Potremmo fare un uso più parsimonioso della parola “speculazione” e pensare che la depressione dei mercati finanziari internazionali stia brutalmente imponendo al mondo occidentale quegli investimenti e quelle ristrutturazioni economiche e sociali necessarie a superare l’era del petrolio e del consumismo al chilo.
È sotto gli occhi di tutti che le azioni intraprese a livello politico per uno sviluppo sostenibile ed una maggiore responsabilità sociale ed ambientale delle imprese si sono scontrate con interessi economici enormi e talvolta di segno opposto. Spesso si è trattato di proposte politiche tardive, timide ed insufficienti, anche perché gli stati nazionali proteggono le rispettive economie e molti uomini politici alla ricerca del consenso assumono normalmente pratiche dilatorie. Sul versante opposto, il libero mercato ha corso – e corre – a ritmi vertiginosi, soprattutto nelle nuove economie, dove in barba ai vincoli sociali ed ambientali si fa strada lo sviluppo selvaggio. I due elementi sommati hanno determinato quella difficile situazione in cui oggi il mondo si trova. Chi incolpa il mercato finanziario di questa difficoltà nasconde, in realtà, l’impossibilità – o il desiderio – di non aggredire alla radice taluni problemi.
Perché l’estrema erraticità dei prezzi del petrolio e dei corsi azionari, con la conseguente pressione su alcune aspettative economiche, non è la causa del problema, ma lo specchio di un’economia reale abbandonata a se stessa. Erano imprese e cittadini nord americani in carne ed ossa quelli che facevano commercio (diremmo oggi trading) di abitazioni indebitandosi oltre modo. Erano le amministrazioni nazionali quelle che facilitavano le politiche del credito facile per sostenere i volumi dei consumi, più che la loro qualità. Erano le aziende quelle che amministravano le loro attività considerando secondario il rafforzamento della qualità produttiva e della solidità finanziaria a fronte delle politiche dei dividendi e delle remunerazioni. In tutti i casi, parliamo di economia reale. Di orientamenti sociali, politici ed economici che trovavano sostegno su precisi indirizzi ideali e culturali. Forse, vista in questi termini, la matrice finanziaria della crisi potrebbe essere indagata in modo diverso.
Basterebbe accettare l’ipotesi – assai banale – che il mercato possa avere ceduto davanti ad un futuro più incerto di quanto fosse lecito aspettarsi. Potremmo fare un uso più parsimonioso della parola “speculazione” e pensare che la depressione dei mercati finanziari internazionali stia brutalmente imponendo al mondo occidentale quegli investimenti e quelle ristrutturazioni economiche e sociali necessarie a superare l’era del petrolio e del consumismo al chilo. Potremmo ipotizzare che in luogo dei decisori politici e di una parte abbondante del mondo imprenditoriale, ci ha pensato la borsa, anche sull’onda di dubbi, paura e sfiducia, a riposizionare le prospettive sul futuro dell’umanità ad un livello più realistico. Posso immaginare che da tempo ogni serio gestore di un qualsiasi fondo di investimento, soprattutto se di un fondo pensione che deve assicurare la pensione a migliaia di lavoratori per decine di anni, valuti l’investimento nel lungo periodo, con multipli di 20, 30, 40 anni.
Ed in quest’ottica non posso credere che non si fosse accorto da tempo che centinaia di grandi imprese quotate campavano sull’economia del petrolio. Un modello prospetticamente già morto. Che cammina ancora perché la politica (complice le lobby del caso) non lavora a soluzioni alternative. Ecco perché un’azienda importante come General Motor può apparire un dinosauro. E siccome il petrolio diverrà – in un mondo così stupido e lento a cambiare – una risorsa rarissima e ricercatissima, il suo prezzo ovviamente dovrà aumentare. E questa sarebbe la speculazione? O un legittimo dubbio che si è trasformato in un grido di sana paura? Vista da questa angolazione, la crisi finanziaria può aver rappresentato un’inevitabile doccia fredda, utile a rivedere il nostro modello di sviluppo e ristrutturare la nostra economia, rendendola più sostenibile.
È una prospettiva meno pessimistica e diversa su cui invito a riflettere. Con un andamento dei prezzi così violentemente erratico ed anche in assenza di politiche ambientali incentivanti da parte dei governi, l’energia alternativa (e non nucleare) è diventata di per sé una risorsa economicamente più appetibile. Diventano più convenienti anche gli investimenti in alta tecnologia per arrivare a produzioni a basso consumo energetico. Di conseguenza, perfino la qualità della produzione, gli investimenti nei settori della ricerca avanzata e soprattutto un coordinamento con le esigenze sociali d’interesse generale acquistano un peso nelle scelte aziendali. Le remunerazioni si fanno più adeguate e la politica dei dividendi terrà conto del periodo di vacche magre a cui si va incontro. In altri termini, il repentino e brutale adeguamento dei mercati finanziari ad una situazione prospettica di grande incertezza può produrre due effetti di rilievo: da un lato nuovi investimenti su un futuro tecnologico dall’altro un uso più accurato delle materie prime.
Ma gli effetti virtuosi forse non si fermano qui. Almeno per un paese come l’Italia. L’effetto più importante che ci può riguardare da un punto di vista economico è l’opportunità di ristrutturare le nostre imprese ed innalzare la qualità delle produzioni grazie ad una nuova rivoluzione tecnologica ed eco-compatibile sostenuta dalla “convenienza energetica” che il prezzo mutevole del petrolio attribuisce all’innovazione. Su questo, con dei sacrifici, potremmo recuperare terreno perduto rispetto alla manifattura a basso costo e di bassa qualità che ha invaso i nostri mercati. Il nostro ambiente economico tornerebbe ad essere premiante per le industrie che hanno coraggiosamente deciso di rimanere in occidente ed in Italia e che hanno investito anche sulla qualità delle loro persone.
La contropartita al sacrificio di oggi può essere la speranza, per il nostro sistema economico, di avviarsi verso l’era del post-petrolio con qualche possibilità di sopravvivere. Altrimenti, aspettando accordi internazionali e proposte politiche, credo sarebbe troppo tardi. Forse dove non sono arrivati gli uomini di governo, è arrivata la tanto vituperata finanza a ridare senso alla qualità dell’energia ed al coraggio di alcuni imprenditori. Saremo in grado di cogliere i vantaggi di questo “assist” e di avviare un programma di ristrutturazione del nostro sistema? Saremo in grado di chiedere ai nostri imprenditori: responsabilità, qualità, investimenti, coraggio e maggiore apertura alla concorrenza senza cadere nella tentazione di cedere a qualche effimera agevolazione o a “Robin tax”? In contropartita, saremo in grado di offrire loro una brusca semplificazione delle gabelle amministrative ed un rapido miglioramento della funzione pubblica?
Jacopo Schettini Gherardini
Direttore dell’Agenzia Standard Ethics – AEI