Quello del doping nello sport è forse il più grande inganno perpetrato dagli strumenti di informazione negli ultimi anni. Un inganno che continua quando si raccontano mezze verità, si assumono atteggiamenti fintamente comprensivi, si fugge la realtà del problema
Se il fenomeno doping è arrivato alle dimensioni e alla attuale diffusione capillare fin nelle categorie più insospettabili di sportivi – giovani, giovanissimi e perfino gli “amatori” – una grossa fetta di responsabilità spetta proprio ai “media”, a come cioè hanno nel tempo affrontato il problema, come lo hanno proposto (o non proposto) all’opinione pubblica, come hanno tentato di risolverlo, se hanno tentato in qualche modo di risolverlo. Da ex atleta e (attualmente) amatore praticante, mi capita di toccare con mano la diffusione a macchia d’olio di una mentalità vera e propria, radicata e difficile da estirpare. L’idea di sport legata indissolubilmente a quella del farmaco. Un’idea difficile da estirpare anche oggi che il fenomeno – quanto meno – è stato portato alla luce e pare di intravedere una certa volontà concreta di farvi fronte. Però di questo problema si stenta a trovare traccia sui giornali. Tranne che nei casi clamorosi, quando sono coinvolti atleti di nome.
Le responsabilità degli operatori
Ebbene, se tutto questo è ancora realtà oggi – e lo è – allora noi operatori dei media dobbiamo domandarci perché. Come sia stato possibile arrivare a questo. Cosa abbiamo fatto e come abbiamo affrontato il problema in questi anni. Intanto la scienza farmacologica ha fatto enormi passi in avanti negli ultimi anni; l’uso distorto di prodotti anche importanti per la salute pubblica (l’Epo è uno di questi: serve per curare i dializzati) consente in tante discipline, da quelle di squadra a quelle individuali, da quelle di resistenza a quelle di forza, di compiere significativi passi in avanti dal punto di vista della prestazione e del risultato. E, a differenza del passato, consente anche all’atleta mediocre di fare importanti progressi, costringendo spesso il campione – quello con le doti naturali – a fare altrettanto per non essere superato. Inoltre, l’uso di certi prodotti ha richiesto e richiede l’intervento di medici esperti, di staff attrezzati, di un’organizzazione anche economica, cioè, che nel tempo ha portato alla formazione di una vera e propria ragnatela di “addetti”, medici soprattutto più o meno “bravi” nel calibrare alchimie e prodotti pericolosissimi per la salute; più o meno e conosciuti; più o meno seguiti. Una ragnatela impressionante. Ebbene, di tutto questo se ne è parlato e se ne parla pochissimo e quasi con disagio. Perché i “media” conservano ancora una sorta di fastidio nell’affrontare un argomento ed un fenomeno che ormai per la sua diffusione capillare diventa problema di salute pubblica? Come gestori dei “media” abbiamo sbagliato e forse continuiamo a sbagliare. Da una parte non abbiamo sottolineato abbastanza i rischi e il dilagare del fenomeno; dall’altra quando il problema è esploso nella sua virulenza, non ne abbiamo parlato a sufficienza, non lo abbiamo affrontato come si dovrebbe. Il clamore sull’atleta di nome e poi il vuoto. Il nulla o quasi. Siamo dunque tutti compromessi noi giornalisti e operatori del settore? Tutti in malafede, complici, comprati, venduti? Malafede e complicità ci sono state, certamente. Malinteso senso degli interessi comuni anche. Ma credo piuttosto alla superficialità, all’ignoranza, all’impreparazione legate all’idea o meglio al pregiudizio diffuso di cosa sia e debba essere lo sport nella nostra società. Della sua funzione sociale, come parte importantissima della vita di tutti i giorni. Del messaggio che – sui fatti di sport – per anni è passato dai “media” al grosso pubblico.
