Il funerale della zia

Susanna De Ciechi

Il bambino strisciava rasente il muro come una lumaca, lo sguardo puntato lontano, in fondo alla via. La manovra non era sfuggita a Nicola, rintanato nell’ombra di una bancarella di angurie ancora chiusa. Aspettava, come gli avevano ordinato. Ormai erano due ore. Troppe. Scandagliò la strada: nessuno all’orizzonte, a parte il bambino. Forse, quello lì, aveva un messaggio per lui. Sì, doveva essere così. Meglio non usare il cellulare. Attese che arrivasse a tiro e lo afferrò per un braccio, tappandogli la bocca. Si mise a scuoterlo forte mentre lo trascinava nell’ombra di un portone. «Che cazzo ci fai qua? Chi sei?» «Mi sono perso» rispose Fabrizio con la voce che tremava. «Ma che cazzo dici? Te si’ perso? Ma che si’ scemo?» Intanto, Nicola aveva allentato la presa. Osservava il ragazzino che si stava sistemando gli occhiali appannati dalle lacrime; aveva addosso una maglietta gialla e dei pantaloni di tela color kaki, roba che non valeva niente. L’espressione era tonta e spaurita, da impacciato. «Da dove vieni?» riprese l’interrogatorio con la faccia a grugno contro quella del bambino.
«Ahi!» Fabrizio si divincolava, piangendo senza ritegno. «Milano. Abito a Milano» gridò, forse sperando che qualcuno accorresse, ma nei pressi non c’era nessuno. Il sole del primo pomeriggio aveva smollato l’asfalto, le finestre dei palazzi che costeggiavano la via erano tutte chiuse, come le saracinesche dei rari negozi. Parecchio più avanti rispetto a dove si trovavano loro, si intravedeva l’insegna di un benzinaio e, ancora oltre, all’altezza del piazzale della chiesa, c’era un formicaio di gente. Senza una parola, Nicola trascinò il ragazzino dentro il portone, poi attraversarono l’atrio fino al chiuso di un cortile con il pavimento rotto e lunghi steli di erba secca che spuntavano dalle fessure. In alto, la facciata interna della casa rivelava una vetrina di mattoni sbocconcellati, le imposte erano sbilenche, alcune serrate, altre malamente aperte, sospese nel vuoto. Nell’aria calda stagnava un carico di odori fetenti.
«Lasciami andare» piagnucolò il ragazzino, tirando su il moccio. «Cosa ti ho fatto?» Quell’altro, zitto, insisteva a rimorchiarlo verso il fondo della corte. «Appena si accorgono che non sono a casa degli zii, mi vengono a cercare. Magari il funerale è già finito. Magari mio papà già mi cerca.» Puntò i piedi nel tentativo di resistere. Nicola si girò e con la mano libera gli tirò uno sganassone che fece volare gli occhiali del bambino. Partì un urlo acutissimo e quello gli tappò di nuovo la bocca, bloccò il bracciò della sua preda dietro la schiena e spinse Fabrizio dentro uno spacco del muro di cinta. Raccolse gli occhiali e li nascose nella tasca del giubbino. Intatti. «E te pareva: a Milano fanno tutto cose meglio» masticò amaro, poi sparì anche lui al di là del confine.
Adesso la puzza era ancora più forte, un fetore denso e vischioso che veniva dal cumulo di monnezza cresciuto al centro di uno spiazzo. L’afa aveva costruito intorno una nuvola di vapori grevi in cui giocavano a nascondino grossi topi, gabbiani dalle piume sporche ed eserciti di scarafaggi. Fabrizio tappò naso e bocca con la mano sudaticcia.
Intorno all’enorme pattumiera correva una pista di terra battuta su cui s’intrecciavano le impronte dei copertoni delle moto. Oltre la pista c’era un’altra spianata. In fondo alcune sagome appese a un filo del bucato. Allungò il collo e strizzò gli occhi; non vedeva bene a quella distanza, ma di sicuro non erano panni. «Asséttate, mettiti giù. Fernescela ‘e chiagnere.» Nicola lo costrinse a terra e, a sua volta, si accosciò su un sasso largo e piatto. «Chi si’, milanese?»
«Sono Fabrizio» rispose cercando di domare i singulti.


