Dalle polveri alle nanopatologie

Le nanoparticelle delle polveri da inquinamento – di cui non poche arrivano dagli inceneritori – penetrano quasi sempre per inalazione o per ingestione. Nel nostro organismo possono essere responsabili  di varie malattie

Se lo guardiamo dal mero punto di vista zoologico, l’uomo è un primate senza coda e con pochi peli sparsi qua e là. Ma se la parola uomo la scriviamo con la u maiuscola, allora le cose cambiano. L’Uomo è l’unico essere ad abitare la Terra capace d’inquinare, e qui sta la particolarità che più d’ogni altra lo distingue dai milioni d’inquilini di questa navicella blu diretta chissà dove. Al di là di ogni retorica autocelebrativa, sistemandosi su di un punto d’osservazione oggettivamente imparziale, dobbiamo constatare che l’Uomo ha cominciato a distaccarsi dal circolo perfetto della Natura, quello secondo cui i miei scarti sono essenziali per la tua vita – ed è altrettanto vero il reciproco, nel momento, un momento lunghissimo, in cui ha imparato ad accendere e ad usare il fuoco. Quello è stato un passo incomparabilmente superiore all’altro ben più reclamizzato del ’69 di Armstrong sulla Luna. È da quell’allontanamento dall’animalità che nascono i rifiuti come li intendiamo noi.  Qualsiasi addetto ai lavori sa che tutte le combustioni, nessuna esclusa, producono polveri e che, a grandi linee, la dimensione di queste particelle polverose è tanto più piccola quanto più alta è la temperatura del fuoco. Una frazione delle particelle è organica, il che significa che, in tempi che vanno dal brevissimo al lungo, ma mai all’infinito, queste si degradano a composizioni più semplici e spesso tollerabili dall’ambiente; ma un’altra frazione, tutt’altro che trascurabile, è, per così dire, eterna. Eterna almeno per quanto attiene la dimensione temporale di esistenza della Terra e dunque, una volta prodotta, si è compiuto un atto irreversibile. Un altro problema è quello dei manufatti che si ottengono attraverso le lavorazioni a caldo: oggetti metallici e vetrosi in primis. Anche questi si scontrano con l’equilibrio circolare secondo il quale la Natura si comporta. Se per molte migliaia di anni tutto ciò ha avuto un impatto trascurabile sull’ambiente, tanto grande era il Pianeta, tanto scarsa la popolazione e tanto limitato l’uso del fuoco, dalla cosiddetta Prima Rivoluzione Industriale di metà Settecento le cose hanno cominciato a prendere una svolta differente. L’introduzione della macchina a vapore ha aperto enormi possibilità alla tecnologia, e dunque all’accesso a prodotti un tempo privilegio di pochi. E ancor di più, all’incirca un secolo più tardi, si è accelerato con la Seconda Rivoluzione Industriale in cui si sono cominciati a sfruttare in maniera sistematica e su grande scala i combustibili fossili, prima il carbone e poi il petrolio fino ad arrivare ai gas naturali.

 Così si è iniziato a scaricare nell’ambiente una massa crescente d’inquinanti da combustione e, lentamente, una quantità di manufatti relativamente a buon mercato e non più desiderabili. Con l’introduzione delle materie plastiche, infine, quelle materie plastiche che dovevano salvare il mondo dal disboscamento perché surrogavano il legno, e lo dovevano altrettanto salvare dal ricorso ulteriore alle risorse minerarie ovviamente sempre più rare, si è assestato un colpo che ha inginocchiato l’ambiente. Per qualche decennio le industrie hanno lavorato a pieno ritmo producendo ricchezza per tutti, ma oggi, quando la Natura ha preteso di cominciare a fare i conti, non possiamo non guardarci perplessi. Stiamo saturando d’immondizia la Terra senza risparmiare il mare (l’oceano Pacifico contiene la più grande discarica del mondo) e molta di questa immondizia rientra in quell’eternità di cui dicevo sopra. Le fotografie da satellite ci mostrano come le zone esenti da inquinamento stiano diventando una rarità, e l’ultimo rapporto dell’European Environment Agency, il 2/2007, ci mostra come questo inquinamento si stia omogeneizzando, con l’aria delle foreste che somiglia sempre di più a quella delle metropoli. Ormai un po’ più di dieci anni fa la dott.ssa Antonietta Gatti, che è mia moglie e che condivide con me la ricerca, si accorse di come le polveri da inquinamento – di cui non poche arrivano dagli inceneritori – sappiano penetrare, quasi sempre per inalazione o per ingestione, nel nostro organismo e di scatenarvi quelle che furono poi battezzate “nanopatologie”, cioè le malattie da nanoparticelle, granelli di polvere con un diametro inferiore al micron.  Pur ignorati dall’accademia italiana, la Comunità Europea si accorse dell’importanza scientifica e sociale della scoperta e sponsorizzò il progetto di ricerca chiamato Nanopathology che non solo confermò la scoperta ma raggiunse risultati di enorme importanza, e ora l’argomento è oggetto di congressi e di letteratura scientifica a livello internazionale. Un nostro ulteriore progetto europeo chiamato DIPNA è iniziato nel novembre 2006 per studiare il meccanismo con cui queste particelle possono penetrare nel nucleo delle cellule alterando il DNA. Anche questa è una scoperta nostra.  Per chi volesse sapere quali sono le malattie di cui parliamo, tra le altre, sono affezioni cardiovascolari come ictus, infarto e tromboembolia polmonare, varie forme di cancro, malattie del sistema endocrino come patologie tiroidee e diabete, malattie neurologiche come il Morbo di Parkinson e quello di Alzheimer, e malformazioni fetali. Insomma, quello dei rifiuti, che di polveri sono produttori, è sempre stato un problema ovviamente prevedibile, ma solo oggi si aprono gli occhi. Nessuna meraviglia: l’Uomo è l’animale meno saggio del Pianeta e l’unico disposto a cancellare dalla mente ciò che non gli piace. Se fino a pochi anni fa ci si limitava a nascondere pudicamente il pattume, poi ci si è accorti che i nascondigli diventavano sempre più ardui da trovare, e allora si è pensato al grande purificatore: il fuoco. È così che è nata l’idea di bruciare questi rifiuti, con la convinzione che, bruciati, scomparissero. Una convinzione un po’ strana, a dire il vero, perché è dai tempi di Anassagora di Clazomene – l’epoca è quella di Socrate – che abbiamo il dubbio che nulla si crei e nulla si distrugga, ma è dal 1786 che di questo abbiamo certezza scientifica. In quell’anno, infatti, Antoine Lavoisier scoprì uno dei pilastri delle regole universali: il principio di conservazione della massa. Sì, qualunque cosa noi facciamo, a meno di reazioni nucleari che la trasformino in energia, la materia è indistruttibile: tanta ce n’era e tanta ce ne sarà. Non è certo possibile mettere democraticamente ai voti ciò che entra nel fuoco di un inceneritore: ciò che entra esce pari pari da un’altra parte. Ma qui c’è più di un’aggravante. Intanto, per motivi tecnici, per bruciare una tonnellata di rifiuti occorre aggiungere una tonnellata di altro materiale come soda, bicarbonato, ammoniaca e acqua, e in più, si deve sottrarre ossigeno all’atmosfera. In questo modo, la tonnellata di materiale bruciato si raddoppia e, purtroppo, due tonnellate usciranno dal processo.

