La lettura dei percorsi di devianza non può non essere contestualizzata all’interno della matrice culturale dominante e dei modelli che impone. L’attuale struttura sociale, connotata dal sovrapporsi di culture e relativi codici sociali differenti, portatori di valori a volte addirittura antitetici, ha reso tuttavia la lettura del fenomeno ancora più complessa
Un’ipotesi di lavoro o anche soltanto un’argomentazione teorica, sviluppata su di un piano dialettico, che intendano affrontare il tema della devianza minorile, richiedono un approccio multidisciplinare, sia psicodinamico sia sociologico.
Pertanto, la lettura dei percorsi di devianza non può non essere contestualizzata all’interno della matrice culturale dominante e dei modelli che impone. L’attuale struttura sociale, connotata dal sovrapporsi di culture e relativi codici sociali differenti, portatori di valori a volte addirittura antitetici, ha reso tuttavia la lettura del fenomeno ancora più complessa. Generalmente, si definisce la devianza quell’insieme di comportamenti che infrangono il complesso dei valori che, in un dato momento storico e in un determinato contesto sociale, risultano validi e fondanti in base alla cultura del gruppo sociale dominante.
Non esiste, in realtà, un’interpretazione univoca del concetto di devianza, che infatti ha assunto nel tempo significati e valenze molteplici. Indipendentemente dall’orientamento teorico, comunque, si può affermare che devianza e delinquenza non sono comportamenti definibili in assoluto, ma in funzione del contrasto tra determinati comportamenti e le regole sociali.
Dunque, quando si fa riferimento alla questione della “devianza minorile”, si tiene complessivamente conto sia delle condotte giuridicamente perseguibili sia di quei comportamenti che, pur non integrando gli estremi di una fattispecie giuridicamente rilevante, possono costituire indicatori di disadattamento. Dunque, ad un primo significato di devianza come manifestazione di una inadeguata interiorizzazione delle norme interne ad un dato sistema sociale di riferimento, va aggiunta oggi un’altra lettura dell’espressione, che si manifesta come sintomo dell’emersione di nuovi valori e di nuovi bisogni, che vanno ad innestarsi sulle difficoltà a filtrare gli input culturali o sottoculturali dell’ambiente esterno, che tipicamente caratterizzano, di per sé stessi, quel segmento evolutivo dell’autoaffermazione, vissuto in adolescenza attraverso la ricerca di situazioni relazionali alternative ai modelli di integrazione offerti dal proprio nucleo familiare, dove convogliare i sentimenti di condivisione delle proprie aspettative di successo e del bisogno di definizione della propria individualità.
La nostra attuale è una società strutturata sulla ponderazione dei ruoli, centrata sulla valenza di un’immagine altamente performante, vincente: esprimendosi per parossismi e stilizzando il concetto, si può facilmente affermare che oggigiorno, per un’adolescente, si trovi maggiore gratificazione nel dire “sono una velina”, piuttosto che “sono un’assistente sociale”. Per quanto possa apparire paradossale, ad ogni modo, di fatto la destrutturazione del modello sociale, in tutte le sue componenti tradizionalmente deputate alla formazione dell’identità dei singoli e dei processi di interazione, quali la famiglia, la scuola e le istituzioni ci impone di recuperare il senso, il significato di un percorso che oggi appare interrotto, in crisi di valori e modelli. Ancor più questa disgregazione dei codici condivisi, peraltro, può rivelarsi invasiva, se va ad impattare su individui la cui struttura di personalità è in fase di formazione, ove le eccessive sollecitazioni culturali, soprattutto mediatiche, che spingono in direzione dell’antagonismo e della competizione tra consociati, in un’accelerazione estrema, quasi compulsiva nella ricerca di risposte, fino alla determinazione, nei casi estremi, di comportamenti devianti. Tuttavia, la crisi di per sé non è una iattura. La crisi, anche a guardar bene dentro la terminologia, prescindendo dalle connotazioni negative che l’espressione ha assunto nell’accezione diffusa, è semplicemente la rottura di un equilibrio. E sta a noi, perlomeno anche a noi, ricomporre i pezzi, nel tentativo di articolare un nuovo percorso da tracciare tutti insieme; e questo recuperare e rimettere insieme i pezzi non può realizzarsi, se non siamo disposti a mettere al centro la persona con i suoi valori essenziali, non vivendola più come risorsa strumentale ad un’ottica di sola produttività del sistema, ma nel rispetto della dignità che ogni persona ha e nella sua capacità di contribuire al bene comune. Ecco perché, in un sistema sociale in crisi, la devianza può paradossalmente atteggiarsi, nella sua rappresentazione di nuovi disvalori, come recettore di nuovi bisogni e, d’altro canto, segnalare le contraddizioni sociali e l’impatto negativo sui principi organizzativi della comunità. Conseguentemente, il sistema della giustizia minorile rappresenta un osservatorio privilegiato, in quanto consegnatario di un’opportunità elettiva, in ordine all’analisi dei fenomeni di devianza, dai codici condivisi, quali manifestazioni di un desiderio di cambiamento del modello sociale, che passa attraverso le istanze delle fasce più sensibili, vibratili rispetto ai segnali di malessere, sia per collocazione anagrafica sia per la provenienza da sacche delle sottoculture nazionali e delle culture alternative delle popolazioni migrate, ed è altresì portatore di una mission in ordine alla ricerca delle strategie possibili d’intervento.