«Siamo venuti a Napoli per il funerale di mia zia. A me papà ha detto che dovevo restare a casa.» «Chi è tua zia?» Nicola lo stava scuotendo di nuovo, con furia rabbiosa.
Ora aveva montato un ghigno feroce. «Angelina Tarallo. Io non l’ho mai conosciuta, era la sorella di mio padre. È la prima volta che vengo qui» concluse con un sospiro da spaccare il cuore.
L’altro si era alzato e ciondolava avanti e indietro. Dipinta in faccia, un’espressione stranita.
D’improvviso si piantò a gambe larghe davanti a Fabrizio, mise una mano in tasca e tirò fuori gli occhiali.
«Li vuoi?» Il ragazzino assentì, rinfrancato.
«Te li do, ma facimmo ‘nu patto. E guai, se sgarri!»
«Sì, sì.»
«Voglio sape’ certi ‘ccose. Tu rispondi a tutto.» Lasciò cadere gli occhiali in grembo al bambino.
«Se conosco le risposte…» Fabrizio stava pulendo le lenti nel bordo della maglietta quando gli arrivò un calcio sulla coscia. Non troppo forte, a dire il vero. Riprese a piangere.
«Statte zitto. Le risposte le sai e solo quelle devi dare.» Nicola si chinò, restando in equilibrio sui talloni. Fabrizio tirò su con il naso mentre infilava gli occhiali; mise a fuoco il pattume e i topi e gli strani panni appesi oltre il bordo più lontano della pista: sagome crivellate di buchi. Tirò un sospiro profondo. «Che ‘ttieni?» «Qui è il posto tuo e degli amici? Io a Milano ho il cortile.» Di nuovo fece correre lo sguardo intorno. «C’è la portinaia che ci urla sempre e la cantina dove teniamo le nostre bici. La mia è rossa, da cross. Il regalo di Natale.»
«’Cca ‘nce sta sulo ‘a merda. Quant’anni tiene?» chiese Nicola con voce dura.
«Undici. Anzi, quasi dodici.» «’A scola ‘nce vaje?»
«Sicuro» rispose Fabrizio, stupito. «Tu non ci vai?»
Gli arrivò un ceffone accompagnato da una risata sgangherata. «Aggio finito la scuola da poco. A Poggioreale
Fabrizio incassò e non disse niente. Forse cercava di ricordarsi come associare quel nome che gli risultava familiare. La maglietta era intrisa di sudore, l’aria era sempre più fetida e bollente. Il ragazzo, invece, non mollava il giubbino.
Nicola guardò l’orologio e digrignò. Ora sapeva che non sarebbe arrivato nessuno a tirarlo fuori di lì.
In un modo o nell’altro, qualcuno aveva tradito o qualcosa era andato storto. Era finita. Allora, tanto valeva…«Che ‘tte ‘mparano?» tornò a chiedere.
«Tutto.» Il bambino era rincuorato. «Italiano, matematica, storia, disegno, inglese…»
«Pure l’inglese? E comme se rice merda?»
«Shift e vaffanculo è fuck» disse Fabrizio con un mezzo sorriso.
«’O ssapevo già. Volevo vedere se… E come vai a scuola? Nun faje ‘nu cazzo?»
«Sono il primo della classe. Mi piace studiare e leggere.» Con l’indice spinse gli occhiali su, in cima al naso. Per qualche secondo lo spazio fu pieno del suono delle sirene.
Nicola lanciò un’occhiata allo sbrego nel muro da cui erano passati, ma da lì non proveniva alcun rumore. Si tastò la schiena all’altezza della vita e palpò il ferro. Il giubbino grondava l’acqua che il suo corpo continuava a rilasciare in abbondanza. Saltò in piedi, facendo trasalire il suo prigioniero. «All’età ‘ttoja ggià facevo servizio.» Aveva il tono del maestro.