Ma non è finita qui, perché ciò che esce è incomparabilmente più tossico di ciò che è entrato, essendo trasformato in polveri finissime e in gas velenosi. I filtri? Beh, la loro efficienza è buona, però è limitata ad una frazione minima delle polveri, quelle dette primarie filtrabili, ma, poi, una volta catturate, che ne faremo di quelle particelle? Spariranno in barba alle leggi dell’universo? Purtroppo è meglio che non ci illudiamo: alla Natura non interessano le nostre fantasie.  Insomma, dal punto di vista strettamente scientifico, incenerire i rifiuti è un’operazione d’incredibile ingenuità. Le discariche? Le abbiamo sempre demonizzate ma, almeno in parte, qualche attenuante ce l’hanno. Il problema di cui soffrono è quello del gas prodotto e del cosiddetto percolato, quella brodaglia puzzolente e velenosa che s’infiltra giù fino alle falde acquifere. Ma percolato e gas si formano solo se in discarica si mettono materiali biodegradabili che, logicamente, in discarica non devono andare ma devono essere compostati, cioè ridotti in modo naturale a terriccio fertile. Qualcuno dice che i rifiuti sono una ricchezza. Io non sono d’accordo: il rifiuto è un problema. Ma se sapremo ridurre la quantità di questa roba, per esempio comprando solo ciò di cui abbiamo davvero bisogno ed evitando tutto quanto non è “amico dell’ambiente”, avremo fatto un passo almeno come quello di cui si diceva dell’Uomo sulla Luna. Poi dovremo abituarci a riusare e a riciclare come si fa nei luoghi più civili. In tante comunità australiane, canadesi o statunitensi (San Francisco, per esempio) non esistono né inceneritori né discariche e sui rifiuti lavorano migliaia di persone con risparmi immani sui costi di smaltimento rispetto all’incenerimento o alla sua variante più buffa che è la cosiddetta “termovalorizzazione”. E la salute, oltre a chi lì ha trovato un lavoro, se ne giova, il che significa risparmiare anche sui costi sanitari. Resterà sempre qualche residuo? Se saremo bravi a progettare i nostri prodotti, non resterà nulla. L’Uomo ha già oggi le tecnologie giuste per arrivare a questo traguardo. Ma per i residui eventuali ci sono metodiche a freddo o senza combustione molto meno inquinanti degli inceneritori. Come spesso accade, la soluzione del problema è semplice. È la sua attuazione ad essere estremamente difficile. Difficile perché prevede partecipazione generale con un cambiamento drastico delle nostre abitudini, cosa peraltro che già è messa in pratica sempre più frequentemente nel mondo laddove esiste un radicato senso civico; e difficile perché richiede uno sforzo culturale. Basterebbe che ognuno di noi conoscesse e digerisse le nozioni di fisica, di chimica e di tossicologia elementari per non cadere più in illusioni rovinose che ci derubano del nostro denaro, della nostra salute compresa quella delle generazioni future, e del nostro ambiente, quell’ambiente che elimina senza pietà chi tenta di distruggerlo. È una legge universale della biologia: non cadiamo nel tranello di coprirci ancora una volta gli occhi e il cervello. Io do il mio contributo a questa soluzione attraverso il movimento PER IL BENE COMUNE (http://ilbenecomune.blogspot.com/), attraverso un blog piuttosto seguito (www.stefanomontanari.net), attraverso un sito Internet (www.nanodiagnostics.it) e attraverso gli articoli scientifici e non, e i libri scientifici e non che scrivo. Chi vorrà restituire ai propri figli quello che appartiene loro, vale a dire il mondo, è invitato a dare una mano.

Stefano Montanari
Esperto di Nanopatologie, direttore Scientifico del
laboratorio Nanodiagnostics di Modena

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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