La migliore strategia delle Banche Centrali sembra quella che mira, in ciascun ciclo economico e finanziario, a consolidare aspettative di stabilità e di credibilità della politica monetaria.
1. Premessa
Ci troviamo in mezzo alla più impegnativa crisi finanziaria dei nostri tempi, con recessione economica, restrizioni delle condizioni del credito, diffuse tensioni di liquidità che pervadono l’industria mondiale dei servizi finanziari dovendo nel contempo fronteggiare una complessa e intrecciata combinazione di inflazione crescente, peraltro tenuta sotto controllo da parte delle banche centrali. La lievitazione degli indici particolari dei prezzi (rincari dell’energia e dei prodotti alimentari) si sta ripercuotendo sull’indice generale dei prezzi ed alimenta il tasso d’inflazione, salito sensibilmente sia nei paesi industrializzati, sia in quelli emergenti. Negli Stati Uniti, dove la crisi del mercato immobiliare non mostra segni di attenuazione, secondo le previsioni degli organismi internazionali, l’attività economica è destinata a frenare ulteriormente. A causa di ciò il governo americano è intervenuto in modo massiccio, nazionalizzando importanti banche, favorendo l’aggregazione di altre ed immettendo liquidità sui mercati finanziari. Anche in Europa ed in Italia le autorità stanno utilizzando la gamma di strumenti a loro disposizione per affrontare la caduta del valore economico dei titoli. Ma la crisi ha rivelato, insieme alla carenza di autodisciplina del settore privato ed alle debolezze del contesto regolamentare, svariate interazioni ed interdipendenze tra i mercati finanziari che sembrano rendere ardua qualsiasi terapia. I mercati sono oggi meno segmentati di una volta, favoriscono la quotazione anche delle imprese minori, consentono la presenza di investitori istituzionali esteri, permettono quotazioni di società estere, danno vita ad indici di borsa di tipo globale, nel mentre gli indici rappresentativi delle stesse mostrano andamenti di correlazione nel tempo via via più alti.
2. Le banche centrali
L’avvento di imponenti mercati telematici delle attività finanziarie ed il connesso sviluppo di mercati finanziari a respiro globale hanno ridimensionato la capacità di intervento delle Banche Centrali. Il volume delle transazioni finanziarie internazionali da molti anni sopravanza quello sui beni e servizi e vi è chi ritiene che il rigonfiamento delle prime – dovuto a processi di finanziamento, frazionamento degli interventi, coperture di rischi ed attività speculativa – non sia indispensabile per la crescita reale delle economie e rappresenti il veicolo di gravi crisi sistemiche.
3. Tecniche di gestione del rischio
Va riconosciuto che insieme alla deregolamentazione finanziaria ed all’ampia libertà di movimento dei capitali degli ultimi anni – con diffusione internazionale dell’asset management e del risparmio gestito – hanno preso piede tecniche di diversificazione, mitigazione e trasferimento del rischio operativo, finanziario e di default, di rilevante valore metodologico ed operativo, ma non sempre indolori, essendo i risultati cui conducono dipendenti dalla correttezza di previsione, dalla conferma dei flussi di ricchezza delle attività sottostanti e dallo sviluppo del sistema.
In operazioni di capital management e di arbitraggio a breve e medio termine si è fatto ricorso in modo massiccio e non di rado speculativo a:
• prodotti derivati (Options, Futures, Swaps, Derivatives credit swaps, ecc…);
• processi di cartolarizzazione con Asset Backed Securities, Collateralized Bond Obligations, High yield corporate bonds;
• prestiti a soggetti con basso merito di credito nella supposizione che le garanzie reali fossero sempre idonee a ridurre la LGD (il caso dei mutui e delle carte di credito sub prime ne costituiscono un esempio tipico);
• gestione di fondi di varia natura con processi di leverage finanziario esteso e vendite allo scoperto in differenti contesti.
