La violenza contro il genere femminile: un’inquadratura del fenomeno

La cronaca nera non manca mai di ricordarci come il percorso verso la parità di genere si scontri contro stereotipi ed efferati episodi di violenza. ma cosa intendiamo per violenza di genere e violenza contro le donne?

di Maddalena Bosio

‘Uomo, sei capace di essere giusto? E’ una donna che ti pone la domanda; tu non le toglierai almeno questo diritto. Dimmi: chi ti ha dato il sovrano diritto di opprimere il mio sesso? La tua forza? I tuoi talenti? Osserva il creatore nella sua saggezza, guarda la natura in tutta la sua grandezza, alla quale sembri volerti avvicinare, e dammi, se ne hai coraggio, l’esempio di questo impero tirannico.

Guarda gli animali, consulta gli elementi, studia i vegetali, dai, infine, un’occhiata a tutte le modificazioni della materia organizzata e arrenditi all’evidenza quando te ne offro i mezzi; cerca, fruga e distingui, se puoi farlo, i sessi nell’economia della natura. Dovunque li troverai confusi, dovunque essi coopereranno armoniosamente a questo capolavoro immortale.

L’uomo soltanto si è affastellato un principio su questa eccezione. Bizzarro, cieco, gonfio di scienze e degenerato, in questo secolo di lumi e sagacia, nell’ignoranza più crassa, vuole comandare da despota su un sesso dotato di tutte le facoltà intellettuali; pretende di godere della rivoluzione e reclamare i suoi diritti all’eguaglianza, per non dire di più”.

Quel secolo era il diciottesimo. Il brano è tratto dal Preambolo alla Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina di Olympe de Gouges (nella versione riedita da Caravan Edizioni, marzo 2012). L’opera è datata 1792, ma è stata divulgata interamente solo nel 1986 in Francia. Quasi due secoli di gestazione sociale per la pubblicazione di uno scritto manifesto delle esigenze di riconoscimento, dichiarazione e rispetto dei diritti umani e fondamentali della donna al pari di quelli dell’uomo, in primis la libertà e la vita, e delle istanze volte ad ottenere i medesimi diritti civili e politici, tutti, allora. Appannaggio maschile.

I secoli sono trascorsi e, con essi, il rincorrersi delle rivoluzioni sociali, culturali e giuridiche, le dichiarazioni di principio, la produzione normativa nazionale ed internazionale, orientata ed approdata alla piena ed indiscussa affermazione dei diritti umani (diritti dell’umanità tutta) e dell’eguaglianza, della pari dignità e dei diritti degli esseri umani, donne e uomini, con divieto di ogni discriminazione e prevaricazione, anche fondata sul sesso e sul genere.

La cronaca nera, tuttavia, non manca mai di ricordarci come, nella nostra società in tal modo evoluta, resista, strisciante come un corso d’acqua sotteraneo mai in esaurimento, una sotto cultura inegualitaria, ancorata ad una visione vetero-patriarcale della società, cristallizzata fino ai due terzi del 1900 anche nel diritto italiano, civile e penale, che relegava la figura femminile in un ruolo secondario e di “potestà” maschile, conservando, tra le maglie della normativa, diritti riconosciuti solo o con più forza all’uomo in quanto tale e, parallelamente, trattamenti sfavorevoli alla donna in quanto tale, subordinata e, preferibilmente, sottomessa, faticando a riconoscerle non solo tutela, ma pari dignità e valore. L’espressione quotidiana del retaggio di detta subcultura si mostra ancora nelle frequenti discriminazioni e nella difficoltà ad assicurare concretamente nella quotidianità un ruolo paritario al genere femminile (pensiamo, ad esempio, al fatto che, a tutt’oggi, a parità di professionalità e professione, sovente una donna occupa posizioni inferiori e guadagna molto meno rispetto ad un uomo). Portato alle estreme conseguenze, poi, senza voler scendere in un’articolata analisi antropologica, sociologica, culturale, criminologica e psicologica, detto retaggio si pone alla radice della sopraffazione e della violenza cui è fatto oggetto quotidianamente il genere femminile.

Si introducono così, nella presente analisi, due concetti chiave: violenza di genere e violenza contro le donne.

La violenza di genere, forma di discriminazione e di violazione dei diritti umani e fondamentali, è identificabile con il ventaglio di condotte aggressive e violente, non soltanto fisiche, poste in essere da un soggetto nei confronti di un altro soggetto in ragione del suo genere d’appartenenza (gender based violence), intesa non solo come appartenenza sessuale biologica, ma come appartenenza ad una determinata identità di genere o espressione di genere. Detta puntualizzazione, solo apparentemente banale, è diretta ad evidenziare come la vittima della violenza di genere possa essere donna, uomo, eterosessuale, omosessuale, transessuale, transgender… (come, a più riprese, affermato negli ultimi anni anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo). Della violenza di genere, nella sua accezione più ampia, non troviamo una compiuta definizione sul piano del diritto nazionale, essendo, più che altro ivi ricondotta a sottocategorie specifiche. Si affaccia, invece, sul panorama internazionale prima timidamente, già dal 1995 con la Conferenza di Pechino, per approdare alla definizione datane dalla Convenzione di Istanbul del 2011, ratificata dall’Italia nel 2013, ai sensi della quale per “violenza nei confronti delle donne“ si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata; per “genere” ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini; per “violenza contro le donne basata sul genere” si designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato; con il termine “donne”, infine, sono da intendersi anche le ragazze di età inferiore ai 18 anni.

