Alzheimer. In Ca nostra racconto come si affronta – Cristiano Regina

Di Maria Grazia Sanna

Se si cerca la voce Alzheimer sul vocabolario la prima definizione data sarà malattia neuro-degenerativa. In altre parole, un lento processo di perdita delle cellule nervose che provoca la scomparsa della memoria. Tuttavia appellarsi al dizionario non sempre è sufficiente per comprendere le proporzioni del fenomeno. Per scavare più a fondo, può essere fondamentale conoscere da vicino l’esperienza delle persone che ne sono affette e dei loro familiari. Così succede in “Ca nostra”, documentario di Cristiano Regina in cui si racconta l’esperimento di co-housing tra persone affette da demenza, nato su iniziativa dell’Associazione Servizi per il Volontariato del Comune di Modena. In particolare nel documentario si racconta l’impatto che la malattia può avere sulla vita delle persone che circondano i malati. 

Abbiamo contattato il regista in persona per sapere com’è nata tale esperienza. 

Intervista a Cristiano Regina 

Ciao Cristiano, intanto grazie della disponibilità. Guardando ai precedenti lavori, in passato ti sei occupato soprattutto di temi legati ai territori dell’Africa e del Medio Oriente, si direbbe quindi che Ca nostra è un outsider nella tua carriera. In che modo è nata la tua collaborazione con il progetto Ca nostra. So che inizialmente avevi un po’ di timore di raccontare dell’alzheimer. Perché hai deciso di accettare? Avevi già avuto dei contatti con delle persone affette da alzheimer?

I lavori che ho fatto precedentemente sono stati tutti all’estero perché sono stati fatti con la mia associazione che è Voice off. Quest’ultima nacque in seguito ad un viaggio in Etiopia. L’obiettivo dell’associazione sin dall’inizio era quello di dare voce a chi non ce l’ha. Voice off, per l’appunto, nel cinema è la voce fuori campo, la voce che sta fuori. Inizialmente il progetto è nato in ambito internazionale, poi abbiamo iniziato a guardarci attorno nella realtà modenese e a collaborare con diverse realtà del territorio.

Tra questi progetti il primo è stato “la parte che resta”. Tra le persone che lo videro c’erano anche i responsabili di “ca nostra”. Loro erano molto contenti di questo progetto e mi chiesero “perché non inizi a seguire tutto il progetto di cohousing, dalla selezione dei lavoratori alla scelta del luogo”. Inizialmente dissi no. Venivo da un progetto piuttosto coinvolgente e non me la sentivo di iniziare un altro lavoro. In più, non avevo il coraggio di confrontarmi con un tema come quello dell’alzheimer.

Quello che mi ha colpito poi è stato che questa storia avrebbe potuto essere raccontata non tanto mettendo al centro la malattia ma l’idea proprio di una condivisione e di un impegno che riguardava le famiglie. Quindi il racconto non sarebbe più stato quello dell’alzheimer ma di come le persone l’affrontavano.

Il racconto non sarebbe più stato quello dell’alzheimer ma di come le persone l’affrontavano

All’interno del documentario le protagoniste principali sono Etta e  Adriana insieme alle loro mamme, c’è poi però un altro signore che si vede spesso ma di cui non si racconta la storia, è stata una scelta voluta da te o dai loro familiari?

Non volevo raccontare tutto quello che c’era attorno alla malattia. C’è da dire poi che Fernando era meno auto-suffciente perciò purtroppo per lui non poteva avere una parte, quindi ho evitato di coinvolgerlo anche per rispetto della sua condizione. Inoltre si è creato un rapporto più stretto sopratutto con le due figlie, Laura e Nicolette. Infine, perché Fernando purtroppo è venuto a mancare e per questo discorso ho evitato di raccontarlo. 

Credits photo: Cristiano Regina

Com’è nato il dialogo con Etta? Credi che questo l’abbia in qualche modo messa più a suo agio di fronte alla telecamera?

Ogni giorno per loro io ero una persona nuova. Quando me lo chiedevano io dicevo la verità: “semplicemente stiamo facendo il film sulla vostra storia”. Loro però non lo ricordavano e il giorno dopo me lo richiedevano. Poi pensavano che stessi facendo delle foto, mi facevano delle domande, quindi in realtà era difficile anche spiegare a loro perché fossi lì.

Ancora oggi quando le incontro loro di fatto non sanno. Le ho conosciute quando la malattia era già ad uno stadio avanzato. Era come se vivessero in un eterno presente in cui qualsiasi cosa accade si resetta e si parte da capo quindi anche spiegarlo purtroppo era difficile.