Accompagnate da continue e sofisticate innovazioni finanziarie, queste pratiche generano prodotti finanziari nuovi, nati dal frazionamento del trade off rischio/rendimento delle attività finanziarie d’origine, a loro volta negoziabili, con il rischio impacchettato e venduto in dosi misurate secondo le esigenze (quanto basta ai fini dell’espansione di un’operazione o della copertura della stessa). I mercati finanziari (con le banche d’investimento, le SGR, i brokers finanziari, ecc…) hanno rappresentato il territorio dove ogni porzione di rischio poteva essere negoziata. A livello internazionale si è creata una connessione attiva e continua tra risparmiatori, imprese, banche, banche d’investimento, brokers finanziari e gestori istituzionali. L’uso virtuoso dei contratti avrebbe dovuto realizzare in modo pieno e neutrale il commercio del rischio assicurando il raggiungimento del più equilibrato e corretto trade off rischio/rendimento e ciò nell’ipotesi di efficienza dei mercati (alcuni ad efficienza semi forte e poco rischiosi, con simmetria informativa, altri – e più numerosi – ad efficienza debole). Inoltre, rafforzando i collegamenti tra i mercati, avrebbero dovuto contribuire a smorzare e a disperdere gli shocks che colpiscono di frequente un qualsiasi segmento di mercato. In condizioni normali, il commercio del rischio dovrebbe esercitare un’influenza stabilizzante sui sottostanti mercati a pronti dei titoli. Ma quelle tecniche finanziarie giocano un ruolo anche nel senso opposto. Una volta verificatasi una perdita di valore della ricchezza (VAN negativo), questa si trasmette a catena all’interno di tutti i portafogli di titoli che hanno fruito degli interventi di diversificazione e copertura, producendo un impressionante effetto domino.
4. L’omologazione delle informazioni
I produttori di informazioni hanno trasmesso ad ogni SGR, banca d’investimento, impresa assicurativa, ecc…, le informazioni rilevanti, privilegiate o meno. Ogni analista si è ampiamente basato ed ha costruito gli interventi sulle medesime fonti ed impiegando le stesse banche dati (Bloomberg, Data strema, Reuters). Si è così rischiato di operare in un ambiente artificiale – a tutti offerto – facile veicolo di comportamenti imitativi (con dinamiche spiegabili secondo la logica dei sistemi complessi) e della sopravvalutazione di attività finanziarie, con produzione di bolle speculative.
5. La Fed e la genesi del subprime
Nel mentre questo accadeva, le banche centrali sono apparse distanti sia dal controllo delle tecniche dei mercati, sia dalla comprensione della vastità degli interessi chiamati in gioco. Le azioni di strategia monetaria dei loro vertici hanno mirato ad assicurare la stabilità del sistema attraverso le decisioni sui tassi, con scelte (specie per la Fed) non di rado influenzate e guidate dal desiderio di compensare gli insuccessi dell’economia più che dall’esigenza di favorire la liquidità e la completezza dei mercati finanziari. Non può sottacersi che nel 1998 la Fed abbassò i tassi tre volte per un totale di 75 punti base, e ciò in meno di due mesi. Ma l’allentamento più clamoroso avvenne con lo scoppio della bolla dei titoli internet e high tech nella primavera 2001. Alan Greenspan, dopo gli episodi dell’11 settembre, dapprima dimezzò i tassi, in seguito li ridusse sino all’1% e ciò si protrasse sino al 2004, alimentando le richieste di prestiti per investimenti. Tale strategia, insieme a risposte virtuose, spianò la strada alla bolla speculativa dei mutui subprime. Questa fu sollecitata ed amplificata dall’enorme risposta di consumatori con punteggio di credito inadeguato che, grazie al limitato costo del denaro, poterono finanziare l’acquisto di abitazioni nonostante fossero potenzialmente insolventi. Il successivo rialzo dei tassi generò un’ascesa vertiginosa nel tasso d’insolvenza di detti mutui. Le vendite dei beni ipotecati fecero calare il prezzo di mercato delle abitazioni, con il collasso di banche ed agenzie governative e con ampi effetti sul settore abitativo e sull’intera economia USA. La Fed di Ben Bernanke, con la crisi dei subprime in atto, ha dovuto nuovamente tagliare i tassi, in precedenza risaliti al 5,25%, fino all’attuale 2%.