La giustizia non si può realizzare, se non c’è la responsabilità di una condivisione comune, se non c’è una cultura etica di riferimento, se non c’è il vivere un contesto come appartenente a tutti e non ai pochi, se non c’è un valore educativo che passa soprattutto dagli adulti e passa non attraverso le parole, ma attraverso i comportamenti e i fatti, attraverso gli agiti.
La giustizia minorile ha inevitabilmente la necessità di ritracciare un proprio percorso, perchè siamo in crisi: nel senso che, lavorando con i giovani, sappiamo che questi sono sempre la punta avanzata del cambiamento. Il grande sforzo che si sta realizzando a Roma nel tentativo di definire un ordinamento, finalmente dopo 33 anni, a misura di minori, non vuole essere solo intorno alla regola carceraria. È certamente importante rispetto ai permessi, rispetto a delle opportunità, ma vuole proprio rimettere in gioco tutto il sistema della giustizia minorile a partire dai tribunali e dai servizi. Noi tutti sappiamo che i ragazzi sono cambiati, si sono diversificati rispetto a pochissimi anni fa, che le stesse famiglie non sono più le stesse, che c’è una trasversalità complessiva, dove è difficile omologare, dove i tempi sono differenziati, dove ci sono non solo ragazzi immigrati, ma ragazzi italiani, all’interno di una stessa regione, con bisogni diversi. Ci sono i ragazzi delle mafie e della camorra con caratteristiche diverse, i ragazzi della Sacra Corona. Ci sono i ragazzi della delinquenza abituale, ci sono i ragazzi nuovi assuntori di sostanze, ci sono ragazzi al limite del loro benessere psicologico che non potremmo definire portatori di psichiatria o di patologia psichiatrica, però sono veramente al limite rispetto a certe situazioni; ci sono i sex offender, ci sono i neocomunitari, gli stranieri, ma all’interno degli stranieri tanti stranieri con diverse culture di appartenenza, e tante famiglie, tante culture dietro, tanti territori, tanti diversi enti locali, tante diverse istituzioni, tanti diversi volontariati. Tuttavia, a voler individuare elementi, a grandi linee, comuni alle differenti forme di devianza, su cui poter innestare le riflessioni e successivamente concretizzare le direttrici progettuali, sono osservabili comportamenti che indicano un’abitudine a far ricorso a risposte di aggressività esplosiva o implosiva, come strumento per “farsi strada” non solo nel gruppo dei coetanei, ma anche tra gli adulti. In tale approccio, si tratta di tratteggiare con attenzione la linea di confine tra la violenza situazionale, legata nella sua varietà multiforme di espressione, a situazioni specifiche nelle quali l’adolescente o il pre-adolescente possono rispondere in modo aggressivo, da quella che invece si reitera con sistematicità e che si struttura come modalità di soluzione di ogni confronto. Ed è di chiara evidenza che, in tutte le ipotesi in cui un minore assume condotte aggressive, in modo spesso non commisurato alla portata dello stimolo esterno che gli richiede una risposta di adattamento, sia nei diversi contesti di rapporto con i pari sia con gli adulti che entrano in relazione con lui, in particolare quando rivestono profili educativi, per quel soggetto la violenza è uno strumento percepito come utile a regolare i rapporti interpersonali.
