Immigrante e disoccupato?

Le aziende del Friuli Venezia Giulia non utilizzano più immigrati senza scolarizzazione, da impiegare per mansioni a bassa professionalità. La richiesta di lavoratori extracomunitari in Friuli Venezia Giulia passa dalle 6.960 unità del 2005 alle 4.590 delle previsioni del 2006. Un altro dato che merita attenzione è la componente immigrata sul totale delle assunzioni, che passa dal 40,7% dell’anno scorso alla previsione del 28% di quest’anno.

 Magari gli immigrati ci serviranno sempre di meno in Friuli Venezia Giulia e, in generale, nel Nordest italiano. Perché? E’ presto detto: c’è meno lavoro per loro. Secondo le stime dell’Unioncamere, l’associazione che raggruppa gli enti camerali della regione più a nordest d’Italia, i posti di lavoro proposti agli extracomunitari diminuiscono. Vale per i nuovi arrivi, ma anche per chi è già qui e si ritrova disoccupato con l’alternativa di doversi ricollocare in altre realtà regionali oppure di dover chiedere aiuto con la conseguenza inevitabile che il peso sociale a ciò relativo si scarica sempre e solo sulla comunità locale.

Di questa fotografia attuale la politica dovrebbe tener conto al fine di non produrre azioni che, magari, non si rivelino al passo coi tempi. Le soluzioni da garantire devono tener conto della realtà, altrimenti si sprecano risorse.

Ma ecco i dati che confermano quanto sin qui sostenuto, ovvero che alle aziende del Friuli Venezia Giulia non servono più immigrati senza scolarizzazione da impiegare per mansioni a bassa professionalità. La richiesta di lavoratori extracomunitari in Friuli Venezia Giulia passa da 6.960 del 2005 alle 4.590 delle previsioni del 2006. Vi è, poi, un altro dato che merita attenzione: la componente immigrata sul totale delle assunzioni passa dal 40,7% dell’anno scorso alla previsione del 28% di quest’anno.

Sarà perchè da anni si parla di innovazione tecnologica e ripensamento del manifatturiero su produzioni a più alto valore aggiunto, sarà che il mercato del lavoro richiede figure professionali a più alta scolarizzazione e che gli immigrati che in numero maggiore giungono in questo pezzo di terra italiana non hanno un curriculum elevato (eccezion fatta per gli scienziati di Trieste) e fors’anche qualche problema di lingua, insomma il numero degli extra-comunitari richiesti per lavoro è destinato a diminuire.

D’altronde se uno viaggia nelle aziende che ristrutturano si accorge immediatamente che quando si taglia sul personale le prime mansioni a saltare sono quelle a minore professionalità. Non scordiamo, poi, la delocalizzazione che ha investito anche il Friuli Venezia Giulia e, quindi, la maggior meccanizzazione delle fabbriche che ha comportato l’inevitabile diminuzione di richiesta di lavoratori non qualificati. Proprio parlando di delocalizzazione il caso emblematico in Friuli è quello della sedia e del suo distretto del manzanese laddove le prime fasi della lavorazione sono state trasferite all’estero riducendo così il fabbisogno di manodopera manuale. Negli ultimi sei anni la forza lavoro di quest’area è diminuita di oltre 2 mila unità.

Il processo di delocalizzazione corrisponde, però, da un lato a quanto richiesto da molte parti, ovvero di aiutare i popoli che premono per trasferirsi in Europa e nell’Occidente in genere in loco al fine di garantire nei loro Paesi d’origine un miglioramento della situazione di vita. Una riflessione in proposito andrebbe, però, posta: le imprese che delocalizzano lo fanno, o quantomeno lo hanno fatto per risparmiare proprio sui costi di manodopera e in virtù di ciò hanno anche dato vita, talvolta, a una sorta di “nomadismo imprenditoriale”, ad esempio spingendosi sempre più a Est, dalla Romania alla Russia sino alla Cina alla ricerca di manodopera a bassissimo costo. Forse non è così, però, che si aiuta un popolo e lo si fa crescere economicamente, certamente è così che si fa profitto.

Tornando a casa nostra sembra ormai venir meno, pertanto, l’epoca in cui la domanda di operai da parte delle aziende friulane non era soddisfatta dal mercato locale rendendo così necessario se non addirittura indispensabile il ricorso ai lavoratori extra-comunitari anche se in taluni settori, come la meccanica, la ristrutturazione competitiva non ha comportato tagli significativi.

Resta, quindi, quanto accennato in precedenza tenendo conto che gli immigrati che hanno ottenuto il ricongiungimento familiare hanno ormai messo radici sul territorio e ben difficilmente potranno ricollocarsi in altre realtà regionali italiane. Da qui il riferimento al peso sociale di questa disoccupazione immigrata che si verrà a creare con inevitabili ripercussioni sulla collettività locale che non deve farsi trovare impreparata dinanzi a questa situazione.

Un aiuto, ma solo per lavoratori ad alta professionalità, giunge da un fondo di ricollocamento a disposizione delle Province le quali talvolta hanno difficoltà a impiegarlo. La risorsa non deve andare sprecata, ma alla politica si chiede anche di guidare la società e, pertanto, di garantire soluzioni a tutti: ce la farà? Sicuramente non potrà dire di non essere stata avvisata.

 

Daniele Damele
Docente di Etica e Comunicazione
Università di Udine

Rispondi