Sono in calo le malattie professionali derivanti dall’esposizione a sostanze nocive e sono in aumento sintomatologie dovute a stress; disturbi comportamentali, alterazioni dell’equilibrio emotivo, disturbi fisici come tachicardia, disturbi gastrointestinali, cefalea, ipertensione…
Oggi più che mai, il benessere dei lavoratori non dipende solo da fattori fisici e ambientali, ma è legato anche alle condizioni organizzative e sociali dei luoghi di lavoro. Si è notato, infatti, che mentre sono in calo le malattie professionali derivanti dall’esposizione ai cosiddetti rischi specifici e tabellati, (polveri, rumore, vibrazioni, radiazioni, agenti chimici e biologici), sono in aumento forme di disagio psicosociale e le cosiddette malattie aspecifiche, ovvero, sintomatologie mal definite (non riferite a quadri nosologici noti), largamente diffuse nella popolazione lavorativa, prodotte da cause professionali e non. Un nuovo approccio alla tutela e prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro vorrebbe che ci si concentrasse sul benessere delle persone sul posto di lavoro nel senso più ampio del termine (Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica sulle “Misure finalizzate al miglioramento del benessere organizzativo nelle pubbliche amministrazioni” – 2004). Questo approccio di tipo “olistico” è anche sancito dal D.Lgs 626/94, così come è stato modificato dalla legge comunitaria del 2001, che prevede l’obbligo per il datore di lavoro di valutare preventivamente “tutti i rischi”, ivi compresi quelli di carattere psicosociale (stress, mobbing, burnout). Secondo tale approccio il benessere del lavoratore deriva proprio dall’armonizzazione delle tre dimensioni (fisica, psicologica, sociale) strettamente connesse fra loro e in continua interazione. Questa considerazione è ancor più vera se si guarda alle trasformazioni recenti che hanno riguardato il mondo del lavoro. È tramontato ormai il “vecchio” lavoro, caratterizzato da relazioni contrattuali di lungo periodo, da una struttura gerarchica piramidale e ben definita, da ruoli stabili e attività ben definiti. Il lavoro di oggi è segnato da nuove caratteristiche, sia a livello macro (uso massiccio di tecnologie; incremento della competizione internazionale per manodopera, risorse, strutture; apertura, flessibilità e incertezza dei mercati; fluttuazioni demografiche fra nord e sud del mondo) che a livello micro (organizzazioni snelle, ruoli meno definiti, responsabilità sfumate, dimensione temporale di medio – breve termine, grande varietà di contratti, mobilità fisica e spaziale, richiesta di saper “manipolare” dati e conoscenze). Il Medico del Lavoro, dunque, è chiamato ad integrare le proprie competenze medico-specialistiche con quelle di altri interlocutori (psicologi, sociologi, esperti di ergonomia, esperti di organizzazione e risorse umane, ecc) per far sì che anche a livello ambientale, organizzativo, sociale e relazionale i lavoratori vengano protetti e tutelati sui luoghi di lavoro.
La questione dei rischi psicosociali è complessa. Questi ultimi non si prestano ad una misurazione quantitativa standard né è possibile stabilire un limite di esposizione oltre il quale prevedere l’attivazione della sorveglianza sanitaria così come accade per altri rischi specifici. In altre parole rimane estremamente difficile individuare un chiaro nesso causale fra i fattori organizzativi e psico-sociali e l’insorgere di un’eventuale malattia. Si risente, quindi, di una mancanza di uniformità e omogeneità nel protocollo diagnostico, nonostante varie proposte di batterie di test specifici che evidenziano e valutano singoli sintomi che possono comparire in diverse situazioni (non solo di mobbing). Un’ulteriore difficoltà deriva dal fatto che risultati patologici dei fattori di rischio psicosociali sono influenzati da fenomeni percettivi (Cox e Mackay, 1976) dal fatto che questi fattori di rischio sono caratterizzati da diverso grado di prevedibilità ed evitabilità. La risposta attivata (in termini di comportamenti, disagio, eventuali somatizzazioni) dipende fortemente dalla soglia di reattività di ciascuno e dai meccanismi di “filtro” attivati (per esempio, condizione soggettiva, sentimento di adeguatezza, vulnerabilità, senso di sfida, sentimento del potere, attribuzione di responsabilità, tendenza al cambiamento, età, cultura, ecc…). La difficoltà di analisi dell’origine del disagio psicosociale e la difficoltà di intervento in ambito lavorativo non devono però impedire che si affrontino queste problematiche. In questa sede viene riportata l’esperienza del Centro per lo Studio e la Prevenzione del Disadattamento – Policlinico Tor Vergata di Roma, istituito in collaborazione con la sede regionale del Lazio dell’INAIL per analizzare i casi dei lavoratori che hanno inoltrato all’INAIL la richiesta per il riconoscimento di malattia professionale da costrittività organizzative (una tipologia di mobbing). In Europa i dati epidemiologici che riguardano il fenomeno del mobbing sono difficilmente estrapolabili proprio in relazione alla difficoltà della vittima di denunciare con precisione gli episodi subiti e la situazione di disagio. In Italia i dati INAIL fotografano un aumento costante delle denunce di mobbing: complessivamente dal 2000 al 2006 sono pervenute all’Inail più di 1.200 denunce di mobbing, delle quali circa il 10% ha ricevuto un risarcimento per i danni subiti a seguito del riconoscimento di malattia professionale. Nel nostro centro, da ottobre 2005 a dicembre 2007, i casi clinici analizzati sono stati circa 80. A questi abbiamo cercato di applicare operativamente l’approccio multidisciplinare descritto in precedenza grazie al lavoro del nostro team professionale costituito da una consulente di organizzazione, da una psicologa clinica, da una specialista in medicina del lavoro. Il team si avvale inoltre delle consulenze psichiatriche condotte dall’equipe del dott. Enzo Fortuna.
