“The desire to take medicine is perhaps the greatest feature which distinguishes man from animals” (W. Osler). Se questa affermazione, ai limiti del paradosso, riflette una caratteristica presente nella popolazione in generale, essa trova sicuramente un reale riscontro in ambito sportivo. Il problema doping, anche se di grande attualità, non nasce certo oggi. La ricerca di rituali, pozioni magiche e sostanze che possano consentire di prevalere nei confronti degli avversari, sia in battaglia che in competizione (correre più veloci, saltare più alto, lanciare più lontano, resistere più a lungo) affonda le sue radici nella storia. Galeno riferisce che intorno al terzo secolo a.C. gli atleti greci facevano uso di funghi allucinogeni e di sostanze stimolanti, per migliorare le loro prestazioni. L’uso di stimolanti era pratica abituale anche fra i gladiatori romani nei Giochi del Circo Massimo. In epoca moderna bisogna arrivare alla seconda metà dell’-800 per trovare nelle cronache segnalazioni dell’uso di farmaci in corso di manifestazioni sportive ed eventi luttuosi evidenziano in questo periodo la presenza del problema. Clamorosa la morte per collasso di Thomas Hicks, vincitore della maratona alle Olimpiadi di St. Louis del 1904, attribuita all’utilizzo di brandy e solfato di stricnina. Gli stimolanti fanno la storia del ciclismo. Nel 1924 i famosi fratelli Pelissier, dicevano “noi andiamo a dinamite”, mostrando delle boccette piene di “neige”, una polvere bianca, che altro non era se non cocaina. All’uso di amfetamine è imputabile la morte del campione del mondo in carica Tony Simpson, ripresa in diretta televisiva durante il Tour de France del 1967. Gli enormi progressi farmacologici degli anni ’60 (rivoluzione farmacologica) si riflettono anche in ambito extraterapeutico, investendo, insieme con il mondo della musica, anche il mondo dello sport. In quegli anni gli atleti pensavano che vi fosse un farmaco specifico per ogni loro necessità, invece che credere nel duro lavoro e nel rigoroso allenamento. Anche oggi viviamo in una società “farmacodipendente”, con una visione “farmacocentrica”: farmaci per la calvizie, per sviluppare il seno, per la performance sessuale, per la memoria, contro l’invecchiamento e pillole della felicità. “Quando la scienza avanza gli atleti, sempre in cerca di un aiuto, avanzano insieme ad essa” (E.R. Eichner). La pressione drammatica sull’atleta da parte di sponsor, allenatori, tecnici, preparatori, le enormi motivazioni sociali (notorietà, prestigio, gloria nazionale, fama) e finanziarie fanno sì che sia immenso lo stimolo alla ricerca del risultato a tutti i costi, tanto che qualsiasi metodo viene considerato lecito per raggiungere il fine. Molti sono convinti che i farmaci siano parte integrante della preparazione e si sentono in condizioni di inferiorità nei confronti di coloro che suppongono li usino. Chi ha raggiunto con metodi leciti il top della forma, cerca quel lieve miglioramento che possa condurlo alla vittoria. L’impiego extraterapeutico di sostanze riguarda e ha riguardato campioni di livello mondiale, ma è ampiamente diffuso anche nel mondo amatoriale, in moltissime discipline, anche in quelle in cui potrebbe sembrare impensabile il ricorso al doping. Nessuno sport e nessun gruppo di età è immune dal problema.
La stessa spinta pubblicitaria sull’uso indiscriminato e sulla “necessità” dell’impiego degli integratori ha ingenerato tra gli sportivi il convincimento che non ci si possa approcciare ad alcun impegno, anche di lieve entità, se prima non si è preso qualche cosa. Ormai non ci si infila nemmeno le scarpe da jogging senza aver ingurgitato prima una pastiglia o un beverone, con la finalità di migliorare la prestazione fisica, piuttosto che per tutelare la salute. Ed è attraverso questa ricerca di un aiuto esterno che passa la “cultura del doping”. Il doping, è inutile nasconderlo, è intimamente legato allo sport, ma è in antitesi con esso, con gli ideali olimpici e con i principi della medicina dello sport (promuovere e mantenere la salute e trattare gli infortuni). In Italia ci sono 11,3 milioni di sportivi praticanti e 17,5 milioni di individui attivi, che praticano attività per la propria condizione psicofisica e per la qualità della vita. Il professionismo quindi è assolutamente minoritario. Ma vi sono sostanze, come gli anabolizzanti, la cui ampia diffusione fra individui che non fanno sport e che li assumono per motivi estetici, con l’obiettivo di migliorare il proprio fisico e la propria performance, assume dimensioni decisamente preoccupanti. Ciò fa parte di una subcultura di palestra, che investe soprattutto i giovani, sia maschi che femmine, spesso in età prepubere, proprio quando il soggetto è particolarmente vulnerabile sia sul piano fisico che psichico. Inoltre questa fetta di consumatori sfugge alla possibilità di un controllo medico, specifico proprio degli atleti (la visita per l’idoneità sportiva agonistica), non viene sottoposta a controlli antidoping e l’uso, con queste finalità, è spesso continuo. Si tratta di un problema di estese proporzioni e la motivazione estetica appare essere la più importante causa di abuso fra gli adolescenti. Adolescenti fra i quali si ritiene sia ampiamente diffuso anche l’impiego di ormone della crescita (hGH), con l’intento di ottenere un aumento staturale, spesso con il consenso dei genitori, che sperano di creare nel figlio un atleta di successo.
