Percezione del rischio sul lavoro

Se agli individui vengono richiesti dei giudizi di rischio, essi, pur essendone a conoscenza, non usano i dati attuariali a loro disposizione. Il concetto di rischio lavorativo è molto ingenuo, basato sull’esperienza immediata di eventi con effetti negativi che si manifestano a breve termine o immediatamente e la formazione scolastica non è determinante

Le cronache delle ultime settimane hanno dato ampio spazio agli incidenti mortali sul lavoro: il problema della sicurezza è stato ed è tutt’ora al centro di molti dibattiti e la sicurezza è diventata una delle diverse emergenze che caratterizzano il nostro vivere quotidiano. è probabile che i non addetti ai lavori si siano fatti l’idea che qualcosa sia cambiato nel mondo del lavoro e che il fenomeno delle morti bianche sia in espansione. In realtà i dati delle ultime settimane sono in linea con i dati medi che si registrano annualmente in Italia e che mostrano una frequenza media di più di tre morti al giorno. Ciò che è cambiato nelle ultime settimane, non è la frequenza degli incidenti, ma la nostra percezione di quanto essi siano frequenti. Come ha dimostrato la ricerca nell’ambito della psicologia della decisione, i giudizi e le scelte sono fortemente influenzati dal modo in cui ci si rappresenta la realtà. La decisione di mettere o non mettere in atto un comportamento dipende da quali costi e da quali benefici vengono ad esso attribuiti. Lo stesso vale per i lavoratori che operano in situazioni rischiose: l’adozione di comportamenti di sicurezza dipende da come i rischi sono percepiti e da quanto si è disposti ad accettarli. In letteratura è stato ampiamente dimostrato che se agli individui vengono richiesti dei giudizi di rischio, essi, pur essendone a conoscenza, non usano i dati attuariali a loro disposizione. Un esempio di ciò è dato dalla percezione del rischio associato all’energia nucleare: sebbene molti sappiano che questo tipo di energia causa un numero molto basso di morti ogni anno, il livello di rischiosità percepita resta molto elevato.

Numerosi studi sulla percezione del rischio mostrano una netta differenza tra percezione soggettiva e stime di probabilità oggettiva. In particolare si è visto che c’è la tendenza a sottostimare il rischio di eventi con conseguenze di lieve o media gravità, ma con alta probabilità di accadimento e, viceversa, a sovrastimare il rischio di eventi con conseguenze molto gravi ma con bassa probabilità di accadimento. Lo scarto evidente tra stime soggettive e probabilità oggettiva di rischio è solo uno dei numerosi esempi che dimostrano come gli individui abbiamo delle difficoltà a esprimere dei giudizi di rischiosità: l’uso di euristiche – scorciatoie mentali – e il “bias dell’ottimismo ingiustificato” – la credenza di essere meno a rischio e più immuni dai pericoli rispetto ad altre persone che si potrebbero trovare in una situazione identica – sono le maggiori cause di valutazione erronea del rischio associato a attività o situazioni potenzialmente rischiose. Un’altra caratteristica particolarmente importante del rischio è la sua natura cumulativa, tipica di tutte quelle attività che comportano un’esposizione al rischio ripetuta nel tempo. In questi casi, il rischio aumenta con l’aumentare della frequenza con cui si entra in contatto con l’attività rischiosa. L’aspetto peculiare di questo tipo di rischio è rappresentato dal fatto che la probabilità che le conseguenze negative abbiano luogo con una singola esposizione è molto piccola, ma aumenta in funzione del numero di volte in cui l’attività è messa in atto. I giudizi di rischio cumulativo, richiedendo una stima di probabilità per eventi ripetuti e composti, sono particolarmente soggetti a distorsioni. Numerose ricerche hanno dimostrato che le persone hanno notevoli difficoltà cognitive a comprendere e valutare il rischio associato ad attività che comportano un’esposizione ad esso reiterata nel tempo. Questo spesso produce una sottostima degli effetti cumulativi degli eventi rischiosi, in particolare quando le conseguenze negative sono differite nel tempo e non immediatamente osservabili.

