Non abbandonarmi, non mortificarmi

Sono stati necessari quindici anni per definire e varare la legge che sancisce la nascita di un istituto essenziale a dare sostegno a che soffre di problemi psichiatrici. I risultati non sono omogenei nel paese ma variano a seconda dell’interpretazione del concetto stesso di necessità di tutela

1. Poche altre discipline, fra quelle introdotte di recente in Italia, si presentano agli occhi del lettore con un volto promettente e, al tempo stesso, sofferto quanto l’amministrazione di sostegno. Così già a ripensare le tappe che separano, cronologicamente, la redazione del primo progetto rispetto alle ultime fasi dell’approvazione parlamentare: un arco di più di quindici anni fra la data del famoso convegno triestino del 1986 e il voto conclusivo del Senato, pochi giorni prima del Natale 2003. Con un’altalena di successi contingenti (al Consiglio dei ministri, in qualcuna delle commissioni, in questa o quell’aula) e puntuali delusioni alla scadenza dei lavori; rimbalzando fra una legislatura e l’altra, ogni volta a ricominciare! Un testo messo a punto, come spesso accade alle normative sui soggetti deboli, con grandi aspettative e fervente attenzione. Seguito poi nel cammino romano, passo dopo passo, soprattutto dagli addetti ai lavori, oltre che da rari politici sensibili, con rischi di insabbiamento a ogni occasione, anche durante il triennio 2001/2003. Con un’approvazione giunta infine all’unanimità, in termini pressoché fortunosi, rocamboleschi. Anche il debutto applicativo della legge, se si guarda alle diverse zone del paese, non può dirsi avvenuto all’insegna della scioltezza, del massimo di uniformità e di concordia: con due ordini di riscontri che, nei commenti dottrinari, presso gli operatori socio-sanitari e nelle cronache dei giudici tutelari, mostrano frequentemente di intrecciarsi.

Da un lato, la presa d’atto delle tante mancanze di contorno, nell’apparato circostante all’A.d.S., sotto il profilo gestionale/organizzativo: ritardi e contraddizioni lungo il territorio, vastità della clientela, ma esiguità numerica dei giudici tutelari; complessità del lavoro istruttorio e frequente inadeguatezza dei servizi sociosanitari, fabbisogno di amministratori di sostegno al di fuori della famiglia e difficoltà di reperirli, volontariato generoso ma spesso impreparato. E così via. Dall’altro lato, la sensazione, diffusa presso molti osservatori, di un “fai-da-te” eccessivo a livello di conduzione giudiziale, città per città, talvolta stanza per stanza dello stesso corridoio. Qua propensione a deburocratizzare il più possibile, là inclinazioni al formalismo e alla pignoleria; da un canto giudici decisi a investire ogni energia personale sul nuovo fronte, dall’altro magistrati fermi a una denuncia circa i “velleitarismi” della svolta, pronti a passare ogni “patata bollente” a qualcun altro. Per un verso interdizioni che continuano a pieno ritmo, per l’altro amministrazioni di sostegno istituite nel 100% dei casi, gravi o meno gravi.