«Che lavoro facevi?» «Me ‘mparavo ‘o mestiere. Andavo a fare il giro del pizzo. Tutte quante se cacavano sotto quando arrivavo io.» Nicola accese una sigaretta, compiaciuto. Ci teneva a fare vedere al milanese che lui era un duro. Buttò indietro le spalle e gonfiò il petto. Era magro, troppo, lo sapeva.
A casa erano in otto e, al momento che sarebbe servito, c’era sempre stato poco da mangiare. Sua madre di notte faceva le pulizie e di giorno lavorava come posteggiatrice abusiva.
«Vuo’?» Allungò il pacchetto verso il bambino.
«No, grazie. Io no.»
«Che d’è? A Milano non si fuma?»
«Ho provato» disse Fabrizio. «Non mi piace.» L’altro lo guardò con compassione. La tensione era calata.
«Le sigarette ti facevano guadagnare. Muovevi quelle, prima. Adesso la droga, i soldi del pizzo, qualche volta anche le armi. Entri nel giro giusto e fai ‘nu puzzo ‘e denare.» Parlava per impartire una lezione. «Poi, si tiene ‘e ‘ppalle, fai il salto, per farti notare ‘a chi cummanna, il boss.» Buttò la sigaretta a metà dentro il cumulo dei rifiuti, un lancio lungo.
«Si te va’ bbuono lui ti mette nel giro grosso e fai ancora più soldi.»
«A cosa ti servono tutti questi soldi?»
«Che strunzo ca’ ssi’! Pe’ t’accatta’ ‘e ccose. L’I-Phone, tu ce l’hai? E per le femmine, per farle stare bene e per stare in giro con gli amici come mi pare. E pe’ mia mamma» concluse sottovoce. Un rumore, uno scalpiccio leggero s’insinuò nella fessura del muro da cui erano passati. Qualcosa si mosse, sempre più vicino. Nicola si spostò di lato e fece cenno al bambino di restare fermo. Fabrizio si accorse che il braccio teso dell’altro terminava con una pistola. Era comparsa dal nulla e solo vederla gli indusse un tremito che non riusciva a dominare.
Intanto, nella crepa si era infilato il muso di un cane. Uno nero, grosso, con il mantello puntinato di grigio. La bestia osservò la scena, poi introdusse le zampe anteriori e il resto del corpo.
«Figlj’’e zoccola!» Nicola gli rovesciò addosso una serie di bestemmie e gli tirò un calcio, ma l’animale si scansò e proseguì senza fretta verso la piramide di rifiuti.
«La pistola. È vera?» chiese Fabrizio.
«Vulesse vede’. L’ho trovata che ero ancora ‘nu muccusiello come te. Cercavo un buco per nascondere la droga tra una consegna e l’altra. C’era un ascensore rotto nel condominio vicino ‘a casa mia. Sono salito sopra e ho scoperto una corda che teneva qualcosa appeso fuori della cabina. Ho tirato su un sacchetto di plastica e dentro ci stava lei.»
Baciò la canna e la infilò nella cintura dei pantaloni.
«E di chi era?»
«Mia, che l’ho trovata. È stata sempe cu’ ‘mme, dalla prima rapina
«Hai fatto una rapina?» Fabrizio era a disagio, nonostante il caldo fu scosso da un brivido.
«La prima volta tenevo quindici anni. Io e un amico siamo andati a un magazzino, uno di quelli che vendono la roba per il bagno. ‘O tenevemo mente ‘a paricchio, sapevamo com’era perché ci facevamo già dare il pizzo. Era tardi, la chiusura, e c’era solo il padrone.» Nicola prese una pausa, accese un’altra sigaretta e si sistemò comodo sopra il pietrone.
Il cane smise di rimestare nella rumenta e tornò verso i due ragazzi.

“«La pistola. È vera?»
chiese Fabrizio.
«Vulesse vede’.
L’ho trovata che ero
ancora ‘nu muccusiello
come te. Cercavo un
buco per nascondere la
droga tra una consegna e
l’altra.”