La difficoltà a stimare i rischi cumulativi è una delle cause della tendenza a sottostimare il rischio di sviluppare malattie professionali. Queste ricerche hanno evidenziato che, oltre ai fattori tradizionalmente considerati nello studio sul rischio, quali personalità, età, genere, esperienza, anche i fattori cognitivi svolgono un ruolo determinante nella formazione dei giudizi di rischiosità. Gli studi che hanno indagato la percezione del rischio hanno di solito utilizzato il paradigma psicometrico, secondo cui la percezione del rischio non dipende dalle caratteristiche individuali delle singole persone, ma dalle caratteristiche quantitative e qualitative proprie dell’attività da valutare. La metodologia del paradigma psicometrico permette di evidenziare, attraverso dei giudizi quantitativi e qualitativi delle attività rischiose, le caratteristiche cognitive della rappresentazione mentale del rischio. Tale metodo rende possibile tracciare delle “mappe cognitive” dei rischi e costruire una tassonomia per le varie tipologie di rischio che può essere usata per capire e predire le risposte ai vari tipi di rischio e per spiegare l’avversione delle persone ad alcuni tipi di rischio e l’indifferenza verso altri. Oltre che dalla percezione del rischio, l’adozione di comportamenti rischiosi dipende dall’accettazione del rischio. Essa, a differenza della percezione, presuppone un’analisi costi/benefici da cui può dipendere la decisione di intraprendere o meno un comportamento rischioso. Appare evidente che la distinzione tra queste due variabili assume un ruolo importante anche da un punto di vista metodologico: confonderle può produrre misurazioni non attendibili e favorire interpretazioni dei risultati inadeguate.

 L’accettazione del rischio prevede due costrutti molto diversi tra loro: 1) l’atteggiamento verso il rischio percepito che rimane stabile negli individui e non varia nemmeno in funzione della scelta rischiosa da effettuarsi; 2) l’analisi costi/benefici che varia in funzione del contesto e della specifica scelta rischiosa. L’adozione di comportamenti a rischio dipende oltre che da variabili cognitive, da variabili di personalità, motivazionali e sociali. Infatti, i comportamenti a rischio di tipo dannoso per il proprio benessere psicofisico sono predetti da livelli elevati di impulsività, intesa come (a) incapacità di anticipare conseguenze negative e (b) difficoltà personale a differire la gratificazione. In una serie di ricerche recentemente condotte, abbiamo indagato la percezione del rischio in ambito lavorativo analizzando lavoratori di diverse categorie (a tempo determinato e interinali), di diversa nazionalità (italiani e immigrati) e di diversi comparti (edilizia e cantieristica navale). In generale i risultati hanno evidenziato che i lavoratori conoscono le potenziali conseguenze negative che determinate attività lavorative implicano, ma nello stesso tempo ritengono di avere un controllo sulla frequenza con cui gli infortuni e quindi le conseguenze negative associate a tali attività si manifestano. Questa capacità di controllo riguarda soprattutto loro stessi, in quanto le stime di “esposizione personale” sono generalmente inferiori a quelle di “esposizione per altri” (bias dell’ottimismo ingiustificato). Inoltre, dai dati raccolti sembrerebbe che i lavoratori abbiano dovuto o voluto sviluppare una capacità di tollerare i rischi associati al loro lavoro. Infine, per quanto riguarda il rischio di malattie professionali, si riscontrano differenze importanti tra le diverse categorie di lavoratori: mentre i lavoratori interinali tendono in generale a sottostimare tale rischio, i lavoratori della cantieristica navale mostrano invece un’elevata consapevolezza di simili rischi. Il “rischio amianto” ha probabilmente contribuito a creare nei lavoratori del settore navale una maggiore disponibilità della pericolosità di attività che non presentano rischi immediati, quali ad esempio le polveri o l’uso di solventi.

