Uno sguardo teologico sulla procreazione umana

di Joseph Ratzinger

«Riproduzione» e «procreazione»: il problema filosofico delle due terminologie

Che cos’è l’uomo? Questa domanda, che suona forse un pò troppo fi­losofica, ha acquistato una diversa attualità, da quando è diventato possibile «fabbricare» l’uomo o meglio—secondo la terminologia tecnica—riprodurlo «in vitro». Questo nuovo potere, che l’uomo si è conquistato, ha portato con sé anche un nuovo linguaggio. Mentre l’origine dell’uomo veniva finora espressa attraverso i concetti di «generazione» e di «concezione» e la teologia ne comprendeva il processo complessivo nel concetto di «procreazione umana», ora sembra che la parola «riproduzione» sia in grado di descrivere con maggior precisione la trasmissione della vita umana.

Non si creda che le due terminologie debbano necessariamente escludersi a vicenda; ognuna di esse corrisponde ad un diverso modo di vedere le cose e, di conseguenza, presta attenzione a differenti aspetti della realtà. E tuttavia il linguaggio è inevitabilmente intenzionato al tutto; diffìcilmente può essere negato che proprio attraverso il confronto reciproco delle parole vengono evidenziati i problemi più fondamentali: risuonano qui, infatti, due diverse concezioni dell’uomo, due differenti modi di interpretare la realtà.

Tentiamo, innanzitutto, di comprendere il nuovo linguaggio a partire dalle sue stesse radici immanenti alla scienza, in modo da poter poi affrontare con la dovuta cautela un problema così vasto. Il termine «riproduzione» indica il processo della formazione di un nuovo essere umano, a partire dalle conoscenze della biologia circa le proprietà degli organismi viventi: ad essi infatti spetta—a differenza degli artefatti—la caratteristica del potersi  «riprodurre». Jacques Monod, ad esempio, individua tre precise caratteristiche di un essere vivente: una propria immanente teleonomia, un’autonoma morfoge­nesi e una invarianza nella riproduzione .

Vi è una particolare insistenza su tale invarianza: il codice genetico, una volta stabilito, viene sempre di nuovo «riprodotto» senza mutazioni; ogni nuovo individuo è un’esatta ripetizione dell’identico «messaggio».

«Riproduzione» esprime quindi in primo luogo l’identità genetica: l’individuo «riproduce» solo e sempre di nuovo ciò che è comune; in secondo luogo tale termine rimanda anche al carattere meccanico, secondo cui una tale riproduzione si compie, Jéróme Léjeune, illustre genetista francese che riconosce pienamente e difende la dignità specifica della procreazione, ha così sinteticamente espresso ciò che è essenziale dal punto di vista scientifico nell’avvenimento di una «riproduzione» umana: «I bambini sono stabilmente uniti ai loro genitori attraverso un legame materiale, la lunga molecola di DNA su cui si trova inscritta tutta l’informazione genetica in un linguaggio invariabilmente miniaturizzato. Nella testa di uno spermatozoo si trova un metro di DNA, tagliato in 23 spezzoni. Ciascuno di essi è minuziosamente ripiegato a spirale per formare dei piccoli bastoncini, ben visibili con un ordinario microscopio: i cromosomi. Non appena i 23 cromosomi paterni, recati dallo spermatozoo, e i 23 cromosomi materni, contenuti nell’ovulo, si sono uniti, si trova già raccolta tutta l’informazione necessaria e sufficiente per determinare la costituzione genetica del nuovo essere umano» .

La «riproduzione» della specie umana si compie attraverso l’unione di due nastri dì informazioni, così almeno possiamo affermare in modo piuttosto sommario. La correttezza di questa descrizione è fuori dubbio, dobbiamo però chiederci se essa è anche esauriente. Si impongono qui immediatamente due domande: l’essere che viene in tal modo riprodotto è solo un altro individuo, un esemplare riprodotto della specie «uomo»—oppure esso è qualcosa di più: una persona, cioè un essere che, se da una parte rappresenta senza variazioni ciò che è comune nella specie umana, dall’altra è però qualcosa di nuovo, di originale, di non riproducibile, con una singolarità, che va oltre la mera individualizzazione di un’essenza comune? E se è così, da dove viene questa singolarità?

