Vanno urgentemente ripristinate, mediante provvedimenti di politica fiscale, le condizioni di riequilibrio nella distribuzione dei redditi che consentono uno sviluppo non finanziariamente drogato dell’economia.
Mi propongo di dare in queste righe un’interpretazione differente dal consueto della crisi economico-finanziaria che caratterizza questo momento. Prima domanda: da dove nasce la crisi? La risposta che tutti danno, “dai mutui subprime”, è corretta, ma nello stesso tempo incompleta. Cosa sono intanto i mutui subprime? Sono prestiti a lunga scadenza, garantiti da ipoteca sugli immobili, per il cui acquisto sono concessi. E si chiamano subprime perché concessi a famiglie il cui reddito è certamente insufficiente per ripagare il mutuo stesso. Al massimo, potrebbe servire per pagare gli interessi. Ora, è successo che sono fallite istituzioni finanziarie che avevano concesso una gran quantità di mutui di questo tipo e i cui debitori sono divenuti, nello stesso periodo di tempo, insolventi, determinando fortissime perdite e il conseguente fallimento nei bilanci di queste imprese. Ancora peggio, il fallimento si è esteso ad altre istituzioni per contagio o coinvolgimento indiretto.
Le istituzioni finanziarie che hanno concesso i mutui hanno cercato di trasferire almeno una parte del rischio (di insolvenza), originariamente da loro assunto, con un’operazione che si chiama cartolarizzazione. La cartolarizzazione consiste nell’impacchettare questi crediti rischiosissimi mescolandoli ad altri di normale rischiosità e vendendoli (in una confezione unica) ad altri intermediari. Si tratta di un’operazione analoga a quella di chi smaltisce rifiuti tossici misturandoli con rifiuti normali per evitare di pagare gli oneri dello smaltimento del rifiuto tossico. La somiglianza fra le due operazioni è tale che i pacchetti di crediti cartolarizzati contenenti quantità non decifrabili di crediti rischiosissimi sono detti in gergo toxic assets. Ovviamente, per determinare una crisi di queste proporzioni, non si tratta di pochi errori isolati, ma di una strategia sistematica e pervasiva, perseguita da alcuni dei maggiori intermediari finanziari degli Stati Uniti e imitata da istituzioni europee.
Poniamoci allora un’altra domanda: per quale motivo qualcuno dovrebbe concedere, e ha in effetti concesso su larga scala, mutui di questo tipo? Apparentemente, nessuno avrebbe interesse a prestare il proprio denaro a chi quasi certamente non sarà in grado di restituirlo. Nei film di fantascienza in voga negli anni 50 dello scorso secolo, comportamenti palesemente rovinosi ed irrazionali di persone importanti si spiegavano con l’intrusione nei cervelli di tali persone di misteriosi alieni, al fine di ridurre in schiavitù il genere umano. Nel nostro caso non necessitiamo di una spiegazione fantascientifica. Ci viene continuamente spiegato che si è trattato dell’operato fraudolento e truffaldino di una finanza degenerata, che ha a sua volta approfittato di lacune, incapacità o addirittura complicità delle autorità di controllo sulle attività finanziarie. Insomma, un complotto di lestofanti, reso possibile dalla moderna tecnologia informatica e favorito dall’ignavia o dall’inadeguatezza delle tecnostrutture di controllo.
Non lasciamoci ingannare: questa è solo una parte, e non la più significativa, della verità. Consideriamo queste altre risposte: a) perché c’è un grande numero di famiglie che desiderano una casa e non hanno un reddito sufficiente per comperarla, b) perché c’è un grande numero di imprese che desiderano fare profitti su operazioni immobiliari, ma non hanno clienti in numero sufficiente per realizzare i loro appetiti, c) perché c’è un sistema bancario e finanziario che desidera livelli di profitto tali che solo intercettando le esigenze di cui ai punti a) e b) è in grado di ottenerli. Bene, incominciano a precisarsi meglio le condizioni favorevoli allo sviluppo del “complotto”. Continuiamo a farci altre domande: come mai sussistono le condizioni a), b) e c) favorevoli allo sviluppo del complotto? La risposta è: il capitalismo, bellezza! Ma anche questa risposta è imprecisa.
Bisogna puntualizzare: il capitalismo nella versione che, con sbrigativa ma efficace connotazione etica, chiameremmo “avida” o invece con una connotazione tecnicamente neutrale potremmo chiamare dei “fondamentalisti del mercato”. Politicamente, il capitalismo sostenuto dalle politiche di Reagan e di Bush da un lato e di Margaret Thatcher dall’altro e in Europa dai vari governi di destra, compreso quello italiano. Cerchiamo di essere più precisi su questo passaggio, che a prima vista appare brusco. Ricordiamo allora che per evitare vuoti di domanda aggregata che conducono ad effetti negativi indesiderati di disoccupazione e rottura della coesione sociale, il sistema economico deve provvedere ad un volume di consumi, investimenti e spesa pubblica ad un livello complessivo sufficientemente elevato. Le tre componenti di cui sopra non sono indipendenti; rozzamente, possiamo dire che la spesa pubblica deve essere equilibrata da entrate fiscali.