2. Nessun dubbio circa i tratti disciplinari in cui l’essenza della riforma va ravvisata: è il legislatore stesso ad enunciarli apertamente, con una proclamazione “intrecciata” entro la medesima disposizione, quella in cui vengono definiti gli obiettivi generali del provvedimento, all’art.1. Il primo caposaldo (sancito con la formula “finalità di tutelare … le persone prive in tutto o in parte di autonomia”) è un tutt’uno con il no che si proclama dinanzi a ogni situazione di abbandono, per i soggetti versanti in difficoltà, portatori cioè di un disagio tale da insidiare, nella quotidianità, il concreto esercizio di questo o quel diritto civile. Il secondo (ritrovabile nella frase “con la minore limitazione possibile della capacità di agire”) è costituito dal no che la legge pronuncia rispetto a qualsiasi proposta o via d’uscita giudiziale tale da annunciarsi – suscettibile comunque di essere vissuta – come oppressiva e mortificatoria per l’interessato. A questi due fuochi di partenza è riconducibile, capoverso per capoverso, il resto dell’intera normativa. Circa poi il coordinamento fra l’un momento e l’altro, in ordine alle opzioni da preferire sul terreno ermeneutico, i binari per l’interprete si lasciano cogliere facilmente: (a) gli esiti di cui alla novella si presentano, in the book, riportabili più marcatamente al raggio d’azione del primo canone, mentre altre misure sembrano rientrare soprattutto nell’ambito precettivo del secondo, le direttrici di cui all’art. 1 appaiono largamente compatibili fra di loro, tendendo anzi ad influenzarsi in maniera vicendevole (ciò che è “abbandonico” diventa alla lunga “avvilente” per la persona, e viceversa). Nei passaggi migliori della legge, ciascuna lascia ben trasparire il proprio timbro d’origine; (b) agli effetti applicativi, ambedue i “no” di cui all’art. 1 dovranno atteggiarsi, in via congiuntiva, quali “filtri generali di ammissibilità”. Ciascuna indicazione dotata di un suo autonomo potere di veto, nel senso della sicura contrarietà alla vis ac voluntas legislativa per ogni conclusione fedele ad uno dei due imperativi, ma contraria all’altro.

3. Quanto al primo principio, siamo di fronte ad un intervento a largo spettro, fortemente secolarizzato nei suoi passaggi, e ciò anzitutto dal punto di vista soggettivo, con riguardo al target di persone cui il nuovo presidio risulta destinato. Il diritto privato non può limitarsi, ecco la traccia da cui il legislatore muove, a prendere in considerazione e salvaguardare la sola “clientela pesante”, gli individui schiacciati, senza tregua e per sempre, lungo le soglie estreme della disgrazia o dell’inettitudine. Creature impossibilitate a fare alcunché nella loro vita o destinate, ben che vada, a combinare periodicamente disastri (a se stessi, ai familiari, a chi sta loro accanto). Non esistono sulla terra soltanto situazioni del genere. Il mondo non è fatto unicamente di soggetti sani al 100%, oppure malati “di testa” al 100%. Innumerevoli sono gli esseri umani che sul piano dell’intendere o del volere si collocano a metà strada, che stanno psichicamente “così così”: bene una settimana e male quella dopo, lucidi per un verso e distratti per l’altro, qua vitali, smaniosi e là invece torpidi o rassegnati, assenti e presenti al tempo stesso. Idem per l’area della c.d. devianza: alcolisti, anziani della quarta età, morenti, visionari, down, handicappati, parkinsoniani, oppure barboni, sofferenti del morbo di Alzheimer, maniaci del sesso, oligofrenici, vittime di un ictus, giocatori, o ancora pazienti in SVP, tossicodipendenti, coatti e anancastici, eremiti, seguaci di una setta e così via. Basta guardarsi intorno, sfogliare le statistiche di settore. V’è, anche all’interno di fasce del genere, chi ha perduto le forze al 100%, non ha più il lume degli occhi, conclude poco o nulla di buono e ci sono invece le persone (la grande maggioranza) che non appaiono toccate dalla sorte fino a quel punto – e a cui necessita però occasionalmente qualche ausilio. C’è chi funziona su alcuni versanti e non su altri. Reagisce bene di qua e male di là. E’ troppo ingenuo, ha scarsa memoria, si lascia spesso imbrogliare, sbaglia due conti su tre, sembra cavarsela da solo, ma in realtà perde regolarmente fatture e bollette, sottovaluta i pericoli, trascura i suoi bisogni, manca d’iniziativa o di feedback. Non vuole ammettere le proprie goffaggini, incespica, vive di ricordi, tradisce segreti mancamenti che lo isolano ogni tanto dal resto del mondo. Non gli servirà un appoggio 24 ore al giorno, dal diritto privato. Ma ha pur sempre necessità di essere supportato, contingentemente, tanto quanto richiede il suo benessere.

4. E’ per rovesciare il vecchio sistema che il progetto sull’amministrazione di sostegno, tra la metà degli anni ’80 e i primi anni ’90, verrà formalmente messo in campo: il no alla dismissione sistematica rispetto ai soggetti “deboli”. L’assunzione di impegni di copertura/puntello (sulla falsariga già collaudata nella legge 180) diventa, anche per il legislatore italiano, l’oggetto di un’esplicita linea di interventi.

