Una vera e propria angoscia sicuritaria sembra essersi impadronita dell’intera società. Ma sul piano dei diritti sociali e dei diritti civili ogni cittadino gode di protezioni che coprono tutte le esigenze della sua vita. Allora potremmo chiederci perché in una società “assicurante” cresce l’insicurezza?
Viviamo in un periodo strano, denso di contraddizioni, in una società la cui cifra sembra quella dell’incertezza e della paura. Una vera e propria angoscia sicuritaria sembra essersi impadronita dell’intera società. In molti studiosi -da Beck a Giddens- c’è un costante richiamo alla crescente insicurezza della società contemporanea -una insicurezza che potremmo definire ontologica. Secondo le tesi di Giddens (1994), abbracciate dalla maggioranza degli studiosi ed entrate anche nella cultura quotidiana,il peso della condizione della post-modernità o della modernità contemporanea sta nella moltiplicazione delle scelte, nella costante messa in discussione di valori e certezze, nel carattere problematico dell’identità, nella crescita dell’auto-riflessività, nel confronto costante di ciascuno con una pluralità di mondi e di credenze. La nostra certezza viene costantemente messa alla prova da un mondo segnato dal relativismo culturale. L’incertezza e lo sbandamento tendono a diventare la norma.Come afferma Beck (2001), il paradigma della società del rischio si pone sullo sfondo dello spazio teorico ed assume il tema del sentimento di insicurezza nella sua figura di problema sociale autonomo e come manifestazione strutturale delle società di seconda modernizzazione in cui sono centrali i nuovi rischi come esperienza esistenziale e come posta in gioco dei nuovi conflitti sociali.
Per Bauman (1999), la “Unsicherheit”, l’insicurezza, è diventata endemica e significa insicurezza, incertezza, disagio. In essa confluiscono insieme problemi di identità e di controllo sul proprio futuro. La paura dell’incertezza diventa così la nuova condizione umana e sociale seguita al crollo delle vecchie sicurezze garantite dallo Stato sociale e, più in generale, dalla società basata sul lavoro e sull’industria. Appare, però, evidente una contraddizione sulla quale nessuno studioso riflette abbastanza: la dilatazione e il consolidamento dello Stato sociale ha creato attorno all’individuo, a ciascun individuo, una rete di protezioni che lo assicurano, per così dire, “dalla culla alla tomba”.
Sul piano dei diritti sociali e dei diritti civili ogni cittadino gode di protezioni che coprono tutte le esigenze della sua vita, dalla salute alla pensione, agli infortuni, alla disgrazia di un handicap. Allora, potremmo chiederci con Castel (2004), perché in una società “assicurante” cresce l’insicurezza? Potremmo rispondere che sicurezza e protezione non appartengono a due diverse sfere dell’esperienza. L’insicurezza non è legata all’assenza di protezioni ma al sistema delle protezioni che non può mai arrivare a coprire tutte le esigenze che si aggiungono, per dilatazione del bisogno di protezione, che va a coprire spazi nuovi come quelli tradizionalmente affidati ad altre agenzie sociali, come la scuola, la famiglia, la chiesa, l’esercito: forse è nella crisi di queste agenzie sociali che bisogna trovare una risposta al quesito relativo alla crescita dell’insicurezza in una società del welfare. Ma ci troviamo di fronte ad un nuovo paradosso: le “vecchie” agenzie sociali sono dichiarate in crisi, ma per affrontare questa crisi, nelle sue diverse sfaccettature, come mostra Paci (1989), si fa ricorso alla riproposizione, “riformulata” nei contenuti e nei ruoli, delle stesse agenzie, quasi non fosse possibile alcun superamento. Un esempio è proprio l’affido familiare. Qualche anno fa, neppure molti, si parlava di istituzionalizzazione e magari dei modi per rendere gli istituti più adeguati alle esigenze di crescita e di maturazione di bambini deprivati della protezione, psicologica prima che sociale, che solo una famiglia armonica e non conflittuale, ma soprattutto con sufficiente livello culturale e adeguati mezzi di sostentamento, poteva assicurare. Sembrava, allora, che il massimo raggiungibile fossero degli istituti non afflittivi, dove le esigenze dell’ordine e del controllo non mortificassero la creatività e rendessero possibile l’esercizio di una socialità aperta anche all’espressività personale. Poi, verificata l’impraticabilità di ogni ipotesi di “familiarizzazione” degli istituti, si sono sperimentate le “case famiglia”, strutture dimensionate rispetto alla possibilità di riprodurre, con operatori professionali, le dinamiche interpersonali e intergenerazionali, sia affettive che normative, che caratterizzano, nel bene e nel male, normalmente una famiglia.