Quando me lo chiedevano io dicevo la verità, semplicemente stiamo facendo il film sulla vostra storia, ma loro chiaramente non lo ricordavano, il giorno dopo me lo richiedevano.

Cosa sapevi dell’alzheimer prima di iniziare e cosa sai adesso?

Prima di iniziare avevo fatto un altro lavoro, quindi già un po’ ero informato. Però non immaginavo quanto fosse difficile la vita dei familiari. Su quella parte lì non avevo esperienze dirette in famiglia e non ho mai conosciuto delle persone che avessero affrontato questo problema. Non ne sapevo davvero nulla. Quella forse è stata la scoperta più sconvolgente: sapere quanto la malattia abbia un impatto non solo sulla persona che ne è direttamente coinvolta ma anche sulla vita familiare.

I familiari si obbligano ad assumersi il peso della gestione del malato e arrivano ad una posizione in cui si sentono in primis responsabili, in secondo luogo in obbligo, in dovere, di sobbarcarti quell’onere. Quando la persona è poi ad un punto per cui non può più rimanere a casa perché sta male devi purtroppo accettare l’idea di servirti di una struttura. In quel caso i sensi di colpa sono devastanti.

Credits photo: Cristiano Regina

Hai notato dei miglioramenti?

Si, sentendo le figlie ho saputo che sia Etta che Adriana vivono in grande serenità nella casa. Sono a proprio agio, hanno ritrovato anche la possibilità di creare delle relazioni tra di loro mentre prima erano praticamente sole. Uno dei mali dell’alzheimer infatti è la solitudineCi sono studi che dimostrano che è una malattia che degenera soprattutto quando il malato viene abbandonato e lasciato a se stesso.

Uno dei mali dell’alzheimer è la solitudine.

Al contrario quando ci sono delle relazioni sane e si crea una situazione di convivialità, l’umore chiaramente è positivo. Queste persone sono ben seguite dalle assistenti e hanno la possibilità di ricevere i familiari, quindi è come se fossero a casa loro. Anche gli stessi oggetti, i mobili, gli spazi sono stati arredati in funzione delle loro camere.

Che tipo di sensazioni pensi possa aver generato il tuo documentario nel pubblico?

Alla fine il senso di tutto il racconto è il senso di speranza, cioè la possibilità che mettendosi insieme, creando anche nella difficoltà una relazione si possano fare miracoli e che quindi, anche se si tratta di un male devastante orribile che a che fare con l’identità della persona che ne è affetta ma anche con quella familiare, progettando dei sistemi innovativi forse una soluzione valida e sana si può trovare.

E il messaggio che vorresti dare è sempre di speranza?

No, quando ho iniziato non pensavo al messaggio che volevo dare. Trattandosi di cinema del reale, il tuo obiettivo è raccontare quella storia. Vuoi farlo nel modo migliore possibile per rendere giustizia alle persone che sono coinvolte. Cerchi quindi di farlo attraverso uno sguardo sincero, attraverso un occhio etico profondo e questo è l’obiettivo, che poi diciamo il messaggio sia di speranza, questo è il mio auspicio.

Trattandosi di cinema del reale, il tuo obiettivo è raccontare quella storia.

Pensi di occuparti della tematica in futuro?

No perché io faccio documentari per curiosità. Devo scegliere delle storie che mi coinvolgano e dopo aver trascorso due anni a estremo contatto con queste questioni, la mia intenzione è di occuparmi di altro. Altrimenti diventerebbe un lavoro di specializzazione su un certo tema e non è questo il mio obiettivo.

Quando saranno le prossime proiezioni del documentario?

Ca nostra sarà disponibile sulla piattaforma movie day per 2 anni. Ci sono già diverse città interessate e quindi ci saranno altre proiezioni. Per chi fosse interessato può prenotarsi attraverso questa piattaforma.

 

 

 

 

Maria Grazia Sanna

Nata a Sassari il 14/08/1991, attualmente studio Comunicazione pubblica e d'impresa a Bologna e scrivo per Social News cercando di trovare connubio tra teoria e pratica. Appassionata di viaggi, cultura e politiche, ricerco sempre nuovi stimoli nelle esperienze quotidiane e in quelle all'estero. Ho vissuto in Francia come tirocinante, in Belgio come studentessa Erasmus e a Londra come ragazza alla pari ma questo è solo l'inizio. 

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