Con tale questione è connessa anche la seconda domanda: in che modo giungono ad incontrarsi reciprocamente i due nastri di informazioni? Questa domanda, all’apparenza quasi fin troppo semplice, è diventata oggi quel luogo della decisione cruciale, nel quale non solo si separano le teorie sull’uomo, ma la prassi diventa incarnazione di teorie, conferendo loro tutta l’intensità e la drammaticità che le caratterizzano. La risposta sembra, a prima vista, la cosa più ovvia del mondo: le due serie di informazioni, che si completano reciprocamente, vengono ad incontrarsi mediante l’unione di uomo e donna, attraverso il loro «diventare-una-sola-carne», secondo l’espressione della Bibbia. Il processo biologico della «riproduzione» è collocato all’interno dell’avvenimento personale della reciproca donazione, insieme corporea e spirituale, di due persone.

Ma tuttavia, dal momento che si è riusciti a isolare in laboratorio per così dire la parte biochimica del tutto, ecco che è sorta la questione: in che misura è necessaria questa connessione? Si tratta di qualcosa che è per se stesso essenziale all’evento, che cioè deve essere così e non può non esserci, oppure si tratta solo—per dirla con Hegel—di un’astuzia della natura, che si serve dell’inclinazione reciproca dell’uomo e della donna in modo del tutto analogo a quello in cui, nel mondo vegetale, vengono usati come veicoli di trasporto dei semi il vento oppure le api e simili?

Si può distinguere e isolare, all’interno del fenomeno, un momento centrale come fattore essenziale e unicamente importante rispetto al modo meramente fattuale dell’unione e, di conseguenza, si può sostituire il procedimento naturale con altri metodi, pilotati razionalmente? Sorgono a questo punto differenti e opposte questioni: è possibile designare la reciprocità tra uomo e donna come un fenomeno puramente naturale, in cui forse la reciproca inclinazione spirituale dei due sarebbe solo un’astuzia della natura, che proprio in ciò li inganna, nel fatto che non si tratta di persone, ma solo di individui di una specie? Oppure non si dovrebbe forse al contrario affermare: con l’amore di due persone e con la libertà spirituale, da cui esso sorge, viene alla luce una nuova dimensione della realtà, alla quale corrisponde il fatto che anche il bambino non è una mera ripetizione di una informazione senza varianti, ma è persona, nella novità e nella libertà dell’io, che egli rappresenta un nuovo centro nel mondo? Non si dovrebbe definire semplicemente come cieco chi nega questa novità e riduce tutto a puro meccanicismo, e, per poterlo fare, è poi costretto a escogitare il mito irrazionale e crudele di una natura astuta?

Un’ulteriore questione, che rimane insoluta, parte da una constatazione: è evidente che oggi si può isolare il processo biochimico in laboratorio e in tal modo combinare tra di loro le due informazioni genetiche.

La connessione di tale processo biochimico con un evento di natura spirituale personale non può dunque essere definita attraverso quel tipo di «necessità», che vale nell’ambito della fisica: può accadere anche diversamente. Tuttavia la questione è se non esista un altro tipo di «necessità», diversa da quella di una mera legge della natura. Anche se dal punto di vista tecnico è possibile separare l’aspetto personale da quello biologico, non c’è forse una forma più profonda di inseparabilità, una più alta «necessità» in favore della connessione dei due aspetti? Non si è forse in realtà già negato l’uomo, se si riconosce come necessità solo quella propria della legge della natura e non invece la necessità etica, che affida alla libertà un dovere?

In altre parole: se io considero come qualcosa di reale unicamente la «riproduzione» e giudico tutto ciò, che oltrepassa questo livello e che viene espresso nel concetto di «procreazione», come pertinente ad un linguaggio inesatto e scientificamente irrilevante, non ho forse io in tal modo negato l’esistenza di ciò che è specificamente umano nell’uomo? Ma allora chi discute ancora veramente con qualcuno e che cosa serve parlare ancora della razionalità del laboratorio e della stessa razionalità della scienza?

A partire da queste riflessioni possiamo ora affrontare il problema preciso, che forma l’oggetto dì questa trattazione: come mai l’origine di un nuovo essere umano è qualcosa di più di una «riproduzione»? In che cosa consiste questo «di più»? Quali conseguenze etiche derivano da questo «di più»? Come abbiamo già accennato, tale domanda ha assunto un’attualità nuova e scottante, da quando è diventato possibile «riprodurre» l’uomo in un laboratorio, a prescindere da una donazione interpersonale, senza un’unione corporea tra uomo e donna. Oggi, da un punto di vista fattuale, è diventato possibile separare l’evento naturale-personale dell’unione di uomo e donna dal processo puramente biologico. Secondo la convinzione della morale trasmessa dalla Chiesa e fondata sulla Bibbia, a questa possibilità fattuale di separazione si contrappone un’inseparabilità etica. Da entrambi i lati entrano in gioco, a questo punto, decisioni spirituali fondamentali: anche ciò che si fa nel laboratorio non è affatto conseguenza di premesse puramente mec­canicistiche, ma è piuttosto frutto di una scelta che deriva da una concezione basilare del mondo e dell’uomo. Prima di procedere oltre in modo solo argomentativo può essere utile tentare di gettare, a partire da qui, un doppio sguardo all’indietro nella storia. In primo luogo cercheremo di evidenziare qualche aspetto della preistoria culturale dell’idea di «riproduzione» artificiale; la seconda prospettiva storica dovrà rivolgersi invece alla testimonianza biblica sul nostro problema.