– Colmare anzitutto il “grande vuoto” di salvaguardia, sul terreno civilistico: mai più in futuro zone di nessuno fra il piano delle istanze gestionali, grandi e piccole, della vita di una persona che non sta né bene né male del tutto e quello delle possibilità formali di esaudimento. Vi sarà uno strumento atto a plasmarsi d’ora in poi, tecnicamente, sui deficit funzionali di quel destinatario (il “vestito su misura”). I vuoti di reazione o di prontezza saranno colmati tempestivamente, a livello patrimoniale e non, da qualcuno titolato per farlo.

– Al bando le mezze finzioni di capacità negoziale: a fronteggiare le scadenze in agenda sarà un vicario di nuovo tipo, ammesso al compimento di determinati atti o contratti sulla base di un provvedimento specifico del g.t. Basta per sempre ad atti imbarazzanti per notai o pubblici ufficiali in contesti di clienti sospesi fra lucidità e turbe psichiche, senza vie d’uscita appropriate e sullo sfondo di operazioni giuridiche urgenti. Con parenti magari voraci o indigenti e sottoscrizioni e rogiti tanto essenziali, quanto formalmente arrischiati, impresentabili.

Tramontato anche l’azzardo delle gestioni di affari altrui (art. 2029 c.c.), svolte magari con premura, spesso maldestramente, nel difetto di istruzioni coerenti, articolate. A sostenere chi è in affanno, provvederà un rappresentante vero e proprio (o un curatore), senza più spazio per “filosofie originali”, oppure libere improvvisazioni o esperimenti, su ciò che è meglio per agli altri.

Chi si veda investito del potere, dal magistrato, dovrà seguire i binari che traccia quest’ultimo, secondo cadenze ben precise, al di là di ogni discontinuità o facoltatività e, quando occorra, con obblighi prefissati di inventario e rendiconto.

La famiglia ancora: finite per sempre le nomine scontate. E’ probabile sia da cercare lì, in prima battuta, il soggetto cui rimettere gli incarichi del caso; verrà stabilito, comunque, a null’altro guardando se non alla convenienza dell’interessato.

Se è un parente il prescelto del g.t., le attività di cui al decreto non si scosteranno, verosimilmente, da quanto sarebbe stato comunque intrapreso ex art. 2029 c.c., in maniera spontanea. Non è detto però, potrebbe anche andare diversamente, soprattutto con riguardo alle decisioni di maggior peso (specie quelle contrarie all’interesse dei congiunti). E differenti saranno, in ogni caso, le regole da osservare circa i controlli, i tempi della contabilità, le sanzioni dinanzi a irregolarità o negligenze.

Non più margini di rinvio o accantonamento, infine, per la pubblica amministrazione. Nessuna scusante per le amnesie di tipo politico/istituzionale (così frequenti nel campo del bisogno dei cittadini). Piena consapevolezza, presso il legislatore del 2004, che numerosi sono al mondo i “cani perduti senza collare”, che i p.m. possono non saperne nulla, che spesso manca un nucleo domestico alle spalle, che una società evasiva o poco solidale non merita di sopravvivere più di tanto.

L’assunzione dichiarata presso la comunità, allora, di impegni di supporto assiduo, permanente. Assistenti sociali chiamati a bussare alle porte di casa (insistentemente quando occorra), con una segnalazione dei casi che imporrebbero un approdo all’A.d.S. Nuove distribuzioni di lavoro all’interno dei tribunali, cancellerie e ruoli potenziati di tanto. Sinergie da ritoccare nei bilanci degli enti territoriali, raccordi inediti entro i capitoli della l. 328.

Complicità fra il livello dell’assistenza socio-sanitaria e il momento del vicariato civilistico: il tratto individual/negoziale destinato a intrecciarsi sempre più sovente, entro i piani regionali, con quello amministrativo, l’uno concepito come prolungamento dell’altro, utente per utente. Una “presa in carico” collettiva, rigorosamente intesa.

Paolo Cendon.
Professore ordinario di Istituzioni di diritto privato nell’Università di Trieste

 

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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