Storia ed evoluzione della riforma psichiatrica

La perizia psichiatrica smise di essere un semplice ed opaco ingranaggio di un meccanismo procedurale automatico che smistava gli internamenti riproducendo le categorie (mentali/culturali/istituzionali) di incapacità e di pericolosità ma divenne uno strumento sensibile di comprensione di storie personali e di fatti-reato, di individuazione ed orientamento di pratiche di reintegrazione e di riabilitazione

La problematica inerente l’Amministrazione di Sostegno, pur presente nel diritto europeo, è maturata nell’ambito dell’esperienza di superamento dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale (O.P.P.) di Trieste e delle culture e pratiche manicomiali che Franco Basaglia aveva avviato nel 1971, a prosecuzione dell’esperienza di Gorizia. Il superamento dell’O.P.P. metteva in discussione l’intero impianto legislativo vigente, che si fondava sulla L. 36 del 1904 e che trovava coerente riscontro nel Codice Penale e nel Codice Civile. L’art. 1 della legge recitava “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo…“.

La persona veniva internata – sostanzialmente per sempre – con un decreto di internamento definitivo del Tribunale e veniva interdetta. Scopo della legge non era la cura, ma l’internamento degli alienati nell’illusione di poter proteggere la società da presunti pericoli e dalla follia che veniva altrettanto illusoriamente razionalizzata nella malattia e segregata. Il Codice Penale del 1930 aveva introdotto o rafforzato le misure di sicurezza presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.) attraverso la codificazione di un complesso sistema di automatismi che si legittimavano con la presunzione di incapacità di intendere e volere e di pericolosità sociale, indurendo le già dure logiche di internamento e rafforzando lo stereotipo del pazzo criminale e della follia come potenziale criminalità. Gli artt. 414 e 415 C.C. riflettevano a livello civilistico la stessa concezione politico-culturale. Era complessivamente un sistema coerente ed organico.

La Costituzione della Repubblica Italiana ha posto su basi completamente nuove e diverse la questione dei diritti fondamentali della persona, dell’accesso ai diritti di cittadinanza, della promozione a tale accesso per tutti i cittadini e quindi anche per le persone con disturbo mentale. La L. 431/68 ha aperto un primo spiraglio nel precedente sistema così monolitico prevedendo la possibilità di accesso volontario alle cure psichiatriche per ogni cittadino, anche per le persone internate in O.P.P., qualora ve ne fossero le condizioni, senza che il loro nome venisse iscritto nel Registro degli alienati che si trovava nelle Questure. La sentenza 25 gennaio 2005- 8 marzo 2005 n. 9163 della Suprema Corte di Cassazione – Sezioni Unite Penali in alcuni passaggi evidenzia il radicale cambiamento di prospettiva politico-giuridica compiuto con la Costituzione della Repubblica.

L’impianto legislativo e culturale della L.36/1904 è stato completamente rovesciato dalla L. 180/78 che ha riconosciuto e raccolto alcune esperienze di cambiamento organizzativo, pratico e culturale in corso in Italia, ma, soprattutto, a Trieste. Alcuni esponenti della Magistratura triestina hanno chiesto agli psichiatri che avevano contribuito con il loro lavoro ad un così profondo cambiamento legislativo di misurarsi con la questione psichiatria-giustizia nella nuova prospettiva che la L. 180/78 aveva aperto. L’invito era stato raccolto anche perché, dopo l’affermata abolizione dei manicomi, rimaneva completamente aperta e quasi oscurata la questione degli O.P.G., delle norme e delle culture che li sottendevano, e la questione dell’interdizione-inabilitazione.

Fino al 1982, ma anche in seguito, il lavoro peritale era orientato alla rivisitazione critica degli stereotipi e dei pregiudizi che i tradizionali saperi psichiatrici, intrinsecamente manicomiali, riproponevano come “scienza”, alimentando gli automatismi procedurali e le presunzioni di incapacità di intendere e volere e di pericolosità. Essendo il sistema rigido e bloccato sotto un profilo procedurale, il contributo possibile – culturalmente ed eticamente dovuto – consisteva nella proposizione di nuove e più complesse conoscenze e comprensioni delle persone e delle loro storie, più aderenti alla realtà. Venivano rivisitate la concezione della malattia, il suo rapporto con le storie personali e sociali delle persone, la sua idoneità per lo più non assoluta a determinare le azioni delle persone e a condizionarne la responsabilità. Veniva evidenziato che la malattia non costituisce l’attributo unico, totalizzante e qualificante di una persona che diventa malato di mente.

