Una grave malattia invalidante, la perdita di un arto, di una funzione sensoriale cruciale, o di una funzione critica quale quella compromessa da una insufficienza renale cronica, viene vissuta come una lacerazione della proprio persona, come un vulnus all’integrità della propria immagine, della propria identità personale
1. Premessa.
Nello scenario delle cure ospedaliere, il paziente in trattamento dialitico rappresenta un testimone prezioso per la comprensione della relazione psicologica ed esistenziale dell’ uomo alla malattia e per la conoscenza dei meccanismi di adattamento e di disadattamento agli eventi morbosi cronici.La particolarità del punto di osservazione-testimonianza del paziente in dialisi cronica, si può ricondurre alla contemporanea intersezione di almeno 5 fattori principali:
q L’incontro con la compromissione pressoché totale di una funzione primaria quale la funzione renale e l’eliminazione urinaria, con tutto ciò che comportano, sul versante della percezione di una grave perdita corporea, ( non dimentichiamo l’importanza della dimensione simbolica connessa alla minzione);
q l’intensità delle cure che coinvolge il paziente per almeno 12 ore di trattamento settimanale;
q la continuità temporale delle cure che copre, sempre più, un arco importante delle vita del singolo ( con una durata media di almeno 10 anni, con una gamma che può spaziare da pochi mesi sino ad oltre 30 anni) e la concomitante vicinanza con un personale sanitario, (medici ed infermieri) che entra nell’immaginario della familiarità e della intersoggettività;
q l’incrocio della corporeità con la tecnologia ( con la macchina dialitica e con la sua dipendenza) che mette in luce il rapporto sempre enigmatico dell’ uomo con l’ artefatto incluso nel corpo;
q l’opzione possibile del trapianto come soluzione alle volte vissuta come immaginariamente risolutiva dello stato di malattia.
2. Perdita della funzione renale ed elaborazione del lutto corporeo.
Ogni persona di fronte ad una perdita, sia essa la perdita di una persona cara, la perdita di un organo vitale ed anche la prospettiva imminente delle perdita più grave e ciò della propria vita, mette in moto una articolazione complessa di pensieri, emozioni e atteggiamenti mentali e comportamentali che comunemente chiamiamo meccanismi di sicurezza ( preventivi ) e di difesa (riparativi).Questo processo che tutti noi sperimentiamo nella nostra vita, nella perdita di un amore, di un proprio caro, di una importante realizzazione personale, è una diretta conseguenza del fatto che noi stessi siamo il frutto di una costruzione psicologica , il nostro essere, il nostro SÉ che il risultato delle successive identificazioni con le persone care della nostra infanzia , i genitori, i fratelli, i nonni, gli amici, gli insegnanti e molti altri ancora che per un legame fondamentale chiamato processo di attaccamento primario e secondario, hanno rappresentato, accanto alle nostre esperienze originali, i mattoni fondamentali della edificazione della nostra identità personale, della nostra personalità, in concreto del nostro essere.Ogni investimento identificatorio, però, ogni parte psicologica di noi stessi non è solo una costruzione cognitiva, ma sempre anche una costruzione affettiva ed emotiva. Ogni perdita, perciò, reale, simbolica o immaginaria è percepita dai noi stessi come una perdita dolorosa di una parte (psicologica) di noi stessi. Spesso nei colloqui di elaborazione del lutto persone che hanno perso un proprio caro primario, padre, madre o figlio, raccontano la propria esperienza di fronte alla morte come uno strappo grave di una parte del proprio corpo, un braccio, gli occhi, il cuore, ecc.Simmetricamente una grave malattia invalidante, la perdita di una arto, di una funzione sensoriale cruciale, o di una funzione critica quale quella compromessa da una insufficienza renale cronica, viene vissuta come una lacerazione della propria persona, come un vulnus alla integrità della propria immagine, della propria identità personale.Ora, nessuno può vivere il dolore intenso di una perdita grave allo stato puro dell’ emozione. Ciascuno, e la nostra mente ne fornisce le risorse, deve mettere in moto dei sistemi difensivi, delle contromisure per non soccombere, per non frammentarsi, comunemente per non cedere alla follia…I modi con i quali ci difendiamo da un lutto insopportabile, sono similari in diverse situazioni ed in diversi scenari della nostra vita.Ciò che la KÜBLER-ROSS ( 1970) nel suo fondamentale La morte ed il morire, del 1970, ha scoperto quale itinerario psicologico del paziente nei confronti della propria morte, lo ritroviamo , come sistema psicologico difensivo, anche nei confronti della perdita di una parte vitale del nostro corpo. È anche il caso del grave nefropatico in trattamento dialitico.Il paziente che sperimenta una insufficienza renale cronica e che è costretto, per la propria sopravvivenza, ad entrare in dialisi, (alle volte con tempi di preparazione mentale molto ristretti), si trova di fronte ad una catastrofe cognitiva ed emozionale che lo coinvolge totalmente, sino ad annichilire le sue risorse personali, i suoi progetti verso il futuro, l’ intensità dei legami affettivi, in una parola il suo essere al mondo.Così il paziente che entra in dialisi, entra nella dimensione esistenziale più difficile da sostenere e cioè entra nello stato d’ angoscia , che è rappresentato e vissuto come un’ ansia pervasiva, totalizzante, uno stato di obnubilamento doloroso, acuto ed insopportabile, una paura spesso percepita come devastante. La mente umana non può sopportare a lungo uno stato simile, cosicché entrano in campo, anche per il malato cronico, i meccanismi di difesa e di autorassicurazione illuminati dalla KÜBLER-ROSS.
