La fabbrica dei divorzi

La società occidentale, le madri preoccupate dell’avvenire dei loro figli e i padri che vorrebbero continuare a svolgere il loro ruolo, guardano con crescente preoccupazione alla temibile alleanza tra le donne divorziste e una delle più potenti lobby contemporanee 

“Buttatelo per la strada e tirategli dietro i suoi vestiti… non dovete preoccuparvi dei suoi diritti. Il vostro lavoro non è quello di prendere a cuore i diritti costituzionali dell’uomo che state calpestando”. L’individuo da trattare in questo modo è il padre di famiglia, la cui moglie abbia chiesto il divorzio e l’affidamento dei figli. E a fare questa raccomandazione è Richard Russel, giudice della corte municipale del New Jersey, nelle istruzioni impartite in un seminario di formazione, nel 1994.

La minaccia più grande, non tanto per la vita dei padri, ma per la stessa sopravvivenza della famiglia, nell’Occidente contemporaneo è infatti il funzionamento, marcatamente antipaterno, di quella che chiameremo la fabbrica dei divorzi. Un organismo multiforme, dotato di enorme potere e influenza, che impiega e muove una buona fetta del reddito nazionale per disperdere le famiglie esistenti.

In questa “fabbrica”, che in realtà distrugge anziché costruire, le decisioni più rilevanti appaiono prese dai giudici delle sezioni per il diritto di famiglia, o dai tribunali dei minorenni, là dove sono operanti. Questi decreti, o sentenze, sono però accompagnati da una molteplicità di altre delibere. Le più rilevanti vengono prese dalle Commissioni per la giustizia dei vari parlamenti. Ma moltissime altre, che possono decidere della vita di una famiglia e dei figli, dipendono da un vero esercito di impiegati della fabbrica dei divorzi, cui appartengono psicologi, assistenti sociali, periti di vario genere, amministratori di una quantità di enti.

La società occidentale, le madri preoccupate dell’avvenire dei loro figli, i padri che vorrebbero continuare a svolgere il loro ruolo, guardano con crescente preoccupazione alla temibile alleanza tra le donne divorziste e una delle più potenti lobby contemporanee, quella che abbiamo qui chiamato: fabbrica dei divorzi. Un apparato ormai esperto nell’utilizzare gli apparati di potere dello Stato, per distruggere la cellula base della società: la famiglia.

Nell’insieme dei paesi occidentali, come nota Sanford Braver, psicologo all’Università di Stato dell’Arizona, circa il 70% delle rotture matrimoniali avviene per iniziativa femminile. Alla rottura del matrimonio, la madre è spinta sovente, e sempre poi sostenuta, dal variegato gruppo di operatori interessati nella fabbrica dei divorzi. Il fenomeno non è difficile da capire: la rottura della famiglia è lo strumento indispensabile perché l’attività di coloro che Michel Foucault chiamava “gli ortopedici dell’anima”, generalmente stipendiati dalla fabbrica dei divorzi, possa dispiegarsi efficacemente e moltiplicarsi in modo redditizio. Nei soli Stati Uniti, tre su cinque rotture familiari coinvolgono bambini: più di un milione di bimbi americani all’anno vengono dunque presi dagli ingranaggi della fabbrica dei divorzi.

Anche in Italia a chiedere la fine dell’unione matrimoniale sono soprattutto le donne, in misura non diversa dal dato medio occidentale. Secondo l’Istat “nel 1998 le domande di separazione presentate dalla moglie costituiscono il 67,9% dei casi, più del doppio di quelle presentate dal marito (32,1%)”. L’aspetto dell’autonomia economica della moglie, che si separa più facilmente se il marito non è al suo livello di reddito, sembra rilevante: “Nel caso in cui la donna sia occupata, la percentuale si eleva al 69,8%, mentre se è casalinga scende al 66,6%.

 

Claudio Risè
psicoanalista junghiano, giornalista, professore di Sociologia dei processi culturali e di comunicazione dell’Università di Scienze di Varese, docente in polemologia presso l’università di Trieste

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