6. L’Euro: una sfida riuscita
Va riconosciuto che la Banca Centrale Europea ha vinto lo straordinario progetto storico della valuta comune e che l’Europa non avrebbe saputo altrimenti resistere all’impatto che la crisi finanziaria poteva produrre su molteplici monete (unità di conto, serbatoi di ricchezza e mezzi di pagamento diversi) in presenza di variazioni dei tassi d’interesse e dei tassi di cambio.
7. L’esportazione della crisi
Quanto accaduto e che sta accadendo negli Stati Uniti viene ampiamente esportato in Europa. Richiede un’attenta e dettagliata analisi del ruolo dei mercati finanziari e della finanza delle imprese, diretta a valutare la reale portata del loro peso nell’economia e di come l’ingegneria della finanza moderna influenzi la politica monetaria. Derivati, ABS, CBO, processi sub prime, short selling, ecc…, influiscono sul modo in cui gli operatori e i mercati finanziari rispondono agli interventi di politica monetaria. Permettendo agli operatori la veloce trasformazione delle esposizioni finanziarie, modificano la loro sensibilità alle variazioni dei tassi d’interesse e dei tassi di cambio e alterano la loro risposta alle azioni di politica monetaria. L’uso di ABS, CBO, processi sub prime, short selling e dei derivati richiede ampia competenza ed esperienza. Se utilizzati impropriamente, possono esaltare nel breve termine la volatilità dei prezzi dei mercati finanziari e ritorcersi contro gli stessi operatori. Il commercio del rischio agisce da amplificatore del possibile mismatch negativo tra obiettivi e risultati degli operatori finanziari.
8. Il mercato neutralizza gli interventi delle Banche Centrali
La loro presenza nel mercato deregolamentato non implica la perdita da parte delle Banche Centrali della capacità di controllo del sistema. Certamente risulta fortemente influenzato l’ambiente che le Banche Centrali dovrebbero controllare ed appaiono alterati i canali di trasmissione della politica monetaria, la rilevanza degli indicatori monetari e l’efficacia degli strumenti di intervento e vigilanza. Inoltre, se la caduta del valore economico delle attività sottostanti conduce ad esiti che da un mercato si diffondono con rapidità verso gli altri mercati – proprio a causa della continua azione della diversificazione e del trasferimento di quote del rischio su scala internazionale – deve riflettersi che tale processo riceve un’enfasi considerevole in periodi di recessione. Non è cioè irrilevante la fase del ciclo economico che si sta attraversando. Ecco allora che gli interventi delle Banche Centrali rischiano di essere neutralizzati dalle risposte stesse degli operatori, contrastando le loro reazioni l’efficacia degli interventi di mercato aperto. Ciò anche in quanto la massa di manovra a disposizione delle autorità appare comunque relativamente limitata rispetto alle dimensioni dei flussi di ricchezza resi disponibili da mercati così ampi ed integrati, orientati ad operare con processi “imitativi” ed omologati. Né va trascurato il fatto che l’uso di derivati, ABS, CBO, processi sub prime, short selling, ecc…, nel mentre riduce la forza dei canali attraverso cui tradizionalmente si trasmette la politica monetaria, si accompagna costantemente ad una lievitazione del grado di leva del sistema finanziario. Come sostiene il governatore Draghi: “Benché le attività finanziarie e i protagonisti coinvolti differiscano tra un ciclo e l’altro, così come i meccanismi scatenanti, i cicli finanziari hanno mostrato la tendenza comune a produrre distorsioni e perdite notevoli nell’economia reale, sia nelle fasi di espansione sia nelle successive fasi di restrizione. E ciò è avvenuto in maniera tanto più rilevante quanto maggiore era il grado di leva del sistema finanziario”. (Mario Draghi, L’attuale crisi e oltre. Simposio della Federal Reserve Bank di Kansas City, Jackson Hole, 22 agosto 2008). La migliore strategia delle Banche Centrali sembra allora quella che mira, in ciascun ciclo economico e finanziario, a consolidare aspettative di stabilità e di credibilità della politica monetaria, rafforzando il convincimento degli operatori circa un’evoluzione ordinata dei mercati, fondata sull’obiettivo della stabilità dei prezzi, con un rafforzamento dell’azione di vigilanza sostanziale.
