Gli schiavi del secondo millennio

La vulnerabilità (economica, sociale, culturale, linguistica, psico-fisica) può produrre eccessivo attaccamento e fiducia da parte dello straniero al datore di lavoro. Questo, approfittando della situazione di estrema debolezza del lavoratore,  attiva  meccanismi finalizzati ad assoggettarlo  radicalmente e a limitarne considerevolmente libertà di movimento e di negoziazione. Contrastare il lavoro sommerso e al nero  – che secondo stime ministeriali coinvolgerebbe circa 4.000.000 di lavoratori –  significherebbe anche aumentare i margini di sicurezza sui posti di lavoro

Il dibattito sul lavoro forzato o para-schiavistico (in quanto ricorda quello “classico”) nel quale sono coinvolti gruppi significativi di lavoratori stranieri ha registrato una impennata di interesse all’indomani dell’inchiesta realizzata da Fabrizio Gatti sull’Espresso dell’estate scorsa. L’inchiesta giornalistica ha messo a nudo un sistema di sfruttamento che travalica quello che potremmo definire ordinario; ossia quello sfruttamento quasi tollerato – o almeno tollerato (sovente in maniera incosciente) sino ad ora – da una parte del sistema di  produzione che sembra trovare la sua legittimazione soltanto nel deprimere economicamente la componente lavorativa.

Per definire il lavoro forzato o para-schiavistico occorre considerare comunque le modalità lavorative esistenti, poiché esso ne rappresenta l’estremità ultima dopo il lavoro garantito o formalizzato (nelle sue variegate connotazioni), il lavoro nero (nella sua doppia configurazione a seconda dei vantaggi/svantaggi che ne ricava, nonostante tutto,  il lavoratore) e il lavoro – appunto – caratterizzato da evidenti forme di assoggettamento da parte del datore verso il lavoratore. In pratica il lavoro garantito,  il lavoro nero e il lavoro para-schiavistico formano un continuum delle forme che assume il lavoro a seconda del grado di tutela che lo caratterizza, partendo dal grado più alto per arrivare a  quello più basso o addirittura del tutto assente.

Quest’ultimo rappresenta dunque la coda più estrema del lavoro sommerso che tende generalmente  a caratterizzarsi in due maniere diverse, come le facce di una stessa medaglia. Da una parte si rileva con quelle forme di sfruttamento che vengono in genere sintetizzate nella cosiddetta “teoria della convenienza”: il lavoratore e il datore di lavoro si mettono d’accordo per dividere in parti uguali (o meno uguali, ma comunque convenienti per entrambi) la quota relativa ai contributi previdenziali. In tal modo guadagna un po’ di più il lavoratore e guadagna un po’ di più il datore di lavoro. Questa possibilità, seppur illegale, viene utilizzata da gruppi di datori di lavoro mirando ad intercettare  quelle fasce di lavoratori migranti che vengono in Italia per qualche mese o per una stagione per lavorare intensivamente, fare un po’ di soldi  e poi tornarsene indietro al proprio paese.  Il datore – soprattutto quello che opera in alcuni comparti soggetti a picchi produttivi (come l’edilizia, il turismo, l’agricoltura, eccetera) – conosce questo tipo di offerta lavorativa, la stimola, la promuove  e l’adatta alle proprie necessità produttive. Così facendo produce un sistema di produzione che misconosce, da un lato,  i contratti nazionali di categoria (seppur stagionali o a tempo determinato, anche breve) e dall’altro, il diritto del lavoratore alla sicurezza del/sul  posto di lavoro (sia nel senso della continuità temporale che in quello della propria integrità psico-fisica). In tal modo alimenta e rafforza direttamente il lavoro sommerso e la propensione all’irresponsabilità delle altre aziende appartenenti al medesimo settore produttivo mediante l’emulazione e la diffusione di culture aziendali basate sulla falsa convinzione di essere così maggiormente concorrenti e competitivi sul mercato di riferimento.

Questo tipo di relazioni, pur tuttavia, non si manifestano soltanto nel lavoro stagionale, anche se in questo assumono caratteri maggiormente preoccupanti, ma investono al contempo quei comparti produttivi la cui produzione rimane costante sull’intero ciclo dell’anno. In questo tipo di lavorazione si inaspriscono le relazioni lavorative basate sulla prevaricazione continua dei diritti di chi lavora. I datori approfittando del fatto che si tratta di stranieri, magari privi di documenti di soggiorno o in cerca di qualsiasi occupazione pur di sopravvivere; condizioni  che determinano uno stato di vulnerabilità sociale e pertanto una particolare disponibilità allo sfruttamento anche pesante.

La vulnerabilità – sovente di tipo pluridimensionale, cioè economica, sociale, culturale, linguistica, psico-fisica, eccetera – può produrre eccessivo attaccamento e fiducia da parte dello straniero al datore di lavoro. Questo, approffitando della situazione di estrema debolezza del lavoratore, attiva meccanismi finalizzati ad assoggettarlo  radicalmente e a limitare considerevolmente la libertà di movimento e di negoziazione dello stesso.