Dialogo con la storia

L’«Homunculus» nella storia della cultura  

II pensiero di poter «fabbricare» l’uomo, ha forse trovato la sua prima espressione nel giudaismo della cabala, con l’idea del Golem. Ad essa è sottesa l’altra idea, formulata nel libro di Jezira (circa 500 d.C), de! potere creativo dei numeri: attraverso la recitazione ordinata di tutte le combinazioni pensabili delle lettere della creazione, si riesce finalmente a produrre l’«homunculus», il Golem. Fin dal XIII secolo nasce, in connessione con quest’idea il pensiero della morte di Dio: l’Homunculus così prodotto, avrebbe strappato dalla parola Emeth (verità) l’alef, la prima delle lettere dell’alfabeto ebraico. E così sulla sua fronte, al posto dell’iscrizione «Jahwe – Dio è verità», starebbe il nuovo motto: «Dio è morto». Il Golem spiega questo nuovo motto con un paragone, che—riassunto sinteticamente—così conclude: «Se voi, come Dio, potete creare un uomo, allora si può dire: non vi è al mondo nessun altro Dio all’infuori di questo…». «Creare» è posto in connessione  «potere»; il potere è ora nelle mani di coloro che possono produrre gli uomini, essi acquisendo un tale potere hanno preso il posto di  Dio, che e dunque scomparso dall’orizzonte visivo dell’uomo.Rimane la domanda se questi nuovi detentori del potere, che hanno trovato le chiavi del linguaggio della creazione e che ora possono da soli combinare gli elementi basilari che lo costituiscono, si ricorderanno che il loro fare è possibile solo perché esistono già i numeri e le lettere, le cui informazioni essi sono ora divenuti capaci di mettere insieme.

La più nota variante dell’idea di Homunculus si trova nella seconda par­te del Faust di Goethe. Wagner, il discepolo fanatico della scienza del gran-Dottor Faust, è riuscito, in sua assenza, ad ottenere il capolavoro. Il «padre» di questa nuova arte non è dunque lo spirito, proteso alle grandi cose e che ricerca il senso del tutto, ma piuttosto il positivista che impara e applica, così come potrebbe essere ben caratterizzato Wagner. Ciò nonostante l’omiciattolo dell’alambicco, dalla provetta in cui si trova, riconosce subito in Mefistofele il suo cugino: in tal modo Goethe stabilisce un’intima parentela tra il mondo artificiale e autoprodottosi del positivismo e lo spirito della negazione. Veramente, per Wagner e per il suo modello di razionalità, è proprio questo il momento del massimo trionfo:

«Dio ce ne guardi! Per noi il modo antico di

procreare è una sciocchezza.

L’animale ci trova ancora gusto

ma l’uomo con le sue capacità grandiose

avrà più alta, molto più alta origine».

    E un po’ più avanti:

«Ma del caso noi potremo, un giorno, riderne: e

un cervello che debba pensare esattamente lo

farà, un giorno, un pensatore.

Noi che cosa vogliamo, il mondo che vuole di più? Il

mistero è alla luce del giorno».

In questi versi Goethe mette chiaramente in risalto due forze motrici presenti nel tentativo di produrre artificialmente l’uomo. Con ciò egli vuole anche criticare un certo tipo di scienza della natura che rifiuta, percependola come «wagneriana»: in primo piano si colloca il desiderio di svelare i misteri, di comprendere i! segreto del mondo e di ridurlo ad una piatta razionalità, che vuole documentarsi attraverso il poter-fare. Oltre a ciò Goethe vede all’opera anche un disprezzo della «natura» e della sua più grande e misteriosa ragione in favore di una razionalità programmatrice e calcolatrice. Il simbolo della angustia, della falsità e della secondarietà di questo tipo di ragione e delle sue creazioni è la provetta; l’homunculus vive «in vitro»:

«Perché cosi vanno le cose:

a quel che è naturale il mondo basta appena,

esige spazio chiuso, invece, ciò che è artificiale».

