Il grande inganno di Srebenica

Nel momento in cui il genocidio fu commesso si trovavano in questa zona, proclamata protetta dall’Onu, le truppe internazionali olandesi con a capo il generale francese Janvier. Avrebbero avuto a disposizione mezzi a sufficienza ed anche aerei per fermare i macellai di Mlabic’, ma non si sono mossi. L’Europa e l’Onu condividono dunque una parte della responsabilità per questa ecatombe

 11 luglio 2005, fin dalle primissime ore del mattino sono in viaggio verso Srebrenica per assistere alla cerimonia funebre ed alla sepoltura delle 610 vittime riconosciute (su 8700) del genocidio del luglio 1995.

Giunti a circa 12 chilometri da Srebrenica, dopo continue fermate, blocchi stradali, perquisizioni personali e dei mezzi, siamo stati costretti a proseguire a piedi. Infatti, la marea di gente presente e l’elevatissimo numero di pulman avevano reso impossibile la circolazione dei mezzi lungo le strade. In aggiunta, secondo qualcuno, le forze di polizia della Republika Srpska (abitata prevalentemente da Serbi) avevano fatto in modo di rendere difficile, se non impossibile, l’accesso alla piccola cittadina. Io ed i miei intrepidi compagni di viaggio non ci siamo però demoralizzati e, zaino in spalla, ci siamo diretti, assieme ad una folla immensa di persone, verso Potocani, periferia di Srebrenica e luogo esatto della cerimonia.

Mentre accaldati, stanchi e un po’ preoccupati per la situazione ci incamminavamo verso il luogo della cerimonia, ho avuto modo di guardarmi attorno. Se non fosse stato per la presenza di un poliziotto armato ogni duecento metri e per gli sguardi vuoti, disperati ed ancora terrorizzati delle persone che erano in marcia con noi, non avrei mai potuto immaginare che quegli splendidi luoghi, ricchi di verde e circondati da dolci colline ricoperte da una fitta vegetazione, fossero stati il luogo di un’ atroce mattanza. Mi è sembrato impossibile e ancora non riesco a capire come sia stato possibile che si sia  potuto verificare quello che è accaduto e che molti dei responsabili non siano ancora stati giudicati da un tribunale.

Dieci anni fa, la mattina dell’ 11 luglio, da quelle stesse colline irruppero gli uomini di Ratko Mladic’ (comandante dell’esercito della Repubblica serba) i quali ben presto cominciarono a fare quello che si sperava non dovesse mai più accadere: uomini dai 14 ai 70 anni separati dalle loro famiglie e subito torturati, seviziati, fucilati o caricati su dei camion.

Un sopravissuto con il corpo ancora pieno di segni e con gli occhi inorriditi mi ha raccontato che molto spesso, siccome “fucilavano” gruppi di persone con la mitragliatrice dei carri armati si presentava loro un doppio lavoro: essendo la mitragliatrice di calibro troppo grosso mutilava i poveri corpi senza uccidere le persone, così  i soldati dovevano ripassare con una pistola per finire, con un colpo alla testa, quelle povere vittime devastate ed agonizzanti.

Alle donne, ai bambini ed ai vecchi certo non è toccata sorte  migliore visto che prima di essere cacciati dalla loro terra  verso la zona di Tuzla hanno dovuto subire stupri, botte e violenze che cuore e mente umana non riesce, o meglio non dovrebbe riuscire, a concepire.

Arrivati a questo punto della storia, con lo stomaco sottosopra ed accompagnati da un senso di smarrimento e di dolore ci si comincia ad interrogare su cosa abbiamo fatto noi occidentali per impedire questi orrendi fatti accaduti così poco tempo fa e così vicino a noi. Scoprire la risposta uccide la coscienza morale di ciascuno di noi:

è stato fatto poco o quasi nulla nonostante vi fossero le opportunità per operare in maniera più incisiva.

Nel marzo 1993 l’Onu era già perfettamente informata di come si stavano evolvendo le cose in quei territori e di quanti pericoli avrebbe corso la popolazione mussulmana se non ci si fosse mossi in fretta. Così, il generale francese Philippe Morillon, capo della forza di protezione ONU, recatosi a Srebrenica e resosi conto della situazione che stava degenerando, disse urlando attraverso un megafono: “voi ora siete sotto la protezione delle forze ONU”. Un mese dopo, nell’aprile 1993, il Consiglio di Sicurezza con una risoluzione rese la zona di Srebreniza (enclave mussulmana in territorio controllato dai Serbi) Safe Area (area protetta) sotto la protezione dei contingenti internazionali che con la garanzia della loro protezione si sono fatti consegnare tutte le armi dai mussulmani.

Ecco perché a partire del 1993 i mussulmani hanno iniziato a concentrasi nella zona (protetta) di Srebrenica; ecco perché hanno lasciato le loro case; ecco perché si sono sentiti per un po’ nuovamente al sicuro. Era stato detto e garantito loro che sarebbero stati protetti, che nulla di male sarebbe accaduto loro. Invece senza armi e senza capire bene quello che stava succedendo si sono trovati in una situazione così drammatica e confusa che qualcuno non ha stentato a definire big trick (grande inganno). Non si può certo dire che le forze Onu abbiano voluto organizzare una trappola, ma comunque non hanno aiutato la popolazione mussulmana in cerca dell’appoggio internazionale.

Nel momento in cui il genocidio fu commesso si trovavano in questa zona, come già detto proclamata protetta dall’Onu, le truppe internazionali olandesi con a capo il generale francese Janvier. Avrebbero avuto a disposizione mezzi a sufficienza ed anche aerei per fermare i macellai di Mlabic’, ma non si sono mossi. L’Europa e l’Onu condividono dunque una parte della responsabilità per questa ecatombe.

A Srebrenica l’11 luglio 2005 c’erano le diplomazie di tutto il mondo che con la retorica dei buoni sentimenti si sono definite dispiaciute ed esterrefatte per l’accaduto. Tra le mille ipocrite ed inutili parole pronunciate da capi di stato, ministri, ambasciatori, consoli, rappresentanti diplomatici sono echeggiati tra quelle valli il silenzio di Ben Bot (ministro degli esteri olandese) e le parole di Mark Malloch Brown (capo di gabinetto di Kofi Annan) che ha definito Srebrenica: “una vergogna che rimarrà nella storia delle Nazioni Unite”

Non a caso la foto che segue è diventata il simbolo dei gravi fatti di Srebrenica.

Tuzla 1995: il corpo di Frida Osmanovic nel bosco vicino alla base dell’Onu. Questa donna si è impiccata perché ha fermato il marito che voleva scappare e l’ha costretto ad andare con lei a Srebrenica convinta che l’Onu avrebbe operato con fermezza in loro difesa: non ha retto al rimorso.

 Matteo Corrado
Istituto internazionale di Studi sui diritti dell’uomo

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