Quando politica monetaria e politica fiscale non bastano: la (mancata) crescita della produttività come elemento chiave del divario Nord-Sud Europa

Il Presidente uscente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, ha recentemente asserito che per raggiungere obiettivi di crescita economica ottimali, l’Unione Europea deve adottare politiche fiscali coerenti fra Nord (a basso debito) e Sud (ad alto debito). I Paesi del Nord devono quindi fare più spesa e stimolare l’intera economia. Al contempo si dovrebbero creare meccanismi di coordinamento migliori – quali il budget dell’Eurozona, una sorta di ministero dell’economia dell’area Euro. Questo si renderebbe necessario perché la politica monetaria, per quanto possa essere espansiva, non riuscirà mai ad aiutare la crescita, se non supportata adeguatamente dalla gestione fiscale. E tuttavia, il problema fondamentale dei Paesi Mediterranei è da ricercare nella bassa produttività del lavoro. Risolvere questo gap dovrebbe essere il fulcro dell’attenzione della classe politica a livello Europeo e governativo.

Il dibattito politico e accademico circa il futuro dell’Eurozona sembra essere bloccato solamente in un singolo mantra ormai condiviso dai più: nei momenti di crisi, la politica monetaria e la politica fiscale devono essere espansive e vi deve essere un maggiore impegno degli Stati del Nord nello stimolare l’economia dell’UE – essenzialmente con aumenti di spesa pubblica. Ovviamente, già raggiungere questi risultati sarebbe importante per dare stabilità all’Eurozona: si favorirebbe una convergenza fra i cicli economici dei singoli Stati e si risponderebbe più efficacemente ai momenti di difficoltà. Purtroppo, queste azioni di buonsenso e su cui l’accordo è quasi unanime potrebbero non bastare: due accademici della Luiss e della Bocconi rivelano che uno dei mali endemici che pervade le economie del Sud Europa è la bassa crescita della produttività del lavoro. Semplificando: oggi un lavoratore tedesco riesce a produrre il 20% in più rispetto al 1995 a parità di ore di lavoro; un lavoratore italiano o spagnolo solamente il 3% in più. Ciò evidentemente si riflette sulla crescita dell’economia. Senza un cambio di rotta, il Nord Europa continuerà a crescere di più e il Sud rimarrà comparativamente arretrato. La convergenza dei cicli economici è quindi un miraggio in questo contesto; e a farne le spese potrebbe esserne la moneta unica. Infatti, solamente fra economie simili l’unione monetaria ha senso di esistere.

Per affrontare la questione razionalmente, bisogna comprendere le cause di questa bassa crescita della produttività. Secondo i due studiosi già citati, Paesi come Spagna, Italia, Grecia e Portogallo non hanno saputo sfruttare la rivoluzione digitale degli ultimi vent’anni. I dati dimostrano che, se sulle tecnologie standard i Paesi Mediterranei sono dotati di un know-how comparabile a quello dei concorrenti Tedeschi o Olandesi, sulle nuove tecnologie, che necessitano una rivisitazione dei processi aziendali e un’alta propensione all’innovazione, essi sono in evidentemente stato di arretratezza. Le aziende che operano in questi Stati non hanno una classe di management in grado di sfruttare l’IT e la ricaduta è stata una mancata crescita della produttività negli ultimi decenni. Non solo, un effetto collaterale è stata la perdita di manodopera qualificata, dirottata verso un Nord Europa in grado di garantire condizioni economiche migliori – la cosiddetta fuga dei cervelli. Questo circolo vizioso ha esacerbato le divergenze strutturali delle economie dell’Eurozona.

Come far fronte al problema? Posto che iniettare liquidità o abbassare le tasse può essere positivo, bisognerebbe indirizzare gli investimenti verso l’aumento della produttività, poiché da questo aspetto dipende il potenziale di crescita economica di uno Stato. Per fare ciò si può agire in due modi diversi, ma che non si escludono a vicenda: si può favorire un aumento dello stock di capitale tecnologico, ovvero incrementando il quantitativo di tecnologia impiegata dalle aziende; alcuni esempi possono essere l’introduzione di sgravi fiscali per investimenti in nuovi macchinari, software di gestione aziendale etc.; alternativamente, si può stimolare la capacità delle aziende di sfruttare il capitale tecnologico già esistente, ad esempio diminuendo il carico fiscale per le assunzioni di risorse umane con competenze innovative e/o favorendo l’inserimento in aziende locali di neolaureati. In particolare, la seconda via potrebbe essere la meno onerosa e la più redditizia: lo Stato aiuterebbe i giovani talenti a non dover per forza cercare fortuna all’estero. Invece che un circolo vizioso, se ne favorirebbe uno virtuoso. Ipoteticamente, si potrebbe giungere addirittura ad attrarre manager innovatori dal Nord Europa. In questa ipotesi, il miraggio di una convergenza fra Nord e Sud Europa potrebbe tramutarsi in un obiettivo realizzabile.

Non ci si deve quindi stupire se gli stimoli monetari e fiscali non generino gli effetti sperati. Come visto, si devono introdurre strumenti razionali per supportare la crescita della produttività se si vuole permettere al Sud Europa di colmare il divario col Nord.

Gli attori politici devono farsi promotori di misure che favoriscano l’adozione di tecnologie innovative all’interno del comparto produttivo. In primis, l’intervento deve essere a livello governativo: Spagna, Portogallo e, in particolar modo, Grecia e Italia devono dirottare gli investimenti statali da settori oramai desueti verso la formazione universitaria e la ricerca. In secondo luogo, l’Unione Europea deve intervenire per facilitare una maggior integrazione delle conoscenze in ambito high-tech, stimolare direttrici di investimento dal Nord al Sud e favorire un flusso di ricercatori ed innovatori verso i Paesi a bassa produttività. È un cambio di passo non indifferente, ma necessario.

Tutti gli Stati UE, non solo Olanda e Germania, sono dotati di talenti e risorse in grado di sfruttare a pieno i mutamenti tumultuosi del mondo di oggi. Ciò che differenzia le varie economie è il contesto in cui le aziende operano: la classe politica, a livello governativo e a livello UE, deve intervenire in maniera efficace per rimodellare il quadro istituzionale in un senso più votato all’innovazione. La sfida vera non è quindi guadagnare qualche punto di flessibilità in più per fare deficit improduttivo, ma usare le risorse economiche già esistenti in modo migliore. Se i politici non se ne sono resi conto, è il momento che i cittadini si impegnino in prima persona per reclamare istituzioni migliori.



Piero Lorenzini

Mi sono laureato in Affari Internazionali presso l’Università di Bologna e presso la Johns Hopkins University, con focus in Affari Europei ed Economia Internazionale. Appassionato di politica, economia, giornalismo e di sport; nel tempo libero sono infatti un ciclista agonista che compete a livello nazionale ed internazionale. 

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