Il pronostico di Goethe è che la provetta—la parete artificiale—ad un certo momento finirà con l’infrangersi contro la realtà; la riproduzione autoprodotta dovrà un giorno naufragare contro la natura originale, contro la realtà autentica delle cose. Così essa verrà rivelata nella sua meschinità: Homunculus rimane realmente un «omiciattolo» e rappresenta in tal modo un’allegoria dello spirito che lo ha prodotto, e di quella riduzione dell’essere, della quale egli vive.

Ormai alla vigilia di questa realizzazione nel 1932, Aldous Huxley ha delineato la sua utopia negativa de Il mondo nuovo . E chiaro che, in questo mondo definitivamente e completamente scientificizzato, gli uomini potrebbero ancora venir prodotti solo nel laboratorio. L’uomo si è definitivamente emancipato dalla sua natura; egli non vuole più essere una creatura naturale. Ognuno sarà composto—a seconda del bisogno—in un laboratorio, in vista della funzione che dovrà svolgere. Da gran tempo ormai la sessualità non ha più nulla a che fare con la propagazione della specie umana; anche solo il ricordo di ciò diventa quasi un’offesa per l’uomo programmato. Avendo perso la sua funzione originaria la sessualità è ora solo un elemento di narcosi, con cui la vita diventa sopportabile, una specie di siepe positivistica per proteggere la coscienza dell’uomo e far sì che siano eliminate le domande che provengono dal profondo del suo essere. Di conseguenza è chiaro che la sessualità non può aver più nulla a che fare con legami personali, con la fedeltà e l’amore—ciò sarebbe ricondurre l’uomo, ancora una volta, nei vecchi ambiti della sua esistenza personale. In questo nuovo mondo non c’è più nessun dolore, più nessuna preoccupazione, ma solo razionalità ed ebbrezza; tutto e per tutti viene programmato. La domanda diventa ora questa: chi è il soggetto di questa ragione programmatrice? E’ il «Consiglio di amministrazione mondiale»; il governo della razionalità rende così evidente la sua profonda irrazionalità. Huxley aveva scritto il suo libro, secondo quanto egli stesso annotava nel 1949, come un esteta scettico, che vede l’uomo collocato tra le alternative del delirio e dell’insensatezza, dell’utopia scientista e della superstizione barbarica . Già nella sua prefazione del 1949 e poi di nuovo nel saggio Ritorno al nuovo mondo del 1958 egli mostra chiaramente che la sua opera va compresa come una perorazione in favore della libertà—come un appello agli uomini perché ricerchino quella via stretta che passa tra il delirio e l’insensatezza, cioè l’esistenza nella libertà. Naturalmente Huxley è più preciso e convincente nella sua parte critica di quanto non lo sia nelle proposte positive, che egli ha sviluppato in un modo piuttosto generico.

Tuttavia egli mostra chiaramente almeno una cosa: il mondo della pianificazione razionale, della «riproduzione» dell’uomo organizzata e diretta scientificamente non è per nulla il mondo della libertà. Al contrario, proprio il fatto che l’origine dell’uomo sia ridotta alla riproduzione, è espressione della negazione della libertà personale: la riproduzione è montaggio di elementi necessitanti; il suo mondo è quella realtà descritta dalla cabala—una combinazione a partire da lettere e numeri; chi conosce il suo codice, ha potere sull’universo. E’ forse solamente un caso che finora non si dia nessuna visione poetica positiva di un futuro, nel quale l’uomo sarà riprodotto «in vitro»? Oppure non dobbiamo forse riconoscere che ciò avviene perché in un tale principio si trova l’interiore negazione e, ultimamente, l’eliminazione di quella dimensione dell’uomo che viene alla luce nella poesia?

L’origine dell’uomo secondo la testimonianza della Bibbia

Dopo questo accenno ai più noti precedenti storici dell’ideologia della riproduzione, possiamo ora rivolgerci a quell’opera, che è la fonte decisiva per l’idea della procreazione dell’uomo: la Bibbia. Neppure per questo punto è possibile sviluppare in questa sede un’analisi esauriente, ma solo gettare un primo sguardo su alcune delle affermazioni bibliche più caratteristiche per questo tema. A tale fine possiamo limitarci essenzialmente ai primi capitoli del libro della Genesi, in cui vengono posti gli elementi fondamentali dell’immagine biblica dell’uomo e della creazione.