Veniva rivisitata alla luce di nuove conoscenze e di nuove esperienze la concezione della pericolosità sociale, non più attributo esclusivamente intrinseco della persona malata, ma risultante di variabili personali e di contesto, su ognuna delle quali era possibile intervenire positivamente. Il lavoro nel territorio e nella comunità evidenziava che le persone, ancorché portatrici di un disturbo mentale, avevano risorse positive da mettere in gioco nel campo della vita e delle relazioni. Pur necessitando spesso di aiuto, avevano capacità di agire a vari livelli, in diversi campi. Nella pratica, nella comunità, ovvero in una realtà non istituzionale, era evidente che non erano totalmente ed assolutamente incapaci come invece l’internamento manicomiale, i suoi presupposti, le sue regole, i suoi condizionamenti, i suoi effetti, avevano imposto ed in parte prodotto all’interno del recinto istituzionale.

Con la sentenza n. 139, la Corte Costituzionale nel 1982 ha cominciato ad intaccare il meccanismo della presunzione di pericolosità e ha imposto la verifica della permanenza o meno di una condizione di pericolosità in una persona prosciolta per vizio di mente. Altre importanti sentenze sono seguite negli anni fino alla più recente e molto importante sentenza n. 253/2003. Sentenze sempre orientate alla critica delle presunzioni e degli automatismi procedurali ed al riconoscimento dei diritti fondamentali della persona attraverso il riconoscimento della reale condizione nel concreto caso specifico, prendendo atto che un’adeguata presa in carico era efficace e configurava il diritto alla salute. Il lavoro di salute mentale che si sviluppava nella comunità poteva essere compiuto anche nei confronti delle persone con disturbo mentale che avevano commesso reato.

Ovvero, era possibile operare con maggiore consapevolezza ed incisività anche sulla questione della pericolosità, sia nella pratica, sia nella teoria, senza scivolare nell’ideologia (nel 1985 il gruppo di Trieste fu invitato come interlocutore dalla Società di Psichiatria Forense in un Convegno a Gargnano). La perizia psichiatrica smise di essere un semplice ed opaco ingranaggio di un meccanismo procedurale automatico che smistava gli internamenti riproducendo le categorie (mentali/culturali/istituzionali) di incapacità e di pericolosità, ma divenne uno strumento sensibile di comprensione di storie personali e di fatti-reato, di individuazione ed orientamento di pratiche di reintegrazione e di riabilitazione, rimettendo a fuoco il delicato equilibrio tra diritti e doveri, comprensione (delle storie e del divenire della persona), determinismo (della malattia) e responsabilità (personale).

La perizia come strumento di conoscenza e di cambiamento, di restituzione di diritti e di doveri, di individuazione dei livelli di responsabilità (e poi della capacità di stare in giudizio, del diritto di stare in giudizio, quando possibile). Il c.d. malato di mente non è più soltanto la sua malattia, non viene più identificato con la sua malattia, ma è una persona che, pur afflitta da un disturbo mentale che lo può variamente limitare e condizionare, dimostra di possedere capacità molteplici. Nella concretezza della vita quotidiana dimostra di non essere una persona totalmente incapace come stereotipi e pregiudizi, tradotti in leggi, organizzazioni istituzionali e “comune sentire”, hanno imposto per tanto tempo, creando un condizionamento effettivo.

Il primo snodo fondamentale è stato ed è quello del giudizio di incapacità, giudizio che innanzitutto nullifica la persona e ne sancisce l’irresponsabilità assoluta, condizione che, in generale, non trova riscontro nella realtà, se non eccezionalmente, e secondariamente implica che un altro, persona o istituzione, si sostituisca a lei e ne diventi responsabile in sua vece e ne risponda. Per rappresentare criticamente le nuove problematiche, le nuove esperienze e le prospettive che si aprivano con il  percorso avviato, nel 1984 il prof. Cendon, insieme al Dip. di Salute Mentale di Trieste, ha organizzato un Convegno sulla capacità di intendere e di volere in ambito penale. Anche nel panorama nazionale si era aperto un primo spiraglio sulla compatibilità nel caso concreto di infermità di mente e responsabilità penale (prof. G.L. Ponti).

Il passaggio successivo – dall’incapacità e dall’irresponsabilità in ambito penale a quella in ambito civile – è maturato con un approccio critico all’istituto dell’interdizione (art. 414 C.C.) e dell’inabilitazione (art. 415 C.C.).
Nel 1986 il prof. Cendon, in collaborazione con il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste, ha organizzato il Convegno di Studi “Un Altro Diritto per il Malato di Mente. Esperienze e Soggetti della Trasformazione” e ha presentato e discusso la prima stesura del progetto di legge relativa alla Amministrazione di Sostegno.

Dott. Mario Novello
Direttore del Dipartimento di Salute Mentale AZIENDA PER I SERVIZI SANITARI n. 4 “MEDIO FRIULI”

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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