Gli editori insistono a produrre ai medesimi ritmi: quello che conta è arrivare prima degli altri ed essere primi in vetrina. In questo gioco al massacro chi ci rimette sono i giovani lettori. Si perde la visione culturale e acutamente pedagogica e prevale l’interesse economico.
Nel 1978 la mai troppo lodata Emme edizioni di Rosellina Archinto pubblicò un importante volume curato da Francelia Butler e dedicato allo studio della letteratura per l’infanzia che portava un titolo rivelatore: La grande esclusa. Sempre, in effetti, i libri per bambini si sono portati dietro il segno di un’emarginazione, come fosse cosa di poco conto e di scarso interesse. Questa separatezza non sempre si è rivelata una condanna, ma si è in certi casi trasformata in risorsa perché ciò che rimane in ombra può permettersi libertà altrimenti non pensabili. Quello che viene da chiedersi oggi è se il titolo pensato dalla Butler abbia ancora validità. Da una parte questo è indubbio ed è triste riconoscerlo: la letteratura per l’infanzia non gode ancora della necessaria attenzione critica, né sul piano degli studi approfonditi né su quello dell’immaginario diffuso. Basti pensare a quanto poco se ne parli nei media, nei giornali e in televisione, se non fosse per il fenomeno di Harry Potter o per i consigli degli acquisti natalizi. Ma per altri versi questa esclusione si è fortemente ridotta: i libri per bambini sono entrati a tutti gli effetti nel sistema dell’industria culturale, sono diventati una voce importante nel bilancio delle case editrici che producono anche per adulti, sono persino arrivati nelle mani dei “grandi” che hanno scoperto di appassionarsi a storie dedicate ai più piccoli alimentando così la moda del crossover, cioè del libro capace di far incontrare diverse fasce di lettori. Il decennio a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta è ricco di trasformazioni e di indubitabili progressi: l’aumento quantitativo delle proposte, le numerose traduzioni di autori stranieri importanti ma ancora inediti, il rinnovamento dei temi, delle tipologie di personaggi, la trasformazione della veste editoriale, l’apparizione di alcune nuove voci che si affermano sul panorama nazionale. Questi sono i termini della svolta. Ma giunto al culmine a metà degli anni Novanta, questo processo subisce improvvisamente un arresto, che diventa ben presto una involuzione. Diverse possono esserne le cause: un progressivo esaurimento dei titoli stranieri inediti validi, una maggiore cautela nella sperimentazione di collane davvero innovative, il calo vertiginoso della lettura in età preadolescenziale e l’anticipazione progressiva di questo momento cruciale dello sviluppo. E, poi, i soldi. Sì, perché si scopre che fare libri per ragazzi non è sconveniente, anzi, ci si guadagna. E, d’altronde, non potrebbe essere diversamente in un Paese in cui sono proprio i bambini a essere statisticamente i lettori più forti, surclassando gli adulti. La letteratura per l’infanzia diventa un mercato appetibile; case editrici che non si erano mai occupate del pubblico più giovane, come Feltrinelli, e/o, Adelphi, Fanucci si buttano nell’impresa con esiti e fortune alterne. Il mercato si inflaziona: se nel 1987 le novità proposte per tutte le fasce di età erano 952, nel 1998 sono 2.032 e negli anni successivi arrivano a oltre 2.200 titoli. Si fanno troppi libri, con le conseguenze immediate di un calo della qualità media proposta e di un affollamento degli scaffali di librerie e biblioteche che rende urgente il problema di rimanere visibili. Ma gli editori, che pure concordano su queste analisi, non si fermano e insistono a produrre ai medesimi ritmi: quello che conta è arrivare prima degli altri ed essere primi in vetrina. In questo gioco al massacro chi ci rimette sono i giovani lettori. Si perde la visione culturale e acutamente pedagogica della svolta e prevale l’interesse economico. Anche l’assetto gerarchico all’interno delle case editrici rivela questa trasformazione: il direttore del marketing ha spesso più peso del direttore editoriale.
