La buona gestione costa come quella cattiva e la raccolta differenziata è incentivata anche economicamente, ma l’Italia è divisa in due. Un’analisi approfondita di costi ed emissioni potrebbe far rivedere le posizioni sull’ incenerimento
Ogni cittadino italiano produce più di un chilo e mezzo di rifiuti al giorno, per un totale di 32,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani l’anno (dato 2006, dal Rapporto Apat 2007, l’ultimo disponibile). Quelli urbani sono, poi, sono meno di un quarto (24%) dei rifiuti totali, perché la parte del leone la fanno i rifiuti speciali (44%, un decimo dei quali pericolosi) e quelli da costruzioni e demolizioni (32%), secondo i dati del 2005 raccolti dall’Osservatorio nazionale sui rifiuti presso il Ministero dell’ambiente. Mai come in questo caso ci troviamo di fronte a un’Italia spezzata, con la nazione che si chiede da mesi, se non da anni, come farà a risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti urbani della Campania, mentre molte regioni, come Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, possono essere considerati dei casi di successo, in cui la soluzione del problema passa attraverso l’individuazione di alternative alla discarica che non comportano sostanziali spese aggiuntive. Anche se al Nord, sempre nel 2005, veniva portato in discarica il 36,6% dei rifiuti, al Centro il 66,1% e al Sud il 69,9%, il costo della gestione dei rifiuti per abitante (escluse le spese di spazzamento) era notevolmente simile: 84 euro al Nord, 93 euro al Centro e 87 euro al Sud. “La verità”, sostiene Andrea Gilardoni, specialista di public utility e professore di economia e gestione delle imprese alla Bocconi, “è che la raccolta differenziata, pur avendo dei costi di transizione sensibili, a regime non costa più della discarica. La vera sfida non è di tipo economico, ma organizzativo e comunicazionale. Il territorio deve fare fronte comune e il sistema deve essere adeguato alle esigenze locali, che variano non soltanto nel tempo, ma anche da quartiere a quartiere”, sostiene, sulla scorta dell’esperienza da presidente dell’Amsa tra il 1995 e il 1997, un periodo in cui, per fare fronte a una grave emergenza, si diede un notevole impulso alla differenziata, passando in pochi mesi dal 7% al 25%. “Ma ricordo l’appoggio di tutta la città, a differenza di quanto sta accadendo in Campania. Il prefetto, le università, gli ambientalisti, le associazioni industriali remavano tutti nella stessa direzione. Nei cittadini era rimasta la fiducia nelle capacità dei politici e dei tecnici. Ci è stato possibile affrontare a viso aperto, discutendo, i cittadini di Segrate che non volevano un impianto di compostaggio. Ed è stata necessaria un’opera di informazione capillare, che ha coinvolto anche i rappresentanti dei portinai, che svolgono un ruolo essenziale nell’organizzazione della raccolta”.
Oggi il Nord, con la parziale eccezione delle grandi città (Milano in dieci anni non ha fatto grandi progressi, se rimane ancora poco oltre il 30%), ricicla davvero molti rifiuti. Legambiente, che assegna ogni anno riconoscimenti ai “comuni ricicloni” ne conta, per il 2007, 1.150, con un aumento del 35% rispetto al 2006, ed è stata costretta a restringere le maglie della definizione per i paesi del Nord al di sotto dei 10.000 abitanti, definendo ricicloni non più tutti quelli che differenziano più del 35% dei rifiuti, ma più del 50%. Dal 2000 al 2005, su scala nazionale, l’incremento della raccolta differenziata (+ 2,7 milioni di tonnellate nel periodo) ha esattamente bilanciato quello della produzione totale di rifiuti. Nel 2006 in Italia si differenziava il 25,8% dei rifiuti urbani, ma il dato è in continua crescita, sebbene con i noti disequilibri territoriali (39,9% al Nord, 20% al Centro, 10,2% al Sud). La comunicazione è tuttora essenziale per superare un certo pregiudizio dei cittadini, che temono che il rifiuto differenziato non venga effettivamente riciclato o riutilizzato. Legambiente, lo scorso anno, ha pensato bene di premiare una campagna di comunicazione della Regione Piemonte, denominata “Li abbiamo pedinati”, che dimostrava come il rifiuto venisse effettivamente riciclato. “D’altra parte”, sostiene ancora Gilardoni, “a garantire l’effettivo recupero basterebbe l’esistenza di interi settori dell’economia che dipendono dal conferimento del differenziato. La carta da giornale che si utilizza è, ormai, in gran parte riciclata e una sola cartiera a Magenta, tanto per fare un esempio, utilizza come materia prima una quantità di carta da macero pari a quella raccolta dalla città di Milano”. “La legislazione italiana privilegia il riciclo e il riuso rispetto all’incenerimento e favorisce lo smaltimento dei rifiuti nell’ambito territoriale in cui vengono prodotti”, spiega Antonio Massarutto, ricercatore dello Iefe, l’istituto di economia e politica dell’energia e dell’ambiente della Bocconi, “ma anche queste convinzioni potrebbero essere messe in discussione”. Insieme a un pool di altre università, lo Iefe sta conducendo una ricerca su emissioni e costi della filiera del differenziato e dell’incenerimento. “Se si tiene davvero conto di tutte le emissioni del ciclo, ho l’impressione che possa esserci qualche sorpresa a vantaggio della termovalorizzazione”, dice Massarutto. “Il sospetto è che, in passato, anche nel mondo della ricerca ci sia stata un po’ di sudditanza psicologica nei confronti della differenziazione, sostenuta politicamente in tutta Europa”. In Italia si incenerisce, recuperandone energia, circa il 10% dei rifiuti, un dato inferiore a quasi tutto il resto d’Europa. Non sempre la struttura economica della termovalorizzazione si sposa con il principio dello smaltimento a livello locale. “I costi fissi di questi impianti”, prosegue Massarutto, “sono altissimi, e se vengono sottoutilizzati si rischia il bagno di sangue economico. In alcune località, in Germania e Olanda, se ne sono addirittura costruiti troppi, e oggi finiscono per bruciare anche rifiuti belgi e francesi”. Gli strumenti di incentivazione economica (dalle ecotasse sulle discariche agli sconti d’imposta per la differenziazione) hanno funzionato abbastanza bene in Italia; meglio ancora hanno funzionato gli strumenti volti a responsabilizzare i produttori alla gestione del fine vita dei beni di consumo, dagli imballaggi alle auto e all’elettronica. I progressi degli ultimi anni sono innegabili. La tentazione è di far lavorare il mercato in tutto il settore rifiuti, allargando un po’ gli ambiti in cui ci debba essere corrispondenza tra produzione e smaltimento. “Ciò non significa dare il via al turismo dei rifiuti, spedendoli da Napoli alla Germania, benché questa soluzione possa rivelarsi necessaria in casi di emergenza”, conclude Massarutto. “Significa però che sarebbe auspicabile permettere agli impianti esistenti una maggiore libertà di accogliere anche rifiuti non strettamente prodotti in loco, in modo da permettere ai gestori di ottimizzarne la capacità. In fin dei conti un inceneritore inquina meno di una centrale elettrica, e non mi risulta che vi siano obblighi di produrre in loco l’energia elettrica di cui si ha bisogno”.
Fabio Todesco
Ufficio stampa Università Bocconi