È importante segnalare questi aspetti e lavorarci, poichè la violenza è un’abitudine che è molto difficile da destrutturare, quando si organizza in maniera forte a livello di preadolescenza e adolescenza. Quindi è importante intervenire, allo scopo di scongiurare il rischio che la violenza finisca con l’essere l’unica risposta di adattamento all’allarme, in sé fisiologico, procurato dai fattori esterni che intervengono come elementi di novità, sul percorso ontologico di crescita dell’individuo, e che si strutturi, alla fine, in un costume ed una modalità di tipo verbale o di contrasto fisico, impedendo di fatto di sviluppare competenze prosociali, empatia, tutti quegli stilemi comportamentali, che servono a conquistare i rapporti. Il paradosso virtuoso, che può tradursi in una reale opportunità per il sistema della giustizia minorile, è rappresentato appunto dalla possibilità di governare questo panorama complesso di segnali di disagio, di cui i comportamenti devianti sono portatori, e di ricondurre alla centratura sulla persona, sui suoi bisogni di riconduzione ad un percorso di cittadinanza attiva ogni progetto di accompagnamento educativo e di reinserimento occupazionale e sociale. E ciò vale, pur nella diversità di strategie operative necessitate dalla diversità delle tipologie di utenza, come criterio unitario per ripensare i rapporti con il territorio e con gli attori istituzionali e produttivi con i quali progettare collaborazioni. Un modello concettuale che faccia leva sulla centralità del singolo, in definitiva, e sulla costruzione di un percorso pensato sulle reali potenzialità di inserimento all’interno dell’ambiente in cui si contestualizzato gli interventi, è applicabile sia che si tratti dei ragazzi delle mafie e della camorra con caratteristiche diverse, sia che si tratti dei ragazzi della Sacra Corona, così come è applicabile a tutte le tipologie di ragazzi già elencate e a tutte le situazioni esistenti ambientali, culturali e sociali in cui nascono i disagi scatenanti le devianze. Tale modello concettuale, oltretutto, si mostrerebbe suscettibile di implicazioni interattive e costruttive con tutte le possibili varianti familiari, territoriali e istituzionali. Questa stessa diversità, al contrario, se non governata alla luce della centratura sul singolo minore, non è ricchezza, ma diviene veicolo di dispersione e frantumazione delle risorse.
Ecco perché il tentativo che stiamo compiendo, di governare questo scenario composito e dinamico, è irrinunciabile, per quanto complesso e difficile, ed è per questo che lo consideriamo certamente una risorsa: per la potenzialità che contiene di consentire un cambiamento, in termini di maggiore qualità e di focus sulla dignità della persona. Ecco perché, ancora, è importante una riforma dell’ordinamento penitenziario che metta in gioco la giustizia minorile, stimoli un ragionamento e una riflessione in capo alla magistratura minorile ed ai nostri servizi e consenta loro di articolare dei moduli individualizzati che non siano per sempre, ma che siano flessibili, aperti, modificabili e che, quindi, ci imponga una ripensamento continuo dei percorsi di risocializzazione per i singoli minori e del nostro stesso approccio critico rispetto alle scelte di riparametrare opportunamente i percorsi stessi. E le nostre scelte devono realizzarsi veramente in un’ottica di porre al centro il ragazzo, con i suoi cambiamenti che, in età evolutiva, sono repentini e a volte contraddittori, con spinte e remissione di crescita, soprattutto se il contesto esterno non consente di interrompere alcuni processi per sedersi e fare una riflessione che sia fuori dal tempo e dallo spazio della nostra modernità. I ragazzi provengono dal territorio ed al territorio ritornano. Noi siamo una parentesi importante, siamo l’ultima spiaggia, la parentesi che consente la riflessione e l’opportunità di potere diventare risorsa umana attiva, non oggettuale, capace di esprimere un valore aggiunto all’interno di un contesto orientato allo sviluppo di una nazione e di un territorio, di un Paese e di una Regione.
Serenella Pesarin
Direttore Generale – dipartimento giustizia minorile
Ministero della Giustizia