Un primo punto essenziale è formulato in maniera molto precisa nelle Omelie sulla Genesi di San Gregorio di Nissa: «Ma l’uomo, come è stato fatto? Dio non ha detto per lui: ‘Sia fatto l’uomo’… La creazione dell’uomo è un evento più alto di tutti gli altri. ‘Il Signore prese…’. Egli vuole formare il nostro stesso corpo con le sue stesse mani» . Dovremo ritornare su questo testo, quando si parlerà non più solo del primo uomo, ma di ciascun uomo; si mostrerà così che la Bibbia mette in evidenza a proposito del primo uomo, ciò che—secondo la sua convinzione—vale per ciascun uomo. A questa immagine delle mani di Dio, che formano l’uomo dalla terra, corrisponde, nel più recente racconto della creazione proprio del cosiddetto documento sacerdotale, un’altra affermazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» (Gen 1,26). In entrambi i casi l’intento è quello di far apparire che l’uomo è creatura di Dio secondo una modalità specifica; in entrambi i casi si tratta di mostrare che egli non è appena un esemplare all’interno di una classe di esseri viventi, ma che egli è invece qualcosa di nuovo rispetto ad essi, che nella sua origine avviene qualcosa di più di una semplice riproduzione e cioè: un nuovo inizio, che va oltre tutte le combinazioni del materiale informativo già dato, che presuppone qualcosa di diverso—«il» diverso—e così ci insegna a pensare «Dio». Tanto più importante è allora che fin dall’atto creativo venga detto: uomo e donna li creò. Diversamente che per gli animali e le piante, dove viene impartito solo l’ordine di moltiplicarsi, in questo caso la fecondità è esplicitamente legata all’essere uomo e donna. Il risalto dato all’atto creativo da parte di Dio lungi dal rendere superflua la reciprocità umana, le conferisce anzi tutto il suo valore: proprio perché qui entra in gioco Dio stesso, il «trasporto» dei cromosomi non può essere realizzato in un modo qualsiasi; proprio per questo la via per un tale intervento creativo deve essere degna. Secondo la Bibbia questa via degna è solo una: il diventare una sola cosa di uomo e donna, il loro diventare «una sola carne».

In tal modo ci siamo imbattuti in due importanti espressioni proprie del linguaggio biblico, che devono essere considerate un po’ più da vicino. La descrizione del Paradiso termina con una parola, che suona come un detto profetico sulla natura dell’uomo: «Perciò l’uomo abbandonerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gen 2,24). Che cosa significa che «i due saranno una sola carne»? Su quest’espressione si è molto dibattuto; alcuni sostengono che con ciò viene indicata l’unione sessuale; altri invece che qui si accenna al bambino, in cui i due si fondono in una sola carne… Non si può raggiungere una certezza assoluta su questo punto, ma probabilmente chi si avvicina di più alla verità è Franz Julius De­litzsch, quando dice che viene qui espressa l’unità spirituale, che comprende ogni aspetto della comunione personale» . In ogni caso un tale profondissimo diventare una sola cosa di uomo e donna è visto come vocazione propria dell’essere umano e come luogo in cui si compie il mandato creativo conferito all’uomo, poiché esso corrisponde nella libertà alla chiamata del proprio essere.

Nella stessa direzione ci orienta anche l’altra parola, in cui ci siamo imbattuti precedentemente: la comunione sessuale di uomo e donna è designata nell’Antico Testamento con la parola «conoscenza». Con l’espressione: «Adamo conobbe Eva, sua moglie» viene indicata, all’origine della storia, la procreazione umana (Gen 4,1). Potrebbe esser giusto evitare di far troppa filosofia su questo uso linguistico. Si tratta qui in primo luogo, come giustamente ha rilevato Gerhard von Rad, solo di «pudore nel linguaggio», che con rispetto lascia nel mistero l’elemento più intimo della comunione umana. E tuttavia è importante notare che il termine ebraico jàda’ significa conoscenza proprio anche nel senso dell’esperienza, dell’essere intimi. Claus Westermann crede di poter fare un passo ulteriore, affermando che jàda’ significa «non esattamente conoscenza e sapere nel senso della conoscenza oggettiva, come conoscere qualcosa o sapere qualcosa, ma piuttosto il conoscere nell’incontro». L’uso del termine per designare l’atto sessuale mostra «che qui la relazione corporea tra uomo e donna non è pensata anzitutto a livello fisiologico, ma primariamente a livello personale».

Di nuovo emerge in rilievo l’inseparabilità di tutte le dimensioni dell’essere umano, che proprio nel loro intreccio reciproco costituiscono la specificità dell’essere «uomo». E proprio questa specificità che viene a mancare laddove da tale intreccio si cominciano a isolare singoli elementi.