Lo sport esplica un ruolo sociale: rispetto della persona, solidarietà, giustizia. L’uso improprio di sostanze ne erode i tradizionali valori e gli ideali. Al contrario della spettacolarizzazione bisogna recuperarne l’istanza etica e il significato autentico nella formazione del proprio essere. Visto in questa ottica il doping costituisce una violazione della persona. Inoltre, inficiando la correttezza del risultato, ha effetti deleteri sull’organizzazione: riduce il rispetto e la popolarità di una disciplina e disincentiva i giovani ad intraprendere quella attività. Esso va osteggiato non solo per queste motivazioni etiche, ma anche in quanto costituisce spesso un attentato all’integrità fisica dello sportivo.
Nessun farmaco è privo di effetti collaterali. Le reazioni indesiderate fra gli sportivi sono le stesse che si verificano in ambito clinico nella popolazione generale. Alcune tuttavia possono verificarsi con più frequenza durante esercizio. Il rischio inoltre aumenta quando manca il controllo medico. Chi fa uso di medicamenti per vincere, se non vince è portato ad aumentare progressivamente i dosaggi, spesso molto al di sopra delle dosi terapeutiche. Un altro problema è costituito dalle fonti illecite, che aggiungono rischio al rischio: impurità, sostanze diverse da quelle attese, mancanza di sterilità, uso clandestino con scambio di aghi e siringhe e possibile trasmissione di infezioni (AIDS, epatite…). Non vanno ignorati infine gli effetti psicologici generali, come la perdita del rispetto verso se stessi. Se non esistono statistiche ufficiali sulla morbilità e mortalità da doping, molti sono i riporti anedottici sulle drug-related deaths. La drammaticità di questi eventi ha fatto sì che l’ordinamento sportivo sin dagli anni ‘60 si sia dotato di una normativa antidoping, stilando una lista delle sostanze proibite e introducendo i controlli sulle urine. Le differenze tuttavia esistenti fra le diverse federazioni e fra i diversi paesi, rendevano questo strumento scarsamente efficace. Per tale motivo nel 1999 è stata istituita la WADA (World Anti-Doping Agency), con la finalità di elaborare un Codice Mondiale Antidoping, destinato ad armonizzare le norme, i procedimenti e le sanzioni. Il World Anti-Doping Code, stilato nel 2003 ed entrato in vigore il primo gennaio 2004, è stato sottoscritto da 184 Paesi e ratificato dalla Conferenza Generale dell’UNESCO, in sessione plenaria, il 19 Ottobre 2005. Cosa sia proibito o meno si ricava da una lista (The proibited list), che viene aggiornata ogni anno.
Il nostro paese poi, fra le prime nazioni al mondo, con la legge n. 294 del dicembre 2000 (“Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta al doping”), sicuramente una delle più avanzate a livello internazionale, ha fatto del doping un reato penale, perseguendo, non solo chi lo pratica, ma anche chi “procura, somministra o favorisce…”.
Rimangono tuttavia aperti ancora diversi problemi. 1) Tutte le attività amatoriali, soprattutto nell’infanzia e nella adolescenza, sono fuori da qualsiasi possibilità di controllo istituzionale. 2) I controlli sono mirati alla ricerca delle sole sostanze inserite nella lista e pertanto essa rischia di essere utilizzata come “guida pratica” da parte degli atleti, che sono portati a pensare che sia lecito assumere tutto ciò che non vi è ricompreso. 3) Vi sono inserite delle sostanze che non possono essere rintracciate con gli attuali controlli. 4) La lista è discrezionale e incompleta: discrezionale perché alcuni farmaci sono spesso inclusi od esclusi senza un sicuro razionale scientifico e incompleta perché l’uso di nuove sostanze arriva sempre prima del loro inserimento; sul futuro (ma c’è già qualcosa più di un’avvisaglia) incombe l’avvento del doping genetico; medicina genomica e ingegneria genetica disegnano i nuovi scenari, così come la proteomica, accoppiata all’analisi genetica rappresentano le possibili armi per un antidoping genico. 5) Il sanzionamento di atleti provenienti da paesi in cui l’uso dei derivati della canapa indiana (la sostanza più diffusa fra i giovani e che dà luogo ai maggiori riscontri di positività ai controlli antidoping, in tutte le discipline) è severamente proibito, sino alla pena di morte, pone un serio problema etico e medico-legale.