2.1 La negazione della malattia.
Il paziente, di fronte alla comunicazione del suo stato grave di salute ed alla necessità di attivare un trattamento dialitico, può rifiutare il suo stato, negare l’evidenza dei dati clinici, rifuggire dal prendere consapevolezza del proprio malessere e misconoscere la gravità del male.Ci sono pazienti che di fronte all’evidenza del proprio stato severo di malattia, non rinunciano a perseguire sino alla morte la propria ignoranza nei confronti del proprio male. È nota del resto la resistenza del fumatore cardiopatico a rinunciare al piacere del fumo o la riluttanza del diabetico a evitare dolci ed alcool o la difficoltà dello stesso paziente in dialisi a regolamentare l’assunzione di liquidi o frutta dissetante.La negazione della gravità del proprio stato di salute non può però durare a lungo. Le evidenze cliniche sono lì a testimoniare l’irreversibilità della situazione: è necessario fare i conti con il male sino in fondo, e non è certamente facile!Ricordo un paziente con familiarità per insufficienza renale cronica, che pur conoscendo la gravità del suo male e pur sapendo che il suo stile di vita e soprattutto i propri abusi alimentari avrebbero accelerato e compromesso precocemente il suo stato di salute avviandolo alla dialisi, si è impegnato in una rimozione psicologica della consapevolezza del suo male, incrementando sempre più nella sua vita il disordine e la sregolatezza. Negare l’evidenza, vivere come se non fosse vero, illudersi sulla inconsistenza dei dati clinici, rifiutare la diagnosi, costa sempre molto caro ed è inevitabile, molto presto, fare i conti con la verità.
2.2 La rabbia.
Al fallimento del meccanismo psicologico della negazione, di fronte alla inconsistenza del proprio tentativo di rifiutare la malattia e di evitare la sofferenza, il paziente prende consapevolezza del proprio male ma lo rifiuta apertamente rivolgendosi aggressivamente verso il mondo intero. È il momento della ricerca di un capro espiatorio: la colpa è dell’altro. È colpevole il medico che non ha fatto una diagnosi precoce, che non ha saputo trovare in tempo le cure giuste, che ha maldestramente sottovalutato certi elementi importanti o che colpevolmente, secondo il paziente, ha prescritto cure sbagliate o inefficaci.È colpevole alle volte il genitore, a sua volta malato renale, perché gli dato la vita e la sofferenza conseguente.È colpevole il Padre Eterno che ha voluto colpire proprio lui con quella malattia. E poi ancora, sono colpevoli i famigliari che non comprendono, che sono ingrati, che non sanno capire quanto sofferenza il paziente stia vivendo.La rabbia, la collera, l’aggressività non sempre sono però verbalizzate ed esplosive. Spesso la rabbia, il rancore e perfino l’odio per chi è fortunato in salute si manifestano silenziosamente in quegli stati di isolamento rancoroso e delusivo che sperimentano certi pazienti a seguito della comunicazione di una diagnosi infausta. Di fronte al senso di impotenza e di perdita del controllo emotivo della situazione la rabbia è una via psicologica di uscita, anche se purtroppo disarmonizzante e disadattiva.
