Nei molti incontri avuti come giudice delegato con i giovani dietro le sbarre si creava, seppure a fatica dopo l’iniziale diffidenza, la comunicazione, che poi innescava la possibilità della relazione, dello scambio, dell’ascolto e dell’accoglienza. Alcuni dicevano…e poi, dopo.. con chi posso parlare così.., chi mi ascolta… chi perde tempo con me..? Voi adulti!?
Basta prendere in mano un semplice dizionario della lingua italiana per rendersi conto di quanta incuria ed omissione, se non commissione di reati vi sia nel tema che Social News affronta questo mese,ossia il problema della riforma scolastica e dell’abbandono scolastico. Si legge nel Piccolo Palazzi – Riforma//Riformare: dare nuova e migliore forma, fare nuove leggi che correggano gli errori, tolgano gli abusi delle precedenti… Abbandono/Abbandonare: lasciare per lungo tempo o per sempre e spesso deliberatamente, trascurare… Siamo alla fine del 2007 e mi occupo di questo problema dagli anni ’80, quando i miei figli facevano rispettivamente la prima media e la prima superiore. Si incominciava già a parlare della dispersione scolastica, ma c’era una sorta di ambiguo pudore che attribuiva ai meno dotati o volonterosi la colpa di disperdersi lungo il percorso culturale dei vari gradi dell’istruzione (dispersione, il disperdere e il disperdersi, l’atto e anche l’effetto…disperso, perduto, smarrito). Mi sembra strano che si desse la responsabilità in modo ambivalente a chi avesse come mandato quello di istruire, ma anche a colui il quale doveva essere istruito, dato che essendo minore, quest’ultimo aveva il diritto di essere supportato nel percorso di quell’istruzione che porta alla libertà intellettuale e quindi alla formazione di un futuro cittadino consapevole. Ora si parla di abbandono: chi abbandona chi o che cosa? Il responsabile è colui il quale se ne va… quindi lo studente!?
Non è una vis polemica, la mia, ma una profonda tristezza. Abbiamo privato la nostra gioventù di quello che è il “DIRITTO AL PIACERE DELLO STUDIO”. Così si chiamava il movimento che avevo formato con alcuni genitori, e alcuni studiosi italiani, quali Gavino Ledda, la giornalista Anita Pensotti, eccetera. Erano gli anni dei mala-voglia, era una sindrome contagiosa che prima colpiva gli insegnanti sempre più demotivati, poi contagiava gli studenti sempre più spinti verso l’effimero e la svalutazione della cultura, il tutto causato da un insieme socio-antropologico che scopriva i nuovi valori sostituendoli ai vecchi….E il disagio giovanile aumentava sempre di più. Negli anni ’90 iniziai il mio percorso nella giustizia minorile come giudice onorario occupandomi del penale, settore in cui arrivava l’espressione di quel malessere minorile che portava, anche per superficialità, ignoranza, vuoto dell’anima, a commettere reati. Mi colpì la frase di un collega togato: ”Più si svuotano le scuole, più si riempiono le carceri”. Forse erano quei sintomi sottovalutati che hanno portato all’esplosione dell’epidemia di bullismo! Fu proprio dai ragazzi del carcere minorile di Bologna che nel 1996 mi fu suggerito di applicare il mio Progetto Psicantropos nelle scuole. Cosi facendo partii da un concetto di Nuova Pedagogia (www.nuovapedagogia.com) in quanto il problema stava a monte, bisognava prevenire formando non solo conoscenze ma coscienze. Due furono i cardini: reintrodurre nell’essenza del percorso educativo il senso del dovere, che era stato quasi annacquato dai vari attori responsabili dell’educazione. Intendo il contenitore concentrico formato da insegnanti sempre più frustrati e demotivati, genitori sempre più impegnati e quindi meno disponibili a fare i compiti con i figli e sempre più giustificanti. Meglio le ripetizioni, la delega e gli scolari sempre più affaticati fra i riempimenti del tempo libero, la noia di materie rese noiose da uno scadente ambiente scolastico poco stimolante ed empatico, in cui invece di rafforzare l’autostima si creavano le tensioni, silenti e striscianti fra i vincenti e i perdenti, le vittime e i vittimizzatori tanto che la situazione è sfuggita di mano, complici le istituzioni, indifferenti quasi al malessere crescente, a segnali di somatizzazioni sempre più preoccupanti in fasce d’età precoce se non precocissime. Ora si alza l’età dell’obbligatorietà….ma quanta violenza è esplosa nelle scuole?! Droga, molestie, abusi, suicidi, omicidi…forse perché insieme al dovere si è dimenticato di insegnare anche il diritto. Il secondo cardine fu introdurre la sacralità del corpo proprio e altrui. Un anno, durante il lungo periodo di applicazione, nelle scuole elementari di Viserba(1997-2006) del mio Progetto Psicantropos-Leggere i Messaggi del Corpo, che si svolgeva in tre classi elementari, lo dedicammo ad “Imparare il diritto osservando il dovere”. Primo fra tutti: “ama il prossimo tuo, come te stesso”. “Ma se nessuno mi ha insegnato ad amarmi, a stimarmi, se mi hanno espulso invece che accolto, come posso amare e stimare l’altro da me?” Queste parole me le hanno dette tanti ragazzi in Messa alla Prova.