La grande illusione
Nell’opinione comune, nell’inconscio collettivo, nella mentalità della gente al termine sport è generalmente abbinato un qualcosa di leggero, un concetto di evasione, relax, riposo; un mondo a parte con le sue regole, apparentemente certe e sicure; un mondo che funziona perché produce vittorie e risultati, che investe concetti importanti e positivi per l’individuo come la salute, lo stare bene, il benessere fisico, la realizzazione di sè. Ebbene questi concetti, questa idea dello sport, è stata alimentata dalla scuola, dalla famiglia, dalla dirigenza sportiva e dai “media” anche quando con il tempo e con l’avvento del denaro (gli sponsor) lo sport – almeno quello di vertice, il più appariscente – si è trasformato radicalmente. Divenendo cioè né più né meno che un fenomeno dalle forti basi economiche, regolato dalla legge degli interessi. Con tutto quello che concerne e ne deriva. Però – almeno dal punto di vista dell’informazione – lo si è continuato a trattare come se fosse lo sport di prima: ingenuo, limpido, non condizionato da interessi. Solo a forza di scandali e casi clamorosi questa visione sta lentamente cambiando. E qui sta, secondo me la prima grande responsabilità dei “media”: aver accettato questo compromesso mai scritto; aver fatto finta che tutto fosse come prima; aver continuato a trattare lo sport, come un fenomeno becero da baraccone: il record, il risultato, i gol, gli aspetti più superficiali. Magari alimentando un tifo per il quale certe tendenze campanilistiche assai diffuse nel nostro paese costituivano il terreno, l’humus ideale. Si è guardato solo alla superficie. Si è rinunciato, si rinuncia ad approfondire. Perché? è troppo noioso? Troppo rischioso? Troppo difficile? Abbiamo contribuito ad alimentare una illusione di massa. Che faceva comodo a tanti. Si dice: ma al pubblico non importa nulla del doping. Il pubblico vuole sognare e illudersi. Tesi suggestiva e con un certo contenuto di verità. Sognare è importante come vivere. Ma mi permetto di dissentire, almeno per un motivo: come si fa a dire che la gente vuole solo quello quando non è mai stato offerto qualcosa di diverso? Non è vero che alla gente piace essere ingannata. Già, perché quello del doping nello sport è forse il più grande inganno perpetrato dai “media”, specie negli ultimi anni.
Un inganno che continua quando si raccontano mezze verità, si assumono atteggiamenti fintamente comprensivi, si fugge la realtà del problema. E qui un ruolo decisivo lo ha la televisione. Uno strumento dalla potenza enorme perché entra in tutte le case. Il fastidio nell’affrontare l’argomento è palese: non se ne deve parlare; l’immagine del ciclismo (o di qualsiasi altro sport) “si rovina” non a praticare la farmacia proibita, bensì a parlarne. Insomma, si imbrogli pure, ma non si dica. Guai a “rompere il giocattolo” attorno cui ruotano miliardi. Per non parlare del potentissimo calcio, che, una volta squarciato il velo del doping si è esibito in uno slalom inverecondo fra regole cambiate in corsa, processi rapidi e assai poco credibili, assoluzioni e pene all’acqua di rose. Ma almeno adesso l’opinione pubblica probabilmente ha capito: quando ci sono di mezzo gli interessi, le regole dello sport non contano nulla. E questo è un dramma per lo sport. Qualcosa, adesso, sia pur timidamente, si muove. Ma è sempre poco di fronte all’entità del problema. La cronaca nera ha fatto sì che ci sia più attenzione anche da parte dei media. Ma manca una linea, una strategia di fondo, una tensione continua verso l’obbiettivo, specie alla tv. E senza la tv, con il suo potere di entrare in tutte le case, tutti i discorsi sulla “mentalità da cambiare”, sulla cultura dello sport da rifondare diventano esercitazioni accademiche.
Eugenio Capodacqua
Direttore della rivista SportPro International. www.sportpro.it
Scrive per il Corriere dello sport, Olimpico, La Repubblica