Come, tuttavia, la Bibbia, si rappresenta concretamente la formazione dell’essere umano? Vorrei citare solo tre passaggi, che ci offrono una risposta molto chiara in proposito. «Le tue mani mi hanno fatto e plasmato», dice l’orante rivolto al suo Dio (Sal 119,73). «Sei tu che hai creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre… Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra» (Sal 139,13-15). «Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto. Ricordati che come argilla mi hai plasmato… Non mi hai colato torse come latte e fatto accagliare come formaggio?» (Gb 10,8-11). In questi testi balza in rilievo ciò che è importante. Da un lato gli autori della Bibbia naturalmente sanno molto bene che l’uomo è «tessuto» nel seno della madre, che in tal luogo egli viene «fatto accagliare come formaggio». Tuttavia, nello stesso tempo, il seno della madre viene identificato con le profondità della terra, così che ogni orante della Bibbia può dire di sé: le tue mani mi hanno formato, come argilla mi hai plasmato. L’immagine con la quale è descritta la formazione di Adamo vale, nella stessa maniera, per ogni uomo. Ogni essere umano è Adamo—un nuovo inizio; Adamo è ogni essere umano. L’evento fisiologico è molto di più di un evento fisiologico. Ciascun essere umano è più di una nuova combinazione di informazioni; ogni apparire di un essere umano è creazione. La cosa davvero straordinaria è che ciò avviene non accanto, ma proprio all’interno dei processi degli esseri viventi e della loro “invariante riproduzione”.

Aggiungiamo ancora un’ultima, enigmatica parola, in cui quest’ immagine si completa. Secondo il racconto biblico, Eva, in occasione della prima nascita di un essere umano, erompe in un grido di giubilo: «Ho acquistato un uomo dal Signore!» (Gen 4,1). In modo strano e molto discusso ricorre qui il termine «acquistare», e tuttavia si può affermare con buoni motivi che esso è strano, proprio perché deve esprimere un qualche cosa di molto singolare. Il vocabolo significa—analogamente ad altre lingue antiche  dell’oriente—«creazione attraverso generazione o nascita» . In altre parole: il grido di giubilo esprime tutto l’orgoglio, tutta la felicità della donna che è diventata madre, ma esprime anche la consapevolezza che ogni generazione e ogni nascita umane si realizzano con una speciale «partecipazione» di Dio, che vi si verifica un auto-superamento dell’essere umano, per cui egli da più di quanto possiede o sia: attraverso l’elemento umano della generazione e della nascita avviene la creazione.

 La singolarità nell’origine dell’essere umano

L’attualità di queste affermazioni bibliche è evidente. Per l’uomo contemporaneo, cui la delimitazione positivistica del pensiero appare quasi come un dovere di onestà intellettuale, si impone certamente la domanda: è proprio necessario chiamare in causa Dio in questa occasione? Non è questo un ricorso al mito, che non chiarisce nulla e ottiene solo di mettere ostacoli alla libertà dell’uomo, in relazione ai dati della natura? Non viene forse così tabuizzata la natura e, viceversa, naturalizzato lo spirito, nella misura in cui si lega la sua libertà a un ordine naturale inteso come espressione della volontà divina?

Chi entra in tale disputa, deve chiarire a se stesso una cosa: ciò che è stato detto riguardo a Dio e all’uomo come persona, come nuovo inizio, non può essere ricondotto alla stessa forma di sapere positivo passibile di verifica, che caratterizza quella conoscenza sui meccanismi della riproduzione, che può essere raggiunta mediante apparecchiature. Le affermazioni su Dio e sull’uomo vogliono dimostrare proprio questo: che l’uomo nega se stesso, cioè nega una realtà incontrovertibile quando egli si rifiuta col suo pensiero di andare oltre l’orizzonte del laboratorio. Così si può facilmente «dimostrare» la verità della sintesi biblica, proprio mettendo in luce le aporie di una sua negazione.

Goethe aveva già previsto che un bel momento il mondo vitreo dell’Homunculus, dell’uomo che ha ridotto se stesso alla riproduzione, sarebbe necessariamente andato in frantumi contro la realtà. Nell’odierna emergenza ecologica si può già udire qualcosa dell’infrangersi del vetro. Marx potè ancora rivendicare con entusiasmo il diritto dell’uomo alla lotta per il dominio della natura. «Lotta contro la natura» e «liberazione dell’uomo» erano per lui quasi sinonimi. Oggi cominciamo a provare angoscia di fronte a questa liberazione. L’uso della natura diventa abuso, e la concezione, secondo cui la ragione tecnica da sola avrebbe provveduto ad una composizione razionale della realtà irrazionale, ha dimostrato ormai da lungo tempo di essere solo un mito fantastico: la razionalità immanente alla creazione è molto più grande della ragione dell’uomo della tecnica. Infatti quest’ultima non è affatto pura ragione, ma piuttosto un coagulo di interessi che persegue—con miopia rispetto all’orizzonte globale dei problemi—fini parziali stabiliti, pagando i conti di oggi con la vita di domani.

