Le colture dedicate rappresentano un’opportunità per la ricerca. La loro diffusione incontra, al momento, molte difficoltà per la concorrenza di destinazioni alimentari delle produzioni e per quella di fonti fossili di energia.
1. Da Stoccolma a Kyoto
Il “Primo Earth Summit”, tenuto a Stoccolma nel 1972, ebbe l’importante merito di avviare il percorso di attuazione di piani internazionali di sviluppo sostenibile. Ebbe inoltre il merito di istituire la Commissione dello United Nations Environment Programme, che, tuttavia, per oltre 20 anni, fu maggiormente impegnata in altre problematiche, fra tutte la gestione della risorsa idrica mondiale e la salvaguardia dello strato di ozono (Convenzione di Vienna, 1985). In tempi non ancora maturi, la Dichiarazione di Stoccolma gettò per la prima volta le basi per uno sviluppo tecnologico “globale”, subordinato alla conservazione ed al miglioramento dell’ambiente. Al centro del dibattito, vennero inseriti argomenti innovativi, quali i rischi connessi alla rapida ed imprevedibile evoluzione del clima, al riscaldamento del pianeta in particolare, problematiche che fino ad allora erano state affrontate in maniera sommaria e con diverso spirito. I rischi legati ai cambiamenti climatici discussi nella Conferenza di Stoccolma vennero riscoperti solo nel 1987 con la pubblicazione da parte delle Nazioni Unite del trattato sulle “Prospettive ambientali all’anno 2000 e oltre”.
Ciò che però determinò realmente la popolarità internazionale del concetto di sviluppo sostenibile fu “Agenda 21”, il documento che sintetizzava gli accordi scaturiti dalla Conferenza Internazionale delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Di certo, per partecipazione e interesse internazionale, la Conferenza di Rio può essere considerata una svolta epocale nella presa di coscienza dei problemi e dei rischi legati ai cambiamenti climatici e della responsabilità antropica nell’accelerare significativamente tali cambiamenti. A tale proposito, è significativo ricordare tre principi generali (dei 27 totali) di Agenda 21, peraltro in larga parte ripresi dalla precedente Conferenza di Stoccolma: “l’uomo è al centro dello sviluppo sostenibile…”; “… lo sviluppo deve essere attuato in modo da soddisfare equamente i bisogni ambientali delle generazioni presenti e future”; “… la tutela ambientale costituirà parte integrante del processo di sviluppo…”. Tale Costituzione, firmata da più di 150 Stati, rappresenta una sorta di codice giuridico internazionale di “comportamento ambientale”, fornisce le linee guida per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti senza, tuttavia, fornire alcun riferimento preciso su obblighi e scadenze temporali. In definitiva, un documento nobile e ambizioso che, ad oggi, testimonia una diffusa e lontana presa di coscienza sull’emergenza ambientale.
Ma anche e soprattutto, il completo fallimento delle intenzioni della Conferenza di Stoccolma prima, e di quella di Rio poi. Fallimento, come detto, dovuto in larga parte alla mancanza di impegni concreti, scadenze e sanzioni all’interno delle convenzioni firmate dai singoli Stati. Lo stesso Boutrous Ghali, Segretario delle Nazioni Unite del tempo, rivelò che la massimizzazione delle partecipazioni fu preferita ai contenuti. Ciononostante, va dato il merito alla Conferenza di Rio di aver sancito la definitiva presa di coscienza dell’opinione pubblica mondiale sul binomio sviluppo-sostenibilità, assoggettando, come mai prima d’ora, lo sviluppo tecnologico globale alla sostenibilità ambientale. Con l’intento di rafforzare gli obiettivi delle Conferenze di Stoccolma e Rio, venne indetta nel 1997 a Kyoto la Terza Conferenza delle Parti (COP-3), nell’ambito della quale venne redatto il celebre Protocollo, firmato da più di 160 Paesi ed entrato in vigore ad otto anni di distanza (febbraio 2005). A differenza di Agenda 21, il Protocollo definisce obblighi, sanzioni e scadenze. In particolare, dei 175 Paesi ratificanti, solamente 36, responsabili del 61.6% delle emissioni globali, sono chiamati a ridurre il livello delle emissioni di gas climalteranti al di sotto di valori prefissati e specifici per ogni Stato; i restanti Paesi sono invece tenuti ad adottare misure efficaci di contenimento delle emissioni, ma non hanno obblighi formali di monitorarle e ridurle. In linea generale, il trattato prevede l’obbligo dei paesi industrializzati di ridurre, entro il periodo 2008-2012, le emissioni di biossido di carbonio, metano, ossido di azoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo in misura non inferiore al 5.2%.
