I Rohingya del Myanmar, la persecuzione di un popolo invisibile

I Rohingya sono un gruppo etnico di fede islamica residente principalmente nello stato birmano a maggioranza buddhista di Rakhine, al confine con il Bangladesh. Non sono riconosciuti quale minoranza e il Myanmar non garantisce loro nemmeno i più basilari diritti di cittadinanza. Perseguitati e vittime di violenze e discriminazioni in patria e respinti dai Paesi limitrofi, in cui hanno tentato di trovare accoglienza, i Rohingya sono oggi un popolo senza terra, invisibile agli occhi delle autorità.

Un popolo senza diritti: chi sono i Rohingya e perché scappano

Circa ottocentomila in uno Stato di oltre cinquanta milioni di abitanti, i Rohingya sono stati descritti da molti come il “popolo meno voluto al mondo”. L’inizio delle persecuzioni nei loro confronti risale già al diciottesimo secolo, quando i birmani conquistarono Arakan (l’odierno Stato di Rakhine) in cui essi abitavano, e sono continuate fino ai giorni nostri, mentre la difficile convivenza tra i diversi gruppi etnici della regione è andata progressivamente aggravandosi e deteriorandosi.

Il governo del Myanmar non riconosce loro i diritti di cittadinanza, considerando i Rohingya come bengalesi musulmani e non integrandoli, pertanto, al resto della popolazione birmana. I Rohingya non hanno documenti e sono sottoposti a una lunga serie di restrizioni legali. Secondo una legge promulgata nel 1982, non è consentito loro spostarsi e viaggiare senza aver prima ottenuto un permesso ufficiale in tal senso. Non hanno diritti di proprietà, non possono comprare o vendere terreni e immobili e, per legge, al momento del matrimonio sono tenuti sottoscrivere un documento in cui accettano il divieto di mettere al mondo non più di due figli. Sono costantemente vittime di abusi da parte della maggioranza buddhista, lavorando spesso in condizioni di semi-schiavitù. E, da quando gli attacchi nei loro confronti si sono intensificati, centinaia di migliaia di Rohingya sono stati costretti a scappare per sfuggire alle violenze.

Nel maggio 2012, la scintilla che ha fatto scoppiare gli scontri è stata l’incriminazione di tre giovani Rohingya, accusati dello stupro di una ragazza buddhista. La minoranza musulmana si è ribellata e nelle sole prime settimane sono morte una trentina di persone. Da allora le tensioni sono solo aumentate. Si è costituito un esercito di liberazione, l’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), che è stato in seguito definito gruppo terroristico secondo la legislazione nazionale. I ribelli sono insorti contro le milizie nazionali e le ostilità hanno raggiunto il culmine nell’agosto di quest’anno, quando le truppe governative hanno messo in atto una vera e propria operazione di pulizia etnica, condannata da Refugee International come un crimine contro l’umanità. Interi villaggi rohingya sono stati bruciati e rasi al suolo. Chi è riuscito a scappare parla di case date alle fiamme, stupri, civili uccisi per la sola colpa di essere parte della minoranza musulmana. A migliaia di Rohingya, rimasti senza casa, non è rimasta altra scelta che cercare riparo nei campi profughi al confine con il Bangladesh.

I Rohingya in fuga: l’esodo verso il Bangladesh

La situazione, già di per sé estremamente difficile, è stata resa ancor più problematica dal fatto che i Paesi limitrofi, Thailandia, Malesia e Indonesia, hanno rifiutato di accogliere i profughi, respingendoli alle frontiere. La grande maggioranza dei Rohingya si è rifugiata in Bangladesh. Le stime rilasciate dall’Organizzazione delle Nazioni Unite parlano di oltre seicentomila nuovi attraversamenti a partire dal 25 agosto di quest’anno. Una così massiccia ondata di arrivi in un breve lasso di tempo ha messo a dura prova la capacità del Paese di fornire adeguata assistenza a tutti, e ne è sorta una crisi umanitaria tra le più drammatiche dei tempi recenti. I centri di accoglienza sono oggi al collasso. Il governo di Dacca, messo alle strette dalla comunità internazionale, ha tentato di trovare una soluzione, dopo che le proposte avanzate nel corso dell’anno – tra cui quella di spostare tutti i profughi su un’isola disabitata nel golfo del Bengala – erano state fortemente criticate dagli organismi preposti delle Nazioni Unite. Lo scorso ottobre, il ministro dei trasporti bengalese ha annunciato la costruzione di un unico, immenso campo profughi destinato a ospitare tutti gli ottocentomila migranti presenti arrivati nel Paese. Ma ha anche aggiunto che la loro accoglienza è diventata, da quanto riportato dalla CNN, un “peso insostenibile” per il proprio Paese.

Rimpatrio e integrazione: quale soluzione alla questione dei Rohingya?

Il Bangladesh, in piena crisi umanitaria, ha più volte auspicato che il Myanmar si assumesse la responsabilità di tutelare i propri cittadini e che i Rohingya potessero fare rientro nel loro Paese di origine. La Cina, attraverso il suo Ministro degli Esteri Wang Yi, ha proposto una soluzione, il cui punto principale è il raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco nelle regioni birmane interessate dalle ostilità. Solo mettendo fine agli scontri e garantendo stabilità e ordine pubblico sarà possibile ipotizzare l’inizio del rimpatrio dei profughi.

Un accordo tra le parti in tal senso sembra essere stato raggiunto e il Ministro degli Esteri bengalese ha fatto sapere, secondo quanto riportato dalla BBC il 23 novembre, che i civili potranno cominciare a fare rientro in Myanmar nei prossimi due mesi. I dettagli dell’intesa non sono tuttavia stati divulgati e le organizzazioni di diritti umani temono che i migranti possano essere costretti a lasciare il Bangladesh contro la propria volontà e che il processo di rimpatrio non si svolga nel rispetto della sicurezza delle persone coinvolte.

Peraltro, il ritorno in Myanmar della minoranza rohingya non esaurirà né porrà fine ai problemi che da secoli l’affliggono. Senza uno sforzo a lungo termine per garantirne la pacifica convivenza con i buddhisti e la loro accettazione da parte di questi ultimi, i Rohingya continueranno a essere discriminati e rifiutati dalla maggioranza, confinati agli angoli di una società che non li vuole. Sarà dunque fondamentale che il governo centrale riesca ad attuare un effettivo programma a sostegno dei Rohingya, che ne favorisca infine l’uscita dall’estrema povertà e, soprattutto, l’integrazione. Un’integrazione che manca da secoli e che non può più, dopo una simile, tragica crisi, essere rimandata.

Alessia Biondi

Nata a Parma nel 1994 e residente a Vicenza, attualmente studio Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani all’Università di Padova e collaboro con SocialNews come parte di un progetto inerente al mio programma di studi. Da sempre appassionata di scrittura, lingue e viaggi ho tenuto per diversi anni un mio blog personale su questi temi. Mi interesso di diritti umani, storia e attualità e coltivo una grande passione per l’Estremo Oriente e le sue culture. 

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