«Ci siamo infilati la cazetta in testa, siamo entrati e gli abbiamo chiesto i soldi malamente. Quella capa ‘e cazzo ha detto qualcosa e si è messo le mani in tasca. Tre colpi, con questa. L’ho seccato.» Fabrizio sussultò sul finale e il cane si sdraiò con il muso abbandonato sulle zampe anteriori incrociate.
«E poi?» «E po’ m’’hanno pigliato, ma non c’erano abbastanza prove. Mi hanno interrogato per sei ore. Io me so’ stato zitto. Gli dicevo: “Dotto’, non ci avete le prove. Dove stanno le prove?”. Non avevano niente di sicuro in mano. Mi ero fatto un alibi con una ragazza, una ca me vuleva bbene.» Si fermò un momento, lo sguardo trasognato ammorbidì i lineamenti da adolescente cresciuto male.
«Milena, si chiamava. Era uguale uguale alla ragazza del mio boss. Tutte e due bellissime. Milena la portavo al mare con la moto grossa. Ogni volta che dovevo uscire con lei ne fregavo una nuova. Tu’a tiene ‘na guagliona?»
«No. Conosco una che mi piace.» Fabrizio era arrossito, forse l’imbarazzo superava la paura.
«Ma ti piacciono le femmine?»
«Sì, sì.»
«Si’ nu muccuso. Ti farai» sentenziò Nicola in tono serio, da uomo a uomo.
«Ma com’è finita la storia della rapina?» Fabrizio azzardò la domanda di certo per curiosità e forse per cambiare discorso.
«U’anema ‘d’’a Maronna: ‘nu burdello. Alla fine si è messo di mezzo… insomma, mi hanno dato la complicità in omicidio e la tentata rapina. È andata ancora bene.»
«Sì?»
«Sì. Tre colpi, con questa.» Riprese la pistola e la fece vibrare nell’aria, poi la fece sparire sotto il giubbino. Restarono in silenzio per un po’. Di sottofondo avevano lo squittio dei topi mescolato alle strida dei gabbiani. In più, il ronfare del cane, che respirava male, come il cacio sui maccheroni.
«Andiamo via» propose Fabrizio. «Qui c’è puzza forte.» «Si’ ‘nu femmeniello, abituato a rose e fiori.» Nicola gli tirò un sasso su un ginocchio senza alzarsi dalla pietra su cui era tornato a sistemarsi.
«Nun m’’hanna piglia’. Altrimenti chiudo.»
«Chiudi?»
«Ma che ripiete tutte cose a pappagallo? Quella volta della rapina ho tenuto il mio santo in paradiso. Uno che mi ha fatto la cosa più leggera. Sono stato dentro e fuori, in qualche modo, tra i domiciliari, la libertà vigilata. Una volta sono anche evaso.» Sulla faccia gli era comparso un segno tra la smorfia e il sorriso. «E poi di nuovo dentro, fino a pochi giorni fa. All’uscita ho spezzato lo spazzolino, per non tornare più indietro. Una scaramanzia.» Respirò forte, sputò a terra e poi riprese. «Mi sa che quaccheccosa è ghjuta storta. È passato troppo tempo, non arriva più nessuno.» Ora Nicola aveva accelerato, gli occhi fissi oltre la spalla del bambino, puntati su qualcosa che vedeva solo lui.
«Milanese, chesta è ‘a guerra. O staje a cca’ o a lla’. Comunque, prima o poi paghi pegno. Comme tua zia.» Adesso era in piedi, batteva con una mano sulla coscia. Fabrizio era sempre seduto a terra, la bocca spalancata. Il cane si era svegliato, stava immobile al suo posto. «Teneva da onorare il debito. Funziona così e non c’è scelta. A Milano puoi scegliere?
Qui nessuno sceglie per sé, solo il boss. Se non vai avanti, se non comandi, nun si’ nisciuno.»
Scatarrò, spavaldo, ma lo sguardo era da disperato.
Girò su se stesso mentre ravanava concitato nelle tasche del giubbino. Fabrizio lo vide armeggiare con qualcosa sul dorso della mano e poi tirare su con il naso. Quando Nicola alzò la testa, la faccia rossa, il naso e la bocca bianchi, era un clown spaventoso, tutto nervi e cattiveria.
Una bava d’aria bollente mosse i capelli di Fabrizio, il cane uggiolò senza un motivo apparente.
«Capa ‘e cazzo, hai capito?» La voce di Nicola era cambiata, ora raspava. «Lei, tua zia, l’ho seccata l’altra sera sulla porta di casa. Neanche la conoscevo, io. Una stronza che ha tradito. Non è stata al posto suo.» «Non è vero!» Fabrizio singhiozzava senza lacrime. Accennò ad alzarsi, ma Nicola lo ributtò a terra. «Con chi stai a Milano?»
«Con nessuno. Vado a scuola, studio.»


«Tutti stanno sotto qualcuno. All’età tua si comincia. Qui di sicuro stai con gli altri. Per forza! Ti ho seccato la zia.» Gli occhi persi di Nicola fissavano il ragazzino, di nuovo in piedi. «Fermati, Milano!»
«Mi aspettano… devo andare. Mi spiace.» Intanto arretrava verso il buco da cui era entrato mezz’ora prima. Nicola aveva di nuovo tirato fuori la pistola.
«Strunzo, fermati lì.» Il bambino aveva già infilato una gamba dentro la fessura che l’avrebbe riportato all’altra vita. D’improvviso vide il cane scartare e lo sentì guaire mentre Nicola, sull’onda dell’inciampo, barcollava per poi cadere.
La pistola era armata e sparò.

Susanna De Ciechi, Scrittrice e ghostwriter

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