Gli accordi di Kyoto sono stati più volte aspramente criticati poiché il protocollo è ritenuto da taluni un inutile e costoso provvedimento (3-5 miliardi €/anno), un sacrificio ingiustificato, vista l’incertezza sulle responsabilità dell’uomo nell’aumento dei gas serra nell’atmosfera. Inoltre, se Kyoto rappresenta il primo tentativo di governare lo sviluppo globale in un’ottica di sostenibilità, molti dubbi rimangono sull’adeguatezza dei provvedimenti. La riduzione del 5.2% di emissioni globali appare a molti troppo modesta, ma, soprattutto, la critica più severa deriva dalla rinuncia volontaria di alcuni Paesi di grande peso internazionale, su tutti gli Stati Uniti, che da soli sono responsabili del 22% delle emissioni globali e che, in aggiunta, hanno incrementato le emissioni del 16% nel periodo 1990-2005. Si consideri, poi, che i Paesi non-OECD, fra i quali Cina e India (responsabili rispettivamente del 18% e 5% delle emissioni totali), sono esclusi da obblighi di alcun genere, in quanto Paesi ad Economia in Transizione.
La Cina, in particolare, è attesa superare le emissioni degli USA già a partire dal 2010…La risposta dell’Italia al Piano Europeo di Sviluppo Energetico è riportata in un Documento pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 10 Settembre 2007. Il contributo delle biomasse alla produzione di energia elettrica è ritenuto poter aumentare dagli attuali 6.16 TWh (2005) a 14.5 TWh nel 2020; nello stesso periodo, la produzione di calore/raffreddamento è attesa aumentare da 1.88 a 9.32 Mtoe; quella dei biocarburanti da 0.30 a 0.61 Mtoe, che rappresenta il 20% della quantità di biocarburanti che si prevede debbano essere miscelati a benzina e gasolio. Infatti, poiché nel 2020 il consumo di carburanti dovrebbe essere complessivamente di circa 40 milioni di tonnellate, raggiungere autonomamente la quota del 10% di biocarburanti significherebbe utilizzare più di 5 milioni di ettari, vale a dire il 60% della superficie italiana coltivata a cereali. Sarà quindi inevitabile, per tener fede agli obiettivi, importare circa l’80% dei biocarburanti.
2. Il ruolo delle colture dedicate
Le colture dedicate, al pari delle deiezioni animali, dei residui dell’industria agroalimentare e forestale e di parte dei rifiuti solidi urbani, rientrano nella categoria delle biomasse. Più in particolare, le colture dedicate sono specie erbacee o arboree appositamente coltivate per produrre energia; comprendono sia colture di nuova introduzione (es. switchgrass e miscanthus), sia specie tradizionalmente coltivate per altri usi (alimentari e non) e riconvertite alla destinazione energetica (es. pioppo o girasole). Alcune specie possono poi rientrare o meno nella categoria delle colture dedicate a seconda del tipo di utilizzazione.