La letteratura per ragazzi, ahimè, è diventata grande e assume tutti i difetti del mercato letterario per gli adulti. Nella corsa a rimanere visibili e a conservare un rapporto fideistico con il pubblico la collana cede sempre più posto alla serie. Il successo dei Piccoli brividi della Mondadori a metà degli anni Novanta in Italia segna l’inizio di questa metamorfosi. Non che le serie prima non ci fossero, anzi sono sempre state una caratteristica della produzione letteraria popolare a partire almeno dalla fine dell’Ottocento. Basti pensare a personaggi come Tarzan di Borroughs, allo Sherlock Holmes di Conan Doyle e a tutti i successivi paladini dell’investigazione. Anche nella letteratura per ragazzi c’erano stati eroi capaci di ritornare in più volumi, basti pensare ai romanzi di Nancy Drew o al più recente Vampiretto. Ma prima erano un settore parziale delle proposte. Pian piano vengono a occupare un posto crescente nelle librerie. Fino ad arrivare al punto che case editrici come Mondadori e Piemme costruiscono sulle serie gran parte del loro catalogo, lasciando scomparire libri importanti presenti nelle collane e usciti magari solo dieci anni prima. Ma la prevalenza della dimensione seriale, che impone ritmi e modalità di produzione che difficilmente possono convivere con una buona qualità, non porta solo a un impoverimento dei cataloghi. C’è una diversa idea della lettura che pian piano emerge: le collane avevano l’impronta di una politica culturale forte e consapevole, richiedevano lo sforzo e il coraggio da parte degli editori di dare una chiara identità alla produzione e di selezionare le proposte con un’ottica precisa. È proprio questa che veniva o non veniva premiata dai giovani lettori che si affidavano fiduciosi alla lettura di una grande varietà di autori, stili, tipologie di personaggi, situazioni narrative, pur unificate nell’identità collettiva della collana. Questa diventava così il veicolo di un’abitudine alla lettura “centrifuga”, digressiva, aperta all’esplorazione, disponibile alla varietà. L’affermazione e la predominanza delle serie rischiano invece di comunicare un’idea diversa e, diciamolo, riduttiva: il rapporto che si instaura non è più tra lettore ed editore ma tra lettore e personaggio. Di per sé questo non ha nulla di negativo ovviamente, ma ha in sé la possibilità di una degenerazione, quando si arriva all’identificazione della lettura unicamente come la lettura di quella determinata serie. Non c’è più esplorazione ma solo la ricerca di conferme in mondi narrativi che già si conoscono, con il rischio evidente di un impigrimento. Bambini e ragazzi riducono la loro sfera di interesse, diventano lettori specialistici, e spesso di proposte la cui qualità media non può rallegrare, con la ripetitività degli intrecci e la minaccia sempre presente dello stereotipo. Nel corso di questa trasformazione del mercato fa l’apparizione Harry Potter che comincia, anche se non da subito, a vendere in quantità esorbitanti da noi come in tutto il mondo, affermandosi come il fenomeno letterario, inteso dal punto di vista economico, degli ultimi anni. Le conseguenze sul comportamento degli editori è tale che non è errato fare riferimento a un “prima” e un “dopo” Harry Potter. Il maghetto della Rowling fa comprendere che i libri per bambini possono trasformarsi in eventi planetari, con la naturale coda di gadget, produzioni cinematografiche, amplificazione dei media di comunicazione. Il grande successo, la tensione crescente man mano che si avvicina l’uscita del nuovo volume, alimentata dalle abili trovate nelle strategie di vendita, l’enorme diffusione anche tra gli adulti, spingono i nostri editori, ma anche quelli all’estero, a cercare il prossimo “colpaccio”. La produzione rischia così di perdere progettualità e di diventare la ricerca isterica del futuro evento. E, infatti, abbiamo già assistito alle celebrazioni e agli inevitabili fallimenti di nuovi personaggi e volumi, dai diritti costosissimi per gli editori, che immancabilmente annunciano bestseller prima ancora che questi arrivino in libreria, senza mai riuscire a spodestare il primato del giovane mago inglese. Ma quello che più interessa qui sono gli esiti di questi mutamenti nell’immaginario e nelle abitudini dei ragazzi. Anche in questo caso ombre non confortanti oscurano il brillio delle cifre di vendita. Un mercato editoriale che promuove sempre l’uscita di un volume come evento rischia di comunicare una particolare visione del libro, in cui quello che conta è, appunto, partecipare al fenomeno, piuttosto che leggere davvero. Il processo di specializzazione di giovani lettori si amplifica ancora di più, arrivando a casi in cui bambini hanno letto cinque o sei volte tutti i volumi di Harry Potter, acquistandone magari anche la versione originale in inglese, ma diffidano verso chi consiglia loro di ampliare l’arco di interesse, di aprirsi ad altri autori, ad altre dimensioni narrative.
Emilio Varrà
Docente di Archetipi dell’immaginario all’Accademia di belle arti di
Bologna all’interno dell’indirizzo di Pittura-fumetto e illustrazione