Dal 1997 al 2007 i docenti a ruolo Ordinario sono passati da 13402 a 19625, per un aumento di quasi il 50%, contro il totale dei docenti strutturati (compresi i ricercatori) che sono passati dai 49187 ai 61929, un aumento di poco più del 20% (dati Miur). Questo forte sviluppo del sistema universitario italiano è andato, però, in controtendenza rispetto alla capacità di finanziamento dello Stato.
Sembra davvero troppo lontana nel tempo quella riforma universitaria, il Dpr 382, emanata dal Parlamento nel 1980 con quasi l’ottanta per cento dei consensi. La condivisione politica è il più grave problema dell’università italiana di oggi. Sanità e istruzione sono due temi fondamentali in qualsiasi società, troppo importanti perché le riforme che li caratterizzano vengano imposte a colpi di maggioranza.
Il Ministro Brunetta pare essersene accorto e, con un metodo già sperimentato con i dipendenti pubblici, sta creando il capro espiatorio adatto per far digerire la pastiglia amara dei tagli all’università ottenendo il massimo dei consensi. Questa volta, a sostituire i “fannulloni” del pubblico impiego, sull’altare sacrificale ci sono i professori ordinari, rei di baronaggio e (anche loro) fannullismo. Il male assoluto, il motivo per cui la Legge 133 ha dovuto tagliare circa 1,5 miliardi di euro alle già lacunose casse universitarie e il Dl 180 vietare qualsiasi assunzione alle università “non virtuose”, sembrano essere loro. Un gruppetto di mascalzoni dalle paghe dorate.
Il movimento studentesco, che da molte settimane manifesta in tutte le piazze italiane, pare, però, non essere caduto nel tranello. Ad essere presa di mira è ancora la Legge 130/08. Rea, quest’ultima, di aver avviato lo smantellamento dell’università pubblica. Forse la realtà, come spesso accade, non sta né da una parte, né dall’altra, e allora, per comprendere il presente, non rimane che assumere un approccio storico del problema. Per non smarrirci lungo un paio di secoli di trasformazione del sistema universitario, possiamo porre il nostro “anno zero” nel 1997, in corrispondenza dell’emanazione della Legge 127 (Legge Bassanini).
La 127 completa, con la successiva emanazione del Dl 509/99, il percorso legislativo, avviato nel 1989, dell’”autonomia universitaria”. Sempre la 509 introduce l’attuale sistema basato sui “crediti formativi” e il “3+2”. Quello che accade da questo momento in poi è fondamentale per comprendere i motivi della situazione attuale. L’autonomia didattica sommata al nuovo sistema 3+2 permette un’interpretazione tanto ampia da consentire un proliferamento senza limiti di nuovi Corsi di Laurea. Nel giro di pochi anni i corsi raddoppiano. Ai titoli accademici classici, si affiancano lauree del tutto nuove. Dagli studi sulla pace, a quelli sulla cura degli animali domestici, fino all’Università del “gusto”.
A questo si aggiungono nuove sedi distaccate delle università, sparse capillarmente su tutto il territorio per intercettare il maggior numero di studenti possibile per mantenere in vita i nuovi corsi. Infine, si assiste ad un aumento della docenza strutturata, in particolar modo proprio dei professori Ordinari: il livello massimo della gerarchia accademica. In particolare, dal 1997 al 2007 i docenti a ruolo Ordinario sono passati da 13402 a 19625, per un aumento di quasi il 50%, contro il totale dei docenti strutturati (compresi i ricercatori) che sono passati dai 49187 ai 61929, un aumento di poco più del 20% (dati Miur).
Questo forte sviluppo del sistema universitario italiano è andato, però, in controtendenza rispetto alla capacità di finanziamento dello Stato. Inevitabilmente, le spese per il personale hanno occupato la quasi totalità delle entrate degli atenei, superando, in alcuni casi, quella soglia posta come limite al 90% del Fondo di Finanziamento Ordinario (il budget degli atenei). Le accuse che gli atenei muovono nei confronti dello Stato, sono di carattere normativo e finanziario. Lo stato prevede aumenti stipendiali al personale docente strutturato attraverso scatti automatici biennali, ma non prevede coperture specifiche (aumenti proporzionati) attraverso i Fondi di Finanziamento.
Da questo, secondo le accuse, lo sforamento del FFO. Attualmente ben sette atenei italiani, tra cui strutture importanti come Firenze, l’Orientale e il nostro ateneo cittadino, superano il limite imposto del 90%. Le cause che hanno condotto alla situazione attuale, quindi, sembrano essere paritetiche. Da una parte un’interpretazione un po’ troppo utilistica, dall’altra una normativa troppo permissiva e poco coerente. L’inasprimento dei “requisiti minimi”, le unità di quote-docenza per Corso di Studio, è stata l’arma maggiormente utilizzata nelle ultime due legislature per ovviare alla proliferazione delle spese, ma, a questi metodi “dolci”, l’attuale Dicastero ha preferito appoggiare i forti tagli previsti dalla L.133/08 rivedendo, attraverso il Dl 180, il turn over. Per gli atenei che superano il famoso tetto del 90% del proprio FFO, il blocco del turn over è totale. Sommato ai tagli previsti, per alcuni atenei si tratta di un enorme ridimensionamento che non elimina il rischio fallimento.
A meno che… Il decreto 180 fa riferimento alle “università pubbliche”, cioè, non a quelle non-statali. Quest’ultima figura pare adattarsi perfettamente a quella delle Fondazioni private previste dalla Legge 133, articolo 16. In pratica, l’unico modo per aggirare la scure del 180 sarebbe la trasformazione in quelle fondazioni tanto contestate da docenti e studenti. A questo punto, la frattura è ancora aperta. C’è chi afferma che nulla cambierà. Che l’università italiana saprà parare anche questo colpo mantenendo i suoi privilegi e le sue difficoltà. Mentre i nostri migliori cervelli fuggono all’estero in cerca di riconoscimenti professionali che l’università italiana non è più un grado di fornire, non rimane che attendere e vedere la fine di quest’ennesima commedia all’italiana.
Floriano Tomasi
Studente