Con ciò tuttavia noi tocchiamo già gli strati più profondi della aporia. La concezione, secondo cui in fondo sarebbe solo un mito quello di un Ethos che partendo dalla natura stessa delle cose ci viene incontro, sostituisce l’idea della libertà con il concatenarsi della necessità. Ma in realtà questa è la negazione di ogni libertà. La riduzione della realtà, implicita in un tale punto di vista, significa soprattutto e prima di tutto la negazione dell’uomo in quanto uomo. Aumenta qui d’altro canto il pericolo che la provetta dell’Homunculus non uccida solo il suo abitante, ma ricada proprio sull’uomo e distrugga anche lui. La connessione logica, di cui qui si tratta, è ineluttabile. Sembra un’operazione innocente cercare di «liberare dal tabù» di quella relazione personale, per cui uomo e donna diventano una sola cosa, qualificandolo come una sacralizzazione mitica della natura. Sembra un progresso isolare il fenomeno biologico elementare e riprodurlo in laboratorio. E logico quindi che la nascita dell’uomo sia ormai solo riproduzione. E di conseguenza inevitabile considerare come apparenza mitica tutto ciò che va oltre la riproduzione; l’uomo liberato dal mito non è ormai altro se non una combinazione di informazioni, all’interno della quale—guidando l’evoluzione—si può partire alla ricerca di nuove combinazioni. La libertà dell’uomo e della sua ricerca, che va emancipandosi dall’ethos, presuppone già nel suo principio la negazione della libertà. Ciò che rimane è il potere del «Consiglio mondiale di amministrazione», una razionalità tecnica, che è essa stessa solo al servizio della necessità, e che nondimeno mira a sostituire la casualità della sua combinazione con la logica della programmazione . Su questo punto Huxley ha pienamente ragione. Questa razionalità e la sua libertà è in se stessa una contraddizione, un’arroganza assurda. L’aporia inerente alla logica della riproduzione è l’uomo; contro di lui va in frantumi la provetta, rivelandosi come il contenitore di ciò che è artificiale. La «natura», che la fede della Chiesa chiede di rispettare nella generazione di un essere umano, non è perciò un dato biologico o fisiologico indebitamente sacralizzato; questa «natu­ra» è piuttosto la dignità stessa della persona o, rispettivamente, delle tre persone, che qui entrano in gioco. Tuttavia questa dignità si rivela proprio anche nella corporeità; ad essa deve corrispondere quella logica del «dono di sé», che è inscritta nella creazione e nel cuore dell’uomo, secondo la stupenda espressione di San Tommaso d’Aquino: «L’amore è per sua natura il dono originario, dal quale provengono gratuitamente tutti gli altri doni» . Queste riflessioni evidenziano dove può entrare l’atto creativo di Dio in un fenomeno apparentemente solo fisiologico e governato da leggi della natura: il processo governato dalle leggi naturali è fondato e reso possibile attraverso l’avvenimento personale dell’amore, nel quale gli esseri umani donano l’uno all’altro niente di meno che se stessi. Tale dono è il luogo interiore in cui il dono di Dio e il suo amore creativo può diventare efficace come nuovo inizio.

L’alternativa, davanti alla quale noi oggi siamo di fronte, può ora venire formulata con molta precisione: da un lato si può ritenere come reale solo ciò che è meccanico, governato dalle leggi della natura e quindi considerare tutto ciò che è personale, come l’amore e il dono, nient’altro che belle fantasie, psicologicamente utili, ma ultimamente irreali e non necessarie. Non trovo per questa posizione nessun’altra definizione se non: negazione dell’uomo. Se ci si colloca dentro questa logica, allora naturalmente anche l’idea di Dio diventa un discorso mitologico, senza nessun contenuto reale.