Nei molti incontri che avevo con loro come giudice delegato si creava, seppure a fatica dopo l’iniziale diffidenza, la comunicazione che poi innescava la possibilità della relazione, dello scambio, dell’ascolto e dell’accoglienza. Alcuni dicevano “…e poi, dopo.. con chi posso parlare cosi.., chi mi ascolta… chi perde tempo con me..? Voi adulti!? Ho più attenzione, ora, qua…”. Ci vuole una drastica inversione di tendenza, ci vuole la riscoperta del valore dell’essere umano, delle sue potenzialità che, se non curate, rendono sterile quel giardino dell’Eden che è la psiche umana. Ci siamo giocati delle generazioni. Il sapere rende liberi, valorizza le qualità, migliora il contesto socioambientale in cui esistiamo, ma per esistere bisogna esserci, apprezzare l’estetica della nostra esistenza, non “fuggire nello sballo perché ciò che il contesto ci offre è frustrante, solitario e vuoto”. Sento delle madri, dei genitori all’inizio di questo anno scolastico che raccontano fatti, episodi, in cui si sente già inserire la frustrazione nelle scuole materne, come quando di fronte alla sofferenza della prima reale separazione, dal nucleo privato, familiare –parentale, si passa a quello sociale, allargato e si accusano i bambini di fare i capricci. Lo si dice in loro presenza, lo si dice di fronte ai compagni e, spesso, l’inserimento diventa una vera e propria forzatura, in cui i piccoli traumi emozionali spesso si convertono in sintomi psicosomatici. Un bambino di prima elementare, al terzo giorno di scuola prende una nota dalla maestra: “non sta fermo, disturba gli altri”. I genitori vanno, parlano con l’insegnante e il bambino assorbe lo stato d’animo e la preoccupazione. Dopo alcuni giorni dice “io mi ammazzo… perché mi piace… piuttosto che andare là”. Non voglio fare del facile psicologismo, ma perché quel luogo nuovo, dove si incontrano nuovi amici, nuove esperienze, nuovo sapere non è reso appetibile come tutto ciò che è commerciale, come gli zaini, gli astucci, le scarpe, ecc.? Perchè non si giunge a colpire l’immaginario infantile, adolescenziale con “SCUOLA è BELLO”!? Dove sono i curatori d’immagine? Perché non si riempie la scuola di contenuti seduttivi nella loro sostanza? Il viaggio della mente verso la progettualità di vita inizia lì. Queste parole nascono da una esperienza (i miei figli non hanno concluso gli studi, entrambi sono arrivati alle soglie del traguardo, ma lavorano ed hanno riacquistato la serenità dopo il mobbing scolastico, apprezzando sempre più la cultura ed è per un atto d’amore verso loro e gli altri che ho pensato a Psicantropos) che ha stimolato un bisogno e realizzato un desiderio. Tutto è iniziato nel 1996 dall’intuizione psicosomatica di un giovane omicida. Durante il Progetto Psicantropos, che svolgevo con un gruppo volontario di detenuti del carcere minorile di Bologna, avevo spiegato il mio intervento e la metodologia che applicavo con l’assunto della medicina psicosomatica, ossia “il corpo fa ciò che la mente vuole”… In un incontro successivo col gruppo, notai che non c’era più uno dei ragazzi, un giovane matricida. Chiesi come mai, dato che era fra i più partecipi: mi dissero che era in ospedale. Quando tornò mi spiegò che aveva avuto una paralisi transitoria alla mano sinistra che poi era passata. “Ho voluto punire la mano che ha ucciso mia madre. Perché non insegni questo che fai con noi anche ai bambini? Digli quello che ci hai detto, così il corpo fa solo cose buone e loro non si troveranno mai qui, come me”.
Maria Rosa Dominici
Psicoterapeuta, consigliere onorario
Corte d’appello Bologna, sezione minori,
membro della New York Academy of Sciences