Ma che cosa è il mobbing? Il mobbing è un processo di vessazioni intenzionali, volontarie, frequenti, ripetute nel tempo, messe in atto da uno o più soggetti nei confronti di una o più vittime. Non è, dunque, un singolo evento/episodio ma un fenomeno processuale che ha come obiettivo principale il danneggiamento della vittima. Il mobbing va, dunque, differenziato dai singoli episodi di conflitto interpersonale, che non hanno sempre come obiettivo il danneggiamento dell’altra parte e che si svolgono secondo modalità esplicite e non subdole come il mobbing. Le azioni di mobbing si possono dividere principalmente in due grandi tipologie. Esistono azioni vessatorie intimidatorie, discriminanti, di responsabilità individuale del persecutore, che non influiscono necessariamente sulla posizione lavorativa della vittima e che non ne ostacolano (almeno in apparenza) la capacità lavorativa (diffamare, trattare in modo sprezzante, assumere toni o atteggiamenti minacciosi o ricattatori, negare aspetti ordinari della relazione interpersonale, ecc.). Altra cosa sono invece le costrittività organizzative, ovvero azioni con conseguenze chiare e rilevanti sulla posizione lavorativa della vittima e sulle possibilità di svolgimento del lavoro (per es. marginalizzazione della attività lavorativa, svuotamento delle mansioni, ripetuti trasferimenti ingiustificati,…). In questo caso, è rintracciabile un coinvolgimento pieno dell’organizzazione del lavoro ed eventualmente, a seconda dei casi, una responsabilità più o meno grave del datore di lavoro. In altri termini, nel primo caso il lavoro è il palcoscenico in cui si svolgono le attività persecutorie, mentre nel secondo è il mezzo con cui si danneggia il malcapitato. Dai dati del nostro centro è emerso che le più frequenti costrittività organizzative sono: demansionamento formale e/o sostanziale; isolamento e marginalizzazione dalla attività lavorativa; svuotamento delle mansioni; mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con lunghi periodi di inattività forzata; mancata assegnazione di strumenti di lavoro; deterioramento dell’ambiente fisico di lavoro (ambienti angusti, sporchi, isolati, inadeguati allo svolgimento dell’attività, …); esercizio esasperato di forme di controllo con valutazione negativa sulle attività lavorative svolte; eccessivo controllo nei periodi di assenza giustificata dal lavoro; esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative di comunicazione, informazione, formazione, riqualificazione e aggiornamento professionale. A ciò si aggiungano situazioni molto frequenti in cui si ha l’attribuzione di compiti eccessivi nei confronti di lavoratori che hanno già condizioni di handicap psico-fisici non indifferenti o che hanno già ottenuto il riconoscimento di una prima malattia professionale. Il settore operativo in cui è più frequente individuare situazioni di mobbing è quello impiegatizio: le vittime sono per lo più figure con posizione apicale o, comunque, lavoratori e lavoratrici di una certa responsabilità, con profilo professionale medio alto. Le occasioni in cui si realizza più frequentemente il processo vessatorio sono il cambio di vertice in aziende private e l’avvicendamento degli amministratori nelle amministrazioni pubbliche. Come cause principali troviamo la necessità di riorganizzazione interna oppure la visione della vittima come ostacolo per lo svolgimento di pratiche illecite. Ampia è la costellazione di sintomi rilevati fra le vittime del mobbing: fra di essi spiccano disturbi comportamentali (abuso alcol, tabagismo, alterazione della alimentazione, uso e abuso di farmaci, …); alterazioni dell’equilibrio emotivo (ansia, disturbi dell’umore, disturbi del sonno, …); disturbi fisici (tachicardia, disturbi gastrointestinali, cefalea, ipertensione, …). È bene ribadire che il mobbing non è una malattia e quindi non è possibile fare diagnosi di mobbing. Oltre alla difficoltà di definire il fenomeno, c’è una oggettiva difficoltà diagnostica che nasce dalla mancanza di consapevolezza e conoscenza approfondita da parte dei medici e dalla difficoltà dei lavoratori nel capire ciò che sta succedendo loro.
prof. A. Bergamaschi
Istituto di medicina del lavoro – Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma
prof. A. Magrini, dr. L. Livigni, dr. M. Moscatelli, dr. B. Sed
Cattedra di medicina del lavoro – Università degli studi di Roma Tor Vergata