9. Il contesto italiano
I fenomeni manifestatisi nei mercati finanziari internazionali accrescono la preoccupazione sul futuro del settore del risparmio gestito in Italia. Essi inducono, infatti, almeno nel breve periodo, a giudicare improbabile un rilancio dei fondi comuni d’investimento e dei fondi pensione gestiti nel nostro Paese. Il loro trend negativo sembra insomma destinato a proseguire. Tale valutazione è in parte dipendente dal ruolo condizionante che le società di gestione del risparmio (SGR) svolgono in Italia. Le SGR, la cui struttura proprietaria è sottoposta al controllo di uno o più gruppi bancari, oppure di una o più compagnie assicurative, coprono oggi una quota superiore al 60% del mercato nazionale.
10. La caduta del risparmio gestito in Italia
È noto, infatti (dati e considerazioni ASSOGESTIONI), che fra il 2000 e il 2006, la raccolta negativa dei fondi aperti di investimento italiani è stata inversamente correlata con la positiva dinamica della domanda di obbligazioni (bancarie e/o strutturate) e – per alcuni sottoperiodi – con quella della domanda di prodotti a contenuto finanziario (polizze unit linked e index linked). Analoga è stata la relazione con la domanda di titoli del debito pubblico di breve termine e di altre attività liquide.
In merito va detto che la caduta:
• va letta con particolare attenzione concernendo le categorie più tradizionali dei prodotti del risparmio gestito, ossia i fondi azionari, obbligazionari e bilanciati;
• almeno fino al terzo trimestre del 2007 è avvenuta in controtendenza rispetto alla positiva dinamica del settore in Europa.
Oggi, il comparto italiano dei fondi di investimento del nostro Paese è scivolato nella sesta posizione europea (includendo Irlanda e Lussemburgo).
Se i dati del 2007 mostrano che i fondi aperti di investimento operanti in Italia sono entrati in una crisi strutturale, il quadro non migliora facendo riferimento al più ampio settore del risparmio gestito. Si rinvia al riguardo alla Nuova mappa del risparmio gestito e all’analisi relativa ai fondi aperti di ASSOGESTIONI.
11. Cause della crisi
Cercherò di interpretare alcune delle cause di crisi del risparmio gestito in Italia e di delineare possibili soluzioni di policy.
Fra le possibili ragioni di crisi sono da annoverare:
• il distorto rapporto fra produzione e distribuzione alimentata da asimmetrie nel trattamento fiscale e nelle modalità di regolamentazione;
• l’entità dei costi di distribuzione, con riparti generalmente non a vantaggio dei promotori finanziari;
• la carenza di regole del gioco uniformi e di efficiente concorrenza fra le diverse attività finanziarie, che conducano ad una maggiore varietà nell’articolazione fra produzione e distribuzione;
• il c.d. “effetto di sostituzione” con attività finanziarie spesso più opache e complesse;
• i deludenti rendimenti netti di molti fondi di investimento implicanti una valutazione di efficient attribution dei gestori;
• un’inefficiente elaborazione di fondi diretti a rispondere alle esigenze di un consumatore sempre più avverso al rischio;
• una politica dell’offerta guidata dalla massimizzazione dei ricavi di breve termine;
Continua comunque il periodo negativo dell’industria del risparmio gestito. Pure il secondo trimestre dell’anno, infatti, si è chiuso con esiti negativi, anche se in maniera lievemente inferiore rispetto al trimestre precedente. Al 30 giugno scorso, la raccolta netta complessiva registrata dal settore è stata negativa per poco meno di 51 miliardi di euro (57 la volta precedente). Di questi, 30,5 competono alla gestione collettiva (fondi aperti e fondi chiusi) e 20 a quella di portafoglio (gestioni varie). Il patrimonio gestito totale si è attestato a 981 miliardi di euro (con un calo del 6% rispetto al primo trimestre) e quello promosso si è fermato a quota 979 miliardi di euro (-5,1). Il segmento che in assoluto ha perso di più e che ha determinato quindi il risultato negativo delle gestioni collettive è stato quello dei fondi aperti che in tre mesi si è ulteriormente impoverito di 30,5 miliardi di euro (-41 alla fine di marzo). La combinazione delle diverse cause sembra proporre una carenza di concorrenza (che vedrei soprattutto tra le tipologie dei singoli fondi, la quale spiegherebbe le performance così deludenti). Rilevanti asimmetrie normative riguardano la fiscalità. In Italia i sottoscrittori di fondi ‘esteri’ di investimento e di molte altre attività finanziarie pagano le imposte sui relativi guadagni accumulati solo all’atto del disinvestimento (tassazione sul realizzato); viceversa, i fondi ‘italiani’ fungono da sostituti di imposta e i relativi sottoscrittori sono tassati sul maturato. Va evidenziata la necessità di tassare i fondi italiani, come quelli esteri, sul realizzato, cioè al momento del disinvestimento.