Abbiamo inoltre condotto una ricerca per valutare la percezione del rischio in ambito lavorativo per un campione di adolescenti (15-18 anni). La decisione di indagare gli aspetti che caratterizzano la rappresentazione mentale del rischio in questa fascia di età ha una doppia giustificazione. In primo luogo, per la presenza attiva dei giovani nel mondo del lavoro e soprattutto per la situazione infortunistica e di malattia professionale che i dati forniti dall’INAIL dimostrano esserci anche per questa fascia di età. In secondo luogo, le ricerche sulla percezione del rischio hanno mostrato che gli adolescenti tendono a sottostimare la gravità delle conseguenze dei comportamenti a rischio, a presentare una minore capacità ad evitare tali comportamenti e sono più propensi ad adottare comportamenti devianti quali l’uso di tabacco, l’assunzione di alcol e droga e le cattive abitudini alimentari. Nell’ambito lavorativo, questo fenomeno diventa di cruciale importanza, vista la pericolosità delle conseguenze derivanti dall’interazione tra l’adozione di tali comportamenti e ambiente di lavoro. è probabile infatti che anche qualora i giovani siano a conoscenza dei rischi associati sia ai comportamenti devianti che al lavoro da loro svolto, non prendano però in considerazione l’aumento esponenziale che il rischio associato ai singoli comportamenti può avere se essi vengono messi in atto in associazione. Nella ricerca sono stati anche considerati gli effetti dell’esperienza lavorativa e della formazione scolastica (corsi professionali) sulla percezione del rischio. In sintesi, da questa ricerca emerge che l’esperienza diretta con il lavoro può contribuire ad accrescere la consapevolezza della rischiosità di determinate attività, ma può diventare un deterrente per la sicurezza se i rischi potenziali legati all’ambiente lavorativo non si manifestano in modo visibile. Sembra invece non esserci nessun effetto della formazione scolastica in materia di rischio. In generale, tutti i partecipanti avevano un concetto di rischio lavorativo molto ingenuo, basato sull’esperienza immediata di eventi con effetti negativi che si manifestano a breve termine o immediatamente. Un dato interessante riguarda le valutazioni che i partecipanti hanno dato dei possibili effetti dei comportamenti quotidiani sulle attività lavorative. L’attività quotidiana giudicata maggiormente pericolosa in interazione con il lavoro è stata l’uso di alcolici, mentre quelle considerate meno rischiose sono state “fumare sigarette” e “mangiare troppo”. Le stime fornite dagli adolescenti portano a una interessante considerazione. L’uso di alcolici, l’attività giudicata maggiormente rischiosa, rappresenta un’attività molto disponibile in materia di rischio ed è quindi plausibile che sia stata giudicata molto pericolosa in interazione con altre attività. Va rilevato però, che gli adolescenti non hanno preso in considerazione attività quali “dormire poco” o “mangiare poco” che, se associate a particolari ambiti lavorativi possono rappresentare un importante motivo di rischio. Questo fa ipotizzare che i ragazzi conoscano il rischio delle singole attività, ma non siano consapevoli che determinati comportamenti “innocui” possono diventare potenzialmente pericolosi se messi in atto in contesti particolari come l’ambiente lavorativo. In conclusione, la coerenza dei dati raccolti con queste prime applicazioni in ambito lavorativo dei metodi sviluppati dalla ricerca sulla percezione del rischio mostrano da un lato la validità e l’affidabilità di tali strumenti, dall’altro la necessità di considerare oltre agli aspetti oggettivi del contesto lavorativo anche gli aspetti “soggettivi” e in particolare i fattori socio-cognitivi.

Donatella Ferrante, Francesca Pedron, Tiziano Agostini
Dipartimento di psicologia, Università di Trieste

Massimiliano Fanni Canelles

Viceprimario al reparto di Accettazione ed Emergenza dell'Ospedale ¨Franz Tappeiner¨di Merano nella Südtiroler Sanitätsbetrieb – Azienda sanitaria dell'Alto Adige – da giugno 2019. Attualmente in prima linea nella gestione clinica e nell'organizzazione per l'emergenza Coronavirus. In particolare responsabile del reparto di infettivi e semi – intensiva del Pronto Soccorso dell'ospedale di Merano. 

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