Oggi, siamo tornati dalle famiglie “artificiali” alle famiglie “vere”, concrete, che esistono e funzionano per scelta di due coniugi, che abitano una casa, che magari hanno già dei figli, e che, in più, si aprono all’accoglienza di un bambino, che aggiungono un letto nella cameretta e un posto a tavola, ma solo per il tempo necessario a far superare al bambino una situazione o un momento temporaneo di difficoltà di presenza nella famiglia di origine. La legge 184 del 1983, che disciplina, anche se molto contraddittoriamente, la materia dell’affido, recita, testualmente, all’art.2: “Il minore che sia temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo può essere affidato ad un’altra famiglia, possibilmente con figli minori, o ad una persona singola, o ad una comunità di tipo familiare, al fine di assicurargli il mantenimento, l’educazione e l’istruzione”. Ove non sia possibile un conveniente affidamento familiare, è consentito il ricovero del minore in un istituto di assistenza pubblico o privato, da realizzarsi di preferenza nell’ambito della regione di residenza del minore stesso”. Il ventaglio di possibilità alternative, ma tutte sullo stesso piano, è evidentemente troppo ampio. Si introduce una nuova possibilità, quella dell’affidamento a famiglie “tradizionali”, senza avere il coraggio di escludere delle opzioni, come gli Istituti, che si sono rivelate non utili, anzi spesso dannose, per qualsiasi progetto di formazione di personalità armoniche, equilibrate, sul piano affettivo, prima che mentale e comportamentale. C’è una contraddizione evidente, e, a mio avviso, non sanabile, nel fatto di prevedere, dopo aver chiaramente indicato la necessità di un ambiente familiare idoneo, la possibilità dell’affido ad una persona singola. Anche perché, all’art.1 della stessa legge, si sancisce il diritto del minore ad essere educato preferibilmente nell’ambito della propria famiglia di origine. Questa affermazione è importante poiché stabilisce il diritto del bambino e nello stesso tempo indica l’obiettivo a cui debbono tendere coloro che sono preposti all’attuazione della legge stessa: vale a dire, la tutela della famiglia, intesa come mezzo essenziale per la piena realizzazione della persona umana e come strumento efficace per la promozione della personalità. Al di là di ogni altra considerazione, risulta evidente che, anche in questo caso, la famiglia rimane l’istituzione su cui poggia l’assistenza nel nostro paese, e che si preferisce praticare una politica fondata, in gran parte, su trasferimenti monetari che favoriscono l’attribuzione alle famiglie della responsabilità della cura e dell’assistenza diretta.
La famiglia assume, anzi, una funzione fondamentale per l’attività di trasformazione delle risorse in servizi. Come sostengono Balbo e Bianchi (1982), “l’organizzazione familiare è chiamata ad intervenire attivamente a lavorare nei servizi, a legittimarne la gestione: a svolgere le attività che garantiscano quel minimo di integrazione tra un servizio e l’altro, che l’amministrazione pubblica sembra strutturalmente incapace di organizzare.” L’affido familiare è, quindi, un modello di intervento, a sostegno del minore e della famiglia di appartenenza, in condizione di difficoltà temporanea e/o strutturale, che sta tutto dentro lo schema di “capitalismo assistenziale”, come lo definisce la Balbo (1977), nel quale la famiglia ha un ruolo di assoluta centralità. Ma sono possibili anche altri approcci al problema del welfare e della centralità della famiglia, come quello formulato da Ardigò (1980), nel quale il volontariato, e, quindi, le esigenze di solidarietà espresse dai “mondi vitali”, diventano la coscienza critica del welfare pubblico. In pratica, il funzionamento del welfare dipende non solo da compatibilità economiche e politiche, ma anche dal tipo di responsabilità verso il bene pubblico che una comunità locale e/o nazionale è in grado di sviluppare. è solo attraverso la solidarietà sociale, chiamando i cittadini alla partecipazione attiva -come nel caso dell’affido familiare-, che il welfare, acquisisce legittimità e agisce come un forte meccanismo di integrazione sociale. In definitiva, la famiglia, con lo sviluppo dei sistemi maturi di welfare non perde le funzioni tradizionali quanto le trasforma, assumendo un ruolo cruciale di intermediazione tra servizi pubblici e bisogni sociali, anche perché le famiglie posseggono generalmente una notevole capacità di adattamento a situazioni problematiche ed una plasticità organizzativa interna che le rendono, comunque, un interlocutore fondamentale delle politiche di welfare, soprattutto per quanto riguarda le aree di esclusione sociale.
Amato Lamberti
Professore ordinario di sociologia
della devianza e della criminalità,
presso la facoltà di sociologia dell’Università “Federico II” di Napoli.