Dunque che la sua espansione rischia di compromettere gli investimenti se li scoraggia per effetto di tasse troppo elevate sui profitti, oppure di compromettere i consumi se li scoraggia tassando i salari. A sua volta, gli investimenti presuppongono attese di consumi sufficienti ad esaurire il prodotto ottenuto dalla produttività degli investimenti stessi. Senza entrare in troppi dettagli, che implicherebbero fra l’altro l’esame delle ricadute del commercio internazionale di beni e servizi sulla domanda e l’offerta aggregata, possiamo sintetizzare dicendo che il capitalismo coniugato con un sistema di democrazia politica che garantisca libertà economiche e libertà civili e politiche è un sistema molto sofisticato, in cui i sentieri di evoluzione delle quantità fondamentali a garantire l’equilibrio sono veramente stretti. Insomma, il capitalismo è permanentemente sull’orlo del disequilibrio e il ruolo della politica economica sarebbe quello di garantire che al verificarsi di disequilibri indesiderati si apprestassero immediati ed opportuni rimedi, agendo sulle cosiddette leve monetarie e fiscali per ristabilire l’equilibrio.
A mio avviso, una componente fondamentale di tali equilibri è la armoniosa distribuzione dei redditi disponibili per i cittadini. Detto anche qui rozzamente, gli individui, per poter consumare, debbono godere di redditi sufficientemente elevati. È intuitivo, ma anche empiricamente confermato, che la propensione al consumo, ovvero la percentuale della spesa destinata al consumo, è (ceteris paribus) decrescente al crescere del reddito. Ne consegue che la spesa per consumi sarà tanto più alta quanto più egualitaria è la distribuzione della ricchezza. A sua volta, alti consumi spingono verso alti investimenti e, ove questi siano efficientemente destinati all’ampliamento della capacità produttiva del sistema, rendono a loro volta possibile sostenere con produzione domestica il futuro livello dei consumi. Ora, per un lungo periodo, dal dopoguerra (1945) fino alla fine degli anni 1970, l’equilibrio economico del sistema capitalistico occidentale si resse su una distribuzione dei redditi relativamente equilibrata.
Dall’avvento di Reagan (1980), la tendenza si invertì bruscamente: negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma anche e, sia pure in minor misura, in Europa crebbe la disuguaglianza, riproducendo (si leggano in proposito le statistiche puntualmente fornite dal premio Nobel P.Krugmann) addirittura negli Stati Uniti le condizioni di disuguaglianza di reddito e ricchezza vigenti agli inizi del XX secolo. Ma il mondo è cambiato e non è possibile oggi mantenere la coesione sociale con questi livelli di disuguaglianza. È quindi necessario sostenere, in modo – diciamo così – artificiale, le capacità di consumo dei ceti medio-bassi. Consentire cioè loro di sostituire il consumo basato sul reddito corrente con consumo basato sul debito (dunque uso di carte di credito a rischio di insolvenza e mutui subprime). Parallelamente, una larga parte della classe medio alta riesce a finanziare i propri consumi grazie a redditi connessi alle speculazioni edilizie e finanziarie. Di qui un equilibrio di consumi ed investimenti che ha retto per qualche tempo, ma che era destinato prima o poi a terminare con una rovinosa rottura al verificarsi di una catena pressoché necessaria di insolvenze.
Se questa lettura è condivisa e non vedo come si possa confutarla, ne deriva che: a) per quanto riguarda i giudizi sul passato, la finanza ha giocato un ruolo non di corpo deviato del capitalismo Reagan-Bush, ma di esecutore necessario e coerente, magari talvolta troppo zelante e/o troppo tecnicamente fantasioso di questa versione del capitalismo; b) per quanto riguarda il presente, che la crisi sta svelando la sua vera faccia di crisi dell’economia reale solo parzialmente collegata alla crisi finanziaria; c) per quanto riguarda il futuro, l’insufficienza di ogni pur valido provvedimento di contenimento delle distorsioni finanziarie. Vanno infatti urgentemente ripristinate, mediante provvedimenti di politica fiscale, le condizioni di riequilibrio nella distribuzione dei redditi che consentono uno sviluppo non finanziariamente drogato dell’economia (cioè la faccia rooseveltiana del capitalismo). Mi sembra che su questo punto abbiano fortunatamente le idee chiarissime Barak Obama e il suo ispiratore economico P.Krugmann. In Europa, e più in generale sui tavoli dei vari Gn (e con la parziale eccezione di Gordon Brown), si continua a cincischiare su provvedimenti, necessari ma assolutamente insufficienti, di politica monetaria e finanziaria, rimandando alle calende greche interventi di politica fiscale. Purtroppo, Obama si insedierà non prima di due mesi. Auguriamoci che nel frattempo la crisi non sia esplosa in una tragica recessione di lunga durata.
Flavio Pressacco
Professore ordinario di matematica finanziaria Facoltà di Economia,
Università degli Studi di Udine