Il processo in atto sotto l’egida della WADA renderà più incisiva l’efficacia dell’antidoping. Tutto ciò comporta comunque una lievitazione dei costi che rende indispensabile l’intervento e l’assistenza dei singoli governi in tutti i paesi. La collaborazione delle autorità governative può aprire la possibilità di finanziare programmi di ricerca e di educazione su questo terreno. E’ inoltre necessario sviluppare nuove tecniche di analisi per rendere i controlli sempre più precisi e sicuri.
E’ chiaro comunque che l’antidoping non costituisce uno strumento sufficiente per risolvere il problema. E’ assodato che una certa percentuale di sportivi sarà sempre tentata di fare uso di farmaci per vincere. L’appello alle leggi ed ai principi morali che governano lo sport viene vanificato dai vantaggi psicologici e materiali: il desiderio di apparire ed essere invincibili e il miraggio finanziario prevalgono. Continuare ad asserire che “una migliore performance si ottiene solamente col duro lavoro e con un intelligente allenamento e non esiste sostanza o mistura che possa migliorare in modo consistente la prestazione” (D.F. Hanley) comporta perdita di credibilità e significa aver perso la battaglia in partenza. Non esiste certo, come alcuni credono, una molecola in grado di fare di un mediocre sportivo un atleta di alto livello, ma la ricerca spasmodica di quel piccolo aiuto in più, fisico o mentale, che consenta di prevalere, spiega l’ampia diffusione del problema. Esistono sicuramente farmaci ergogeni, in grado di migliorare la prestazione. Insistere pertanto sulle limitate dimostrazioni di efficacia significa fare cattiva informazione e la cattiva informazione svolge spesso un ruolo promozionale, in un ambito, quale quello sportivo, dove le notizie scorrette prevalgono su quelle corrette. Una reale azione preventiva può essere basata solo su una puntuale opera di educazione, iniziata precocemente e contemporaneamente alla pratica sportiva stessa. Se scarsi sono i dati sugli effetti “positivi”, molti sono al contrario quelli sui rischi. Comunque condannabile sotto il profilo etico, l’uso di sostanze può mettere a repentaglio l’incolumità e la vita stessa degli atleti. Piuttosto che lanciare appelli, è proprio su questi aspetti che bisogna puntare a livello di educazione. I giovani devono sapere che il “piccolo vantaggio” comporta la possibilità di conseguenze acute e/o a lungo termine. Qualcuno tuttavia potrebbe scegliere di vincere ora per ottenere fama e ricchezza e pagare dopo. In questa eventualità potrebbe avere un impatto disincentivante condurre delle ricerche per verificare quanti, fra coloro che abusano di farmaci, non ottengono alcun risultato sportivo di alto livello.
Il tentativo di abolire completamente il problema è probabilmente irrealistico, tuttavia garantire la lealtà di chi gareggia e tutelare la salute dei praticanti devono costituire impegni irrinunciabili per tutti coloro che gravitano intorno al mondo dello sport.
Bisogna agire con dei programmi a lungo termine, con impostazioni diverse a seconda dell’utenza, sotto l’egida delle organizzazioni sportive nazionali e locali e possibilmente con il coinvolgimento delle istituzioni. Questa capillare opera di educazione deve essere svolta non solo in ambito sportivo, ma deve coinvolgere anche il mondo della scuola e le famiglie dei bambini e dei ragazzi che praticano o praticheranno sport. Fondamentale su questo terreno può essere il ruolo del medico dello sport, che gode della credibilità da parte delle autorità sia sportive che scolastiche, della fiducia degli studenti, dei genitori e degli atleti. Corsi per allenatori, preparatori, medici sociali dovrebbero essere incentrati sul valore etico dello sport, strumento di prevenzione all’abuso di droghe e non incentivo. Gli atleti devono sapere che sono dei modelli per i giovani e per la società in generale, che il fair play è altrettanto importante della vittoria e che sono essi stessi la chiave per risolvere il problema. Non dobbiamo infatti attendere dalla giustizia, sia essa ordinaria o sportiva, la soluzione di quesiti che investono l’etica, la deontologia professionale e la scienza. Parafrasando Henry D.Thoreau si può concludere dicendo che “la Legge non renderà mai liberi gli uomini, ma sono gli uomini a rendere libera la Legge”.
prof. Antonio Bonetti
Cattedra di Medicina dello Sport
Dipartimento di Scienze Cliniche
Università degli Studi di Parma