12. Difficoltà di accedere ai prestiti bancari
Il sistema bancario è una sorta di “sistema circolatorio” per i mercati finanziari. È il “circuito” che permette la distribuzione delle fonti di finanziamento per tutti gli altri settori. È facile prevedere per molte imprese difficoltà ad accedere ai prestiti bancari con necessità di puntare sui mercati obbligazionari o azionari, fonti di approvvigionamento meno liquide e più costose. Le Banche Centrali potrebbero rendere la situazione più fluida, sia con interventi mirati sui tassi, sia ampliando le possibilità di ricorso a finanziamenti straordinari da parte del sistema bancario.
13. Su quali attività finanziarie puntare
Sui mercati obbligazionari, il 2008 potrebbe essere un anno in cui i risultati più interessanti potrebbero aversi sul fronte dei titoli non governativi (finanziari in particolare), dove i differenziali di rendimento sono a livelli superiori a quelli di lungo periodo. L’incertezza generale del momento fa sì che i rendimenti a lungo offrano meno valore e siano più incerti rispetto a quelli a breve. Inoltre, quelli a breve dovrebbero beneficiare delle politiche di mitigazione delle Banche Centrali.
14. Covered bond
Le difficoltà del mercato non freneranno il ricorso da parte delle banche italiane ai covered bond, grazie soprattutto alla normativa messa a punto nel 2007. Importanti gruppi bancari sono già in corsa con i primi programmi di emissione di questi strumenti finanziari. A pieno regime, secondo prime stime, il mercato delle obbligazioni bancarie garantite potrebbe sviluppare un volume potenziale di circa 200 miliardi di euro. In questa particolare fase di difficoltà, i covered bond possono rappresentare per le banche italiane un possibile strumento di raccolta alternativo rispetto alla classica cartolarizzazione. Questi strumenti hanno infatti caratteristiche tali da renderne la qualità maggiormente trasparente per gli investitori. Essi presentano un duplice livello di garanzia: quello della banca emittente che assicura il rimborso con tutto il proprio patrimonio ed uno specifico pool di crediti di elevata qualità, segregato ad esclusiva tutela dei portatori dei titoli in caso di insolvenza della banca emittente.
15. Necessario un monitoraggio delle agenzie di Rating
A riportare l’attenzione sulle agenzie è stata la situazione incredibile della Società Lehman Brothers la cui probabilità di default era per le agenzie stimata intorno a 0,70% (rating A) e ciò alcuni giorni prima che i suoi libri contabili fossero portati in Tribunale.
16. Conclusione
Un diluvio sta inondando il mondo per ripulirlo dei prodotti finanziari troppo complessi. Si sente il bisogno di un sistema d’allerta e questo deve nascere ben prima che si creino nuove regole. Occorrerà inventare un barometro di attività finanziarie che prevenga il surriscaldamento del mercato e le bolle speculative, rendendo attive e diversificando le notizie e combattendo i processi imitativi più deleteri. Necessita ricordare che la realtà dei mercati deve superare il breve periodo, se questi vogliono sopravvivere. E sarà essenziale, a livello internazionale, mettere a norma e diffondere presso tutte le società di gestione del mercato i segnali di pericolo prima che sia troppo tardi.
Maurizio Fanni
Professore Ordinario di Finanza aziendale all’Università degli Studi di Trieste