fonti finanziarie in cerca di impiego dal blocco occidentale alle aree asiatiche. L’intreccio dei fattori succitati ha generato serie preoccupazioni nei governi nazionali: il timore era di potenziali fenomeni di “invasione” ad opera di finanziatori esteri, a causa delle basse quotazioni borsistiche di molte importanti società appartenenti a settori ritenuti strategici per l’economia domestica. Nel nostro Paese è sorto un ampio dibattito in merito alla possibile abolizione di presidi normativi in tema di contendibilità societaria e in particolare della c.d. passivity rule, contenuta nell’articolo 104 del Testo Unico della Finanza.

La norma in questione deriva da un assetto regolamentare che ha operato per oltre un decennio. È dunque lecito chiedersi se un’eventuale modifica della stessa derivi da una necessità di fisiologico aggiornamento legislativo oppure da logiche difensive legate all’attuale congiuntura economica. Se si ritenesse fondata la seconda interpretazione, sarebbe necessario chiedersi se e in che misura una modifica regolamentare adottata in un periodo di così elevata turbolenza possa rappresentare un efficace strumento di riposizionamento della legge italiana in tema di market for corporate control . È opportuno precisare che la normativa italiana in materia di offerte pubbliche di acquisto si basa implicitamente su un approccio di stampo anglosassone, in cui un maggior numero di scalate (amichevoli o ostili) viene considerato un elemento in grado di generare un apprezzamento delle azioni in possesso dei grandi e piccoli soci.

La possibilità che nuovi azionisti possano rilevare il controllo dell’impresa per ridurne le inefficienze dovrebbe infatti fungere da stimolo per gli attuali manager, di regola estromessi successivamente al perfezionamento di un’operazione di acquisizione ostile. Proprio al fine di evitare che gli amministratori possano ostacolare eventuali takeover, più per proteggere le proprie posizioni di potere che per salvaguardare gli interessi dei piccoli soci, la legge italiana ha introdotto una regola di passività degli organi direttivi a fronte di operazioni di scalata condotte mediante Opa, in assenza di una deliberazione assembleare funzionale alla concessione di un mandato a difendere la società. La logica scelta dal legislatore deriva dalla volontà di rimettere ai soci ogni decisione in merito alla risposta da dare al soggetto offerente; cedere ad esso i titoli azionari in loro possesso o, al contrario, votare a favore di misure difensive.

Si è eccepito che, non essendo l’approccio italiano condiviso dalle normative di vari paesi europei ed extraeuropei, la regola contenuta nell’articolo 104 del Testo Unico della Finanza rischiava di esporre le imprese nazionali allo “shopping” da parte di player esteri; la possibilità, prevista in altri ordinamenti, di interventi difensivi attuabili da parte degli organi amministrativi societari senza particolari vincoli autorizzativi rendeva invece spesso inefficace il lancio di Opa ostili da parte di imprese domestiche verso società estere. Una modifica apportata alla legge italiana in anni recenti ha modificato questa situazione di potenziale squilibrio, introducendo la possibilità di adottare clausole di reciprocità. L’effetto di queste ultime è di consentire l’adozione di misure difensive ai manager di imprese oggetto di Opa ad opera di offerenti insediati in paesi con normative prive di passivity rule, purché tali clausole siano state formalizzate preventivamente attraverso un’apposita deliberazione assembleare.

Da quanto affermato è evidente come il meccanismo di passivity rule rappresenti un presidio economicamente equitativo (anche se talvolta accusato di concedere un eccessivo vantaggio all’attaccante) nel gestire i rapporti tra i soggetti operanti nel market for corporate control2. Alla prova dei fatti, tuttavia, esso non sembra rivestire un ruolo strategico determinante all’interno del sistema finanziario del nostro Paese. Molti osservatori hanno infatti rilevato due fattori sintomatici delle anomalie dell’assetto imprenditoriale italiano. Se da un lato negli ultimi anni la presenza di un meccanismo di passività per i manager non sembra aver stimolato le operazioni di acquisizione attraverso il mercato, dall’altro pressoché nessuna impresa ha proceduto alla definizione di regole di comportamento per gli amministratori a fronte di possibili esercizi delle clausole di reciprocità. Difficile ritenere che i manager abbiano sbadatamente dimenticato di richiedere ai soci di deliberare in merito all’attribuzione di poteri speciali loro spettanti per legge; sembra piuttosto plausibile identificare nella incontendibilità delle imprese domestiche la motivazione che ha determinato le due anomalie suddette.

La presenza di gruppi piramidali e di patti parasociali che blindano la maggioranza delle quote di partecipazione nei forzieri di pochi soggetti sembra rappresentare un deterrente sufficiente per scoraggiare attacchi ostili da parte di investitori esteri. Nel caso specifico dei fondi sovrani, oggetto negli ultimi anni di grandi preoccupazioni da parte dei regulators internazionali e visti come una minaccia dai governi in virtù della scarsa trasparenza che spesso li caratterizza, una possibile risposta normativa potrebbe più virtuosamente dipendere da una riduzione delle soglie di disclosure richieste dalle autorità di vigilanza per le partecipazioni societarie, o da specifici limiti posti alla loro attività di investimento sul mercato.

La rimozione della passivity rule per evitare che i fondi sovrani possano entrare massicciamente nel capitale delle imprese italiane sembra una debole giustificazione per un intervento normativo che verrebbe letto dagli operatori di mercato come una blindatura legislativa dei board amministrativi. Ciò senza considerare che, in un periodo di potenziale razionamento del credito, la possibilità di trovare fonti di finanziamento di elevato ammontare proprio nei grandi sovereign funds potrebbe rappresentare un’efficace strategia per calmierare la crisi del settore imprenditoriale. Più che demonizzare questi nuovi investitori istituzionali, appare dunque necessario richiedere un loro inquadramento più chiaro e trasparente.

Allo stesso modo, sul fronte interno, occorre chiedersi se una variazione in corsa alle regole del gioco nel market for corporate control possa portare ad un reale beneficio al netto dei costi di immagine che essa comporterebbe sul piano internazionale. Se l’abbandono della passivity rule appare, alla luce dell’assetto imprenditoriale italiano, un evento dai risvolti pratici potenzialmente limitati, il momento storico appare al contrario perlomeno inopportuno; si rischierebbe infatti di caricare di significati negativi la semplice constatazione dell’inefficacia di quello strumento nello stimolo di un mercato attivo del controllo delle imprese . Sembra dunque preferibile intensificare la trasparenza del mercato e degli operatori che ne fanno parte, secondo un modello competitivo in cui non trova spazio la nostalgia per il protezionismo statale, ma in cui lo Stato stesso si fa invece promotore e garante del fair play dei giocatori in campo.

 

Simone Rossi
Docente a contratto di Economia dei mercati mobiliari
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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