L’indifferenza pura e semplice e quella malcelata nei confronti delle persone che assumono droghe è oggi molto diffusa. Il modo migliore per affrontare la sofferenza altrui è invece la compassione nel senso di cum patire, condividere la sofferenza in un percorso di vita che, nel caso della tossicodipendenza, è sempre lungo e doloroso.
Se improvvisamente ed imprevedibilmente nella nostra vita irrompe la sofferenza di una persona in difficoltà, con un forte disagio, e ci chiede aiuto, e non c’è nessuno nelle vicinanze cui delegare quella richiesta, possiamo scegliere di agire in due modi: l’indifferenza ed il rifiuto, o la compassione.
L’indifferenza è il sentimento, oggi molto diffuso, di chi preferisce credere che un problema non lo riguarda, che non è sua responsabilità risolverlo, che ci deve pensare lo Stato, o la scienza, che è colpa della società.
E’ il caso di chi è disposto a costruire dei bei parchi o delle cliniche, ben recintati ed isolati dal resto della società, in cui accogliere i tossicodipendenti, mettendogli a disposizione tutta la droga che vogliono, pulita e sicura, compresi i medici pronti a somministrargliela. Facciano pure quello che vogliono, purché sia lontano da me e, possibilmente, io non veda.
C’è poi una forma di indifferenza che indossa la maschera ipocrita della pietà. E’ quella di chi è disposto a pagare o a credere a qualsiasi bugia, magari condita da qualche superficiale o fasullo dato scientifico, purché quel problema o la persona che ne soffre scompaia dalla sua vita.
Se il problema si chiama ‘tossicodipendenza’, la soluzione sarà allora quella di farne una malattia cronica e irrimediabile, catalogando il tossicodipendente come malato inguaribile, da assistere a vita con droghe alternative che chiameremo mediche e che non lo aiuteranno mai a risolvere definitivamente il suo problema.
C’è infine la compassione, nel senso più alto ed etimologico, ‘cum patire’, condividere la sofferenza altrui, facendola propria. E’ il sentimento del padre e della madre che scoprendo un figlio tossicodipendente non vogliono pensare che sia un malato cronico destinato a farmaci, droghe alternative e cliniche psichiatriche. Vogliono aiutarlo e sono disposti a combattere per convincerlo a scegliere la vita, a sostenerlo in un percorso di crescita, a credere che possa tornare a essere una persona libera, autonoma, capace di esprimere tutte le proprie potenzialità ed il proprio talento.
E’ esattamente il nostro modo di guardare gli occhi di un ragazzo quando bussa alla nostra porta e chiede di essere accolto. Vediamo in lui un essere umano unico e straordinario, da rispettare, sostenere, amare, a cui dare una opportunità vera di riscatto e di futuro.
Nessuno più di lui ha bisogno di bellezza, di credere di poter realizzare i propri sogni. Anzi, se ha veramente la volontà di crescere, noi crediamo che abbia diritto a quella bellezza. Per questo a San Patrignano esistono 57 laboratori di formazione professionale, ognuno organizzato con i migliori maestri per raggiungere l’eccellenza. I prodotti che i nostri ragazzi realizzano sono di altissima qualità perché loro sono eccezionali.
Devono poter scoprire e scegliere qual è il loro talento per poterne fare la base della propria realizzazione umana e professionale.
Devono potersi entusiasmare e sorridere alla vita. La tossicodipendenza non è il diabete, il drogato non è un malato cronico destinato a dipendere per tutta la vita dalla sua debolezza, da droghe alternative, che è più comodo chiamare farmaci, e da psicoterapia. Chi si annulla in una pastiglia o in una siringa ha paura di vivere, non di morire. La droga è il nascondiglio per sfuggire alle proprie paure, alla propria fragilità, alla mancanza di punti di riferimento, o di stimoli, o di interessi, alla difficoltà di vivere il confronto con noi stessi e con gli altri.
Mio padre mi ha insegnato che la cosa più importante che un essere umano possa fare è scegliere i valori umani su cui fondare la propria vita ed essere disposto a difenderli fino in fondo, senza compromessi, con vigore e coerenza. In una parola credo che mio padre mi abbia insegnato la dignità.
E’ per difendere la dignità dei ragazzi più disperati e fragili che vogliono uscire dall’emarginazione e dalla tossicodipendenza che mio padre ha creato San Patrignano ed è per questo che oggi continuiamo ad accoglierli nella nostra casa. E’ una scelta difficile, scomoda, che va rinnovata ogni giorno e che impone di dimenticare il più possibile noi stessi, i nostri piccoli egoismi, per aprirsi agli altri, amarli e vivere con e per loro.
Andrea Muccioli
Responsabile comunità San Patrignano