l’Etica del lavoro quale presupposto della meritocrazia. Ma anche La funzione del leader e lo strumento andragogico e ricco di motivazioni della delega
Il lavoro, fonte di felicità per l’uomo
In occasione di un recente convegno internazionale tenutosi a Trieste[1], il prof. Edmund Phelps[2], insignito del premio Nobel per l’economia nel 2006, ha espresso un principio di portata epocale: l’«indice della felicità» dell’uomo, che aumenta quanto «più siamo soddisfatti sul posto di lavoro». Lo stesso indice rileva «un’Italia molto infelice», motivo della crisi di produttività e risultato di un’«insufficiente etica del lavoro». Il valore del lavoro è stato svilito, esaltando, invece, il “tempo libero”. L’impegno nell’istituzione o in azienda è stato spesso stigmatizzato come contributo insulso e servile verso lo Stato o il datore di lavoro. Comunque lontano dagli interessi del dipendente e quindi fonte d’alienazione ed insoddisfazione. In realtà, ciò che produce alienazione è il distacco morale e psicologico della persona rispetto alla propria attività professionale.
Patologie della burocrazia
La carente etica del lavoro nel settore pubblico va ricondotta allo sviluppo della burocrazia. Già nel 1936 Robert Merton[3]indicava il paradosso dei burocrati, i quali arrivano ad occuparsi istituzionalmente solo della correttezza procedurale e non dei fini. Attribuendo valore ad aspetti complementari e deresponsabilizzandosi dinanzi alla reale funzione di ciò che svolgono. Merton ha definito questo comportamento ritualismo burocratico. Un atteggiamento culturale che considera la procedura come un rito liturgico da ossequiare in modo sacrale, disinteressandosi totalmente del merito. Il ritualismo è la manifestazione di una cultura autoreferenziale dell’azione amministrativa. Determina il distacco morale del funzionario e la mancata attenzione ai risultati della sua azione. Tutte queste caratteristiche alimentano ancora oggi lo stereotipo dell’uomo-burocrate, che antepone irresponsabilmente carta bollata, timbri e sigle al dialogo vivo con uomini vivi e la cultura del “non si può” descritta da Francesco Alberoni[4]. Comportamenti ed atteggiamenti ancora diffusi, cui però si contrappongono nuovi modelli d’amministrazione, orientati al coinvolgimento di tutti i lavoratori verso la meta.
I nuovi modelli del NPM e del TQM
Il New public e Total Quality Management sono nati guardando al privato e sono tesi a ridurre le attività burocratiche non dirette ai servizi per il cittadino ma al sostegno degli stessi uffici.
Per migliorare il settore pubblico, il New public management agisce con logica di mercato, con la stipula di contratti. Con la cosiddetta contrattualizzazione, la verifica non è più una semplice ispezione di conformità, ma è valutazione dei risultati conseguiti, per apprezzarli in chiave meritocratica. Si inquadrano in questo contesto le recenti riforme degli enti pubblici nazionali, ispirate a criteri di efficienza, efficacia ed economicità, misurazione degli outputs realizzati virtuosità dell’Ente locale, separazione fra l’attività di indirizzo/controllo e quella di gestione. Oltre che alla valutazione dei dirigenti nel nuovo sistema di internal auditing della Pubblica Amministrazione. Anche il modello organizzativo del Total Quality Management punta a soddisfare i bisogni del cittadino-cliente. L’organizzazione è votata al raggiungimento dell’obiettivo. Il passaggio da uno stato di dipendenza psicologica da qualcuno che fa, organizza, gestisce, a uno stato di partecipazione diffusa di tutti i protagonisti libera energie e creatività altrimenti inespresse. Tale orientamento culturale prevede una leadership ispirata al coinvolgimento dei dipendenti e che punti alla crescita delle loro capacità attraverso la formazione e le relazioni interpersonali. Il leader deve puntare ad un rapporto diretto con ogni collaboratore per migliorare la fiducia percepita e coinvolgerlo verso gli obiettivi. Ciò permette agli individui di acquisire maggiore autonomia, migliorare l’autostima personale, l’assertività e responsabilizzarsi in seno all’organizzazione.