Il mais, ad esempio, è una coltura dedicata nel caso in cui la granella sia destinata alla produzione di bioetanolo, o, ancora, quando la pianta sia raccolta a maturità cerosa per la produzione di biogas; non è invece una coltura dedicata nel caso in cui parte della pianta sia destinata alla conversione energetica (stocco) e il resto al mercato alimentare (granella). Le colture dedicate vengono spesso indicate, più o meno intenzionalmente, con il termine biomasse, generando così dubbi e perplessità da parte del mondo agricolo che si vede in contrapposizione con settori fortemente più competitivi, in particolare quello della gestione dei rifiuti. Per fare un esempio, in assenza di specifiche garanzie di mercato, la biomassa derivante da una coltura dedicata (seminata, coltivata, raccolta, stoccata e a volte anche pre-trattata) verrebbe a trovarsi alla stessa stregua di prodotti di scarto industriale o rifiuti di vario genere, talvolta anche di dubbia provenienza e qualità, generando una sorta di “spuria competizione” a forte danno delle colture dedicate.
La salvaguardia del territorio, nonché della qualità e provenienza delle biomasse, dovranno essere oggetto di una tempestiva e opportuna normativa, più che mai necessaria a promuovere gli investimenti del mondo agricolo nel settore delle bioenergie. Ad oggi, le biomasse forniscono circa il 4% del fabbisogno energetico dell’UE25, un valore che secondo le stime della European Environment Agency (EEA) potrebbe triplicare nei prossimi 10 anni senza riflessi significativi sulla produzione interna di prodotti alimentari. Un contributo concreto alla diffusione delle biomasse, e in particolare delle EC, dovrebbe derivare dalle recenti misure introdotte dalla UE tese a raddoppiare l’uso energetico delle biomasse entro il 2010 e a quadruplicarlo entro il 2030 (Biomass Action Plan, 2005). Ciò consentirebbe, fra l’altro, di ridurre le emissioni annue di CO2 di 209 Mt, che corrisponderebbe al 6.7% delle emissioni annue della UE, di poco inferiore all’obiettivo dell’8% fissato per la UE nel Protocollo di Kyoto.
3. Conclusioni
Le colture dedicate, anche contribuendo in misura percentualmente limitata al fabbisogno energetico, necessitano di ampie superfici. Di conseguenza, il positivo impatto ambientale che deriverà dalla loro diffusione sul territorio sarà nettamente preponderante rispetto al contributo energetico.
Per l’agricoltura, le colture dedicate rappresentano un’opportunità da non perdere; per la ricerca, un settore che necessita di approfondimenti e innovazione, sia per le diverse destinazioni possibili delle colture tradizionali, sia per l’introduzione di colture finora non rientranti negli ordinamenti colturali nazionali ed europei. La loro diffusione incontra, al momento, molte difficoltà per la concorrenza di destinazioni alimentari delle produzioni e per quella di fonti fossili di energia. Il costo di produzione di bioetanolo sembra al momento fortemente concorrenziale solo in Brasile, dove viene ottenuto dalla canna da zucchero a bassi costi di coltivazione e manodopera (circa 13.5 US$ hl-1). L’etanolo prodotto da mais e frumento ha costi simili o del 10% più elevati rispetto alla benzina, a causa degli ancora elevati costi del processo industriale. L’etanolo di seconda generazione ha costi ancora più elevati, da 0.7 ad 1 € per litro di benzina equivalente (senza accise). La situazione non è molto differente per il biodiesel, che ha costi mediamente superiori del 10% rispetto al diesel. Va detto, tuttavia, che l’incremento continuo del prezzo del petrolio potrebbe portare presto i biocarburanti ad un livello di forte concorrenzialità con i combustibili fossili. A tal proposito, è stato calcolato che il biodiesel potrà risultare più conveniente del diesel con prezzo del petrolio superiore a 75 €/barile; il bioetanolo a 95 €/barile (CE, Biomass Action Plan 2005). Ancora maggiore concorrenzialità potrà derivare dal riconoscimento economico dei benefici ambientali derivanti dall’intera catena dei biocarburanti.
Giampiero Venturi
E’ titolare della cattedra di Agronomia Generale e Coltivazioni presso il Dipartimento di Scienze
e Tecnologie Agroambientali dell’Università di Bologna
Andrea Monti
Ricercatore in Colture Erbacee presso il Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agroambientali dell’Università di Bologna