Tuttavia accanto a questa concezione sta la seconda alternativa, che va in direzione totalmente opposta: si può infatti considerare ciò che è personale come la forma di realtà più propria, più forte e più alta, quella che non rende le altre forme (quella biologica e quella meccanica) mera apparenza, ma piuttosto le assume in sé e così le schiude ad una nuova dimensione. In tal modo non solo conserva senso e valore l’idea di Dio, ma anche l’idea di natura appare in una luce nuova, poiché la natura non è solo una disposizione di lettere e di numeri, che casualmente funziona in maniera sensata, ma porta in sé anche un messaggio morale, che la precede e che è rivolto all’uomo, per trovare in lui risposta. Appartiene alla natura stessa dell’argomento che stiamo trattando, il fatto che la verità di una o dell’altra delle due decisioni fondamentali non può essere decisa nel laboratorio. Solo l’uomo può prendere una decisione in quel dibattito sull’uomo, nel quale egli decide di se stesso tra le due alternative: accettare se stesso o abolire se stesso.

E forse ancora necessario difendere questa visione della realtà dall’obiezione che essa sia nemica della scienza e del progresso? Penso che sia diventato sufficientemente chiaro che una concezione dell’uomo che non riduce la sua origine alla riproduzione, ma che si comprende come procreazione, non nega né ostacola in nessun modo una qualche dimensione della realtà.

La difesa della preminenza di ciò che è personale è, nello stesso tempo, anche una difesa della libertà, perché solo se c’è la persona e solo se essa è il luogo sintetico di tutta la realtà umana, si da anche precisamente la libertà. La messa tra parentesi dell’uomo, la messa tra parentesi dell’ethos non ottiene affatto una crescita della libertà, ma piuttosto la scalza fin dalle sue radici. Pertanto anche l’idea di Dio non è affatto il polo opposto rispetto alla libertà dell’uomo, ma invece il suo presupposto e il suo fondamento. Non si parla più in maniera adeguata dell’uomo, della sua dignità e dei suoi diritti, quando si esclude come non scientifico dal linguaggio del pensiero il discorso di Dio e lo si relega nella sfera meramente soggettiva ed edificante. Il discorso su Dio appartiene costitutivamente al discorso sull’uomo, ed esso fa quindi parte costitutiva anche dell’Università. Non è affatto casuale che il fenomeno dell’Università si sia formato proprio là dove ogni giorno era risuonato l’annuncio: «In principio era il Logos», cioè il Senso, la Ragione, la Parola piena di ragionevolezza. Il Logos ha generato il logos e gli ha creato spazio. Solo presupponendo l’originaria intima razionalità del mondo e la sua origine dalla Ragione, la ragione umana poteva procedere ad interrogarsi sulla razionalità del mondo nei singoli aspetti e nella sua globalità. Ma dove la razionalità è ammessa ancora solamente in singoli aspetti, mentre viene negata nel tutto e come fondamento, allora in un primo tempo l’Università si dissolve in una giustapposizione di singole discipline specialistiche. Ben presto tuttavia ne segue per tutta la vita e l’agire dell’uomo, che la ragione vale solo per aspetti parziali della nostra esistenza, mentre la realtà nel suo complesso sarebbe priva di significato. Le conseguenze si fanno presto visibili. Va pertanto considerata come falsa l’aporia che nasce quando, in nome del progresso e della libertà, si vuole dichiarare come unica legge della scienza quella che impone di realizzare ciò che è tecnicamente possibile, la legge dei risultati e della fattibilità tecnica, e quando, appellandosi ad essa, ci si vuole difendere da una indebita tabuizzazione della natura. Al posto di tali false alternative occorre che subentri una nuova sintesi tra scienza e sapienza, nella quale la domanda sui singoli aspetti non soffochi la visione del tutto, e la preoccupazione per il tutto non riduca l’attenzione per i singoli elementi.

Questa nuova sintesi mi sembra essere la grande sfida, che si trova ad affrontare oggi l’Università. Essa è chiamata a ritrovare nuovamente il suo carattere di «Universitas», luogo di un sapere organico e sistematico sull’uomo e sul suo mondo. Così mi sembra particolarmente felice che per celebrare il IX Centenario della vostra antica e gloriosa Università abbiate scelto di porre a tema la questione scottante dell’intervento della scienza nella procreazione umana. Questo tema così attuale ci rimanda infatti, nello stesso tempo, a quell’intuizione e a quel compito originario, da cui è sorta l’Univer­sità medioevale.

Per far fronte alle formidabili sfide di oggi diventa sempre più urgente superare la frammentazione specialistica delle conoscenze settoriali e lavorare per una integrazione sempre migliore di esse in quel sapere dell’humanum, che costituisce anche oggi il compito proprio dell”«universitas» e la missione che essa è chiamata a svolgere per un’autentica civiltà umana.

Uno sguardo teologico sulla procreazione umana”, in Aa.Vv., Bioetica; un’opzione per l’uomo. Iº Corso Internazionale di Bioetica. Atti, Jaca Book, Milano 1989, pp. 197-213

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