La funzione del leader
Si rifanno a ciò le teorie della nuova leadership che, a partire dagli anni ottanta, hanno rivoluzionato la figura del leader tradizionale. Importante la distinzione fra i modelli transazionale e trasformazionale[5]. I meno evoluti leader transazionali ricevono collaborazione dai subordinati controllando le loro prestazioni. I leader trasformazionali ottengono la partecipazione ispirando nei collaboratori una visione superiore ai propri interessi immediati. Il leader trasformazionale dimostra qualità che inducono rispetto ed orgoglio, diventa modello da imitare, diffonde una visione del futuro coinvolgente ed ottimistica. Esamina nuove soluzioni, muove i dipendenti a proporre idee originali, pone attenzione ad ogni singolo collaboratore, riconoscendone bisogni, aspettative, potenzialità. Quando un leader considera individualmente i propri collaboratori, è attento ai loro bisogni di crescita e successo, calibra il proprio comportamento in funzione delle loro caratteristiche e pratica l’ascolto attivo. Considera le abilità ed aspirazioni, riconosce i meriti e mostra interesse verso il benessere e la soddisfazione lavorativa. Fornisce supporto, incoraggiamento, insegnamenti. Utilizza lo strumento della delega per far crescere il collaboratore umanamente e professionalmente, stimolando esperienze di apprendimento.
La delega, principale strumento di coinvolgimento del “fannullone”
La delega è un atto di natura organizzatoria che attua una forma indiretta di decentramento. Un momento collaborativo di carattere fiduciario che fa sorgere un rapporto fra delegante e delegato in cui il primo conserva la competenza e mantiene poteri di direzione e controllo. Per la scienza dell’amministrazione e la psicologia del lavoro, la delega può essere considerata il principale strumento di valorizzazione delle risorse umane del nostro tempo[6]. Ragioni di contenimento dei costi, snellimento dell’apparato pubblico e riduzione del personale “fannullone” al centro della recentissima riforma del D.L. n.112 del 25 giugno 2008. In virtù dell’attuale contratto nazionale, i dipendenti statali sono all’ultimo posto in Europa per numero di ore lavorative prestate settimanalmente (32,9)[7]. Ciò impone di capitalizzare le componenti individuali e la delega si dimostra efficacissima nel motivare il collaboratore. E’ economicamente conveniente per garantire l’apprendimento diretto sul luogo di lavoro, il miglior sistema di formazione del dipendente. Il percorso addestrativo, quindi, non avviene sterilmente all’esterno come quello teorico e d’aula, con spese per la formazione dei pubblici dipendenti che raggiungono, in Italia, i cento milioni di euro l’anno. Risulta meno oneroso della job rotation, che comporta spese di spostamento, incrementi salariali, perdite d’efficienza ed errori durante il processo di apprendimento e vicino ai c.d. “laboratori virtuali”, che propongono l’uso dei giochi di ruolo online per ricreare le turbolenze del mercato, esercitando l’operatore a risolverle con decisioni realistiche. Le attuali teorie organizzative chiedono al leader di valorizzare gli individui, in un processo di trasformazione interiore che faccia nascere motivazione ed emozione nel raggiungimento degli obiettivi. La delega responsabilizza la persona, ne riconosce le potenzialità, la pone nelle condizioni di lavorare più e meglio, facendola sentire capace ed autonoma. Aumenta l’efficienza e consente la realizzazione del collaboratore e del manager. Per le sue capacità motivazionali, la delega diviene strumento di empowerment del lavoratore, leva di gestione dello staff, indice di leadership consapevole.
“L’uomo al quale non si presenti un’unica e sempre uguale meta all’esistenza, non può nemmeno essere uno ed eguale per tutta la vita” (Marco Aurelio[9]).
Massimiliano Pigato
Ten.Colonnello dei Carabinieri, Dottore in “Giurisprudenza” e in “Scienze dell’Amministrazione”,
Capo Ufficio del Comando Provinciale Carabinieri di Trieste