In questi casi la volontà di resistenza delle persone coinvolte (adulte e minori) viene sottomessa fino a far configurare, paradossalmente, anche forme relazionali basate apparentemente sulla libera scelta e sulla sostanziale accondiscendenza delle stesse. La condizione del lavoro forzato, servile e para-schiavistica tende a determinarsi come una situazione di fatto (ossia non avallato da norme legislative) che trova spazio in ambiti marginali dell’organizzazione sociale e produttiva.

Non trattandosi quindi di una condizione legittimata legalmente dalle istituzioni, come accadeva negli ordinamenti statali di carattere razziale e xenofobo, il fenomeno para-schiavistico si manifesta negli interstizi marginali della società e in maniera del tutto illegale e pertanto strettamente sanzionabile dalle normative correnti. Affermare comunque che le pratiche di sfruttamento para-schiavistico si manifestano attualmente come condizione di fatto non significa ovviamente ridurne la loro significatività, ma soltanto sottolineare che è possibile contrastarle apertamente in quanto fenomeni storicamente circoscrivibili e pertanto soggetti ad interventi di  ridimensionamento come qualsiasi altro fenomeno sociale.  A quanto ammontano numericamente queste fasce di lavoratori sfruttati in modo grave non è dato saperlo, poiché al momento non esistono organi di monitoraggio del fenomeno in grado di stimarne le consistenze e definirne puntualmente i caratteri dal punto di vista qualitativo. La carenza di analisi mirate sull’argomento non permette valutazioni generalizzate, ma è un dato incontrovertibile che il fenomeno esiste e quindi esistono tutti i problemi ad esso correlabili. E sono gravi. Gli strumenti per contrastare il fenomeno sono in parte già previsti e sperimentati dalla normativa corrente. Ad esempio, il noto articolo 18 (del T.U. n. 286/98) che prevede azioni positive di protezione sociale per le vittime di grave sfruttamento, sino ad oggi utilizzato molto per le vittime di tratta e sfruttamento sessuale. E’ un dispositivo che ha dato risultati soddisfacenti sul versante dello sfruttamento sessuale e se opportunamente rafforzato e articolato maggiormente per contenere le nuove forme di nuove schiavitù. Pensiamo, ad esempio, ad una estensione dei commi che formano l’articolo 18 con l’aggiunta della specifica “protezione sociale in quanto vittima di lavoro forzato” o altre specifiche come “il lavoro servile di cura”. Anche se il punto centrale del problema resta a nostro parere il contrasto al lavoro sommerso e ai rapporti di lavoro basati  sulla “teoria della convenienza”, giacché questa ultima rappresenta una sorta di trappola per il lavoratore poiché non permette la creazione del suo fondo previdenziale. Una maggior contrasto al lavoro sommerso, una attenzione continua da parte delle autorità competenti, un monitoraggio costante e puntuale delle relazioni lavorative, un rafforzamento del clima sociale di accoglienza verso gli immigrati, permetterebbe anche una progressiva riduzione delle forme di grave sfruttamento. Esse, infatti, non avrebbero più la copertura culturale e politica, anche se indiretta,  necessaria a giustificare o a tollerare rapporti di lavoro che si estrinsecano al di fuori delle contrattazioni ufficiali a carattere  nazionale. Contrastare il lavoro sommerso e al nero – che secondo stime ministeriali coinvolgerebbe circa 4.000.000 di lavoratori – significherebbe anche aumentare i margini di sicurezza sui posti di lavoro, poiché maggiore è il ricorso al lavoro informale e minore è l’attenzione da parte dei datori ai dispositivi di sicurezza.

Risparmiare sulle retribuzioni, risparmiare sui sistemi di sicurezza nei luoghi di lavoro, risparmiare sui contributi previdenziali ai lavoratori vuol dire porsi al di fuori della legalità, porsi contro la prevenzione finalizzata a ridurre progressivamente le “morti bianche” (che ammontano a circa 1.200 unità, tra lavoratori italiani e stranieri, a fronte di circa 950.000 incidenti sul lavoro). Occorre rafforzare, dunque, gli organismi ispettivi e rendere più veloci le cause civili e penali per motivi di lavoro, ripristinando pertanto la fiducia nelle istituzioni giudiziarie ed ispettive del settore.

Le forme di sfruttamento che riguardano i lavoratori immigrati rientrerebbero così  nel sistema generale di monitoraggio ed ispezione sulle condizioni di lavoro, rientrando, da un lato,  nella logica universalistica tutelata dalle normative ordinarie soprattutto per quanto concerne il lavoro nero/sommerso (cfr. art. 36 bis della recente legge n. 248 dell’agosto 2006); dall’altro,  nella normativa dedicata (il nuovo art. 18) per quanto concerne il lavoro configurabile come para-schiavistico. Tutto ciò in attesa di un riordino generale – nella forma di un Testo Unico – della materia.

Francesco Carchedi
Ricercatore presso il Parsec,
docente presso l’Università degli studi di Roma «La Sapienza».
Consulente di diverse istituzioni pubbliche in materia di immigrazione ed emigrazione.

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