2.3 Il patteggiamento psicologico.
Il paziente comincia a fare i conti con il suo futuro. La terapia dialitica dà sollievo, ma può permanere per molti anni ancora un rifiuto psicologico della cura a cui il paziente comunque è costretto ad assoggettarsi.Cominciano così i patteggiamenti interiori, il mercanteggiamento con Dio o con la Vita di un scambio possibile: riconquistare la funzionalità renale, evitare la dialisi, guarire.. in cambio di … una promessa a Dio, un voto, una rinuncia importante…Si propongono in questa fase la speranza del miracolo in cambio di penitenze e privazioni importanti. In cambio della guarigione il paziente si aggrappa ad ogni filo di speranza sino a ricorrere alle volte a percorsi magici o rituali.La speranza, l’illusione, il sogno connotano questa fase di patteggiamento psicologico, fase comunque votata all’insuccesso, soprattutto quando anche la possibilità di un trapianto viene delusa.
2.4 La depressione.
Inevitabilmente, prima o dopo, ogni paziente che entra in dialisi incontra una fase depressiva. È inevitabile! Ed è anche segno di normalità psicologica sperimentare l’esperienza delusiva di fronte alla perdita grave della propria salute. È una esperienza di separazione psicologica da un bene vitale come la propria salute.Il paziente si ritrae nelle sensazioni del proprio corpo, diventa attento alle percezioni dolorose o di disagio che la propria corporeità invia: ogni percezione negativa è segno di aggravamento del proprio stato, ogni indizio (ad esempio una disfunzionalità della fistola) viene interpretato con angoscia e dolore.
MARCELLO TAMBURLINI ( 2000) dal suo punto di ascolto dei pazienti oncologici, ha evidenziato nella fase psicologica della depressione conseguente ad un lutto corporeo due dimensioni fondamentali:
q una depressione reattiva
q una depressione preparatoria
2.4.1 Depressione reattiva: “ Reattiva a una sconfitta su tutti i fronti, per tutto quello che si è perso, per il sopravvento che una malattia ed il suo strascico sintomatologico può prendere su ogni aspetto del vivere. Perdita dei rapporti sociali, perdita della vita relazionale, perdita dell’autonomia sia fisica che decisionale, perdita della propria immagine corporea, ecc.”
2.4.1 Depressione preparatoria: “ Depressione preparatoria è, invece, funzione delle perdite che si stanno per subire, dagli oggetti affettivi alla propria vita. Paura dell’ignoto e dell’abbandono emotivo ed assistenziale. Consapevolezza del proprio avvicinarsi alla morte e delle difficoltà di relazione che questo provoca nel proprio ambiente familiare, ma anche sanitario.Nella nostra U.O. di Nefrologia e Dialisi, il momento depressivo iniziale all’entrata in dialisi o ricorrente durante il trattamento è uno dei campi privilegiati dell’intervento psicologico. L’elaborazione depressiva del proprio stato di salute, spesso complicato da concomitanti eventi di sofferenza familiare, necessita di un supporto di accettazione e di ascolto importante da parte del personale sanitario e dello psicologo del reparto. La ricostruzione della speranza, il potenziamento degli eventi e dei fattori che rendono la vita qualitativamente accettabile e vivibile, sono le strategie che vengono utilizzate, accanto ai farmaci per contrastare il richiudersi del paziente nel mondo delusivo della depressione.Naturalmente non si tratta di sostituire illusioni e false speranze alla normale perdita di senso conseguente ad una grave malattia, ma si tratta di aprire gli orizzonti della speranza nei confronti di una vita, anche lunga, resa possibile da trattamento dialitico, che merita di essere arricchita di senso, di valore, di piacevolezza anche nelle situazioni più difficili e insperate.
2.4 L’accettazione.
Accettare il proprio destino, accettare le cure, attenersi alle prescrizioni dietetiche e comportamentali sono il segno di uno stato psicologico fondamentale che possiamo riconoscere come rassegnazione.La rassegnazione consapevole è, per il paziente in dialisi, la condizione migliore per la qualità futura della sua vita. È un segno che ritroviamo spesso anche nei nostri pazienti di lunga assistenza. Dopo le varie fasi di accomodamento psicologico e di difesa, il paziente riesce a convivere con il suo male e con il trattamento. Sa organizzare la propria vita, accettare i vincoli della cura ed aprirsi, di nuovo, al mondo degli affetti e della vita sociale.La maggioranza dei nostri pazienti è in età pensionabile. Alcuni sono molto giovani, molti sono in età matura. Per tutti però la sperimentazione psicologica di una rassegnazione consapevole è il miglior modo per vivere ancora a lungo, tramite e nonostante la dialisi.
Dr Gelindo Castellarin
Psicologo Psicoterapeuta -Psicoanalista SLP
Ambulatorio di Psicologia e Psicoterapia
ASS N. 4 ” Medio Friuli”
DIPARTIMENTO DI MEDICINA
UNITA’ OPERATIVA di Nefrologia e Dialisi
Responsabile dr. M. Adorati Menegato