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Detta definizione individua, quindi, indirettamente la “violenza di genere” come genus cui ricondurre la species del fenomeno della “violenza contro le donne”. A livello sia nazionale, sia internazionale, i piani definitori spesso si sovrappongono e si confondono. Ciò avviene per il percorso storico e normativo che ha portato all’individuazione ed allo sviluppo di detto concetto, un cammino culturale e sociale (e giuridico) ancora in evoluzione – soprattutto relativamente al riconoscimento dell’esistenza di identità sessuali “altre” rispetto a quella biologica – per ragioni più squisitamente di pura teoria del diritto e, infine, per l’innegabile dato statistico che vede una predominanza del binomio uomo-autore/donna-vittima della violenza di genere e la pressante esigenza di arginare detto fenomeno.

La violenza di genere contro la donna è sempre violenza di genere, mentre non ogni violenza di genere è violenza contro la donna e non ogni violenza contro una donna è una violenza di genere. È sulla species della violenza di genere contro la donna che si è necessariamente concentrata la produzione normativa e la rivoluzione socioculturale. La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne dell’ONU, datata 1993, definendola come ogni “atto di violenza fondato sul genere che abbia come risultato, o che possa avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, includendo la minaccia di questi atti, coercizione o privazioni arbitrarie della libertà, che avvengano nel corso della vita pubblica o privata” e la definizione di “femminicidio” come “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte” ci permettono di riempire di contenuti detto concetto.

Emerge, innanzitutto, la bidimensionalità della condotta violenta, come potenzialmente involgente la vita sia pubblica, sia privata, nonché la sua bidirezionalità, estrinseca (verso la donna in quanto tale) ed intrinseca (verso il suo ruolo sociale). La violenza di genere contro la donna, inoltre, può essere agita in tempo di pace ed in tempo di guerra, assumendo connotazioni diverse, e, avuto riguardo alla prima ipotesi, sia all’interno di una relazione affettiva, sia in assenza di qualsiasi relazione tra autore e vittima. Laddove l’autore del reato e la vittima siano legati da una relazione familiare o affettiva (partner, coniugi, attuali o ex, conviventi o meno, filiazione… in ogni caso appartenenza attuale o pregressa al gruppo familiare o affettivo), tuttavia, si configura la sub specie della c.d. violenza domestica o intrafamiliare, connotata dalla circostanza per la quale le condotte violente sono poste in essere all’interno di una “relazione” con la persona offesa – in modo del tutto indipendente da “dove” la violenza ha materialmente luogo. In questo caso, la violenza è diretta a quella donna, in quanto tale ed in quanto in una delle predette relazioni con l’autore. Inutile ricordare come la schiacciante maggioranza degli episodi di violenza ed abuso avvengano (ed altrettanto spesso siano mantenuti quale “modus vivendi”) in tale contesto: solo per citare qualche dato statistico, una percentuale superiore al 30% delle donne di età compresa tra i 17 ed i 60 anni è stata, nel corso della vita, fatta oggetto di violenza; in più del 70% dei casi, l’autore e la vittima erano legati da un qualche genere di relazione, tenendo a mente che oltre il 35% delle donne non denuncia la violenza subita e che, nel 90% dei casi, l’autore di un atto violento verso una donna è un “uomo”. Proprio in ragione di dette circostanze, il legislatore ha adottato una serie mirata d’interventi giuridici, sostanziali e processuali, volti ad individuare la violenza di genere come categoria a sé ed a prevedere una serie d’interventi preventivi e protettivi mirati e di trattamenti sanzionatori inaspriti (con la previsione di specifici obblighi d’informazione, misure di protezione, misure cautelari o precautelari e, infine, circostanze aggravanti il reato e, conseguentemente, la pena).

Dal punto di vista oggettivo, invece, avendo riguardo, quindi, alle condotte poste in essere ed al bene giuridico colpito, possiamo individuare diverse tipologie di violenza, riassumibili in tre macro-sottocategorie fondamentali: la violenza fisica, quella psicologica e quella economica.

La violenza fisica agisce primariamente sul corpo, con atti rivolti a ledere o spaventare la vittima, quali percosse e lesioni (schiaffeggiare, colpire, mordere, spingere, strattonare, fratturare, bruciare, tagliare, costringere, tirare i capelli, ferire, aggredire con l’acido, aggredire con oggetti, sequestrare, privare del sonno…), azioni volte a colpire la sfera sessuale e riproduttiva (violenza sessuale, stuprare, molestare, mutilare, prostituire, provocare un aborto, imporre una gravidanza, imporre pratiche sessuali, pratiche sessuali degradanti, rifiutare l’utilizzo di contraccettivi…) fino all’eliminazione fisica (femicidio, omicidio, aborto delle figlie femmine…).

Nella violenza psicologica, invece, l’autore rivolge la sua carica violenta ed aggressiva a psiche, emotività ed affettività della vittima – isolandola, impedendone i contatti sociali ed affettivi, insultandola, umiliandola, sminuendola, colpevolizzandola, minacciandola, insultandola, controllandola, coartandone la volontà, mortificandola, urlando, spaventandola, denigrando i suoi affetti, colpendo la sua fede spirituale, perseguitandola, pedinandola, manipolandola, ricattandola, maltrattando l’animale d’affezione, trattandola o presentandola come pazza – cercando di portarla alla completa svalutazione di sé ed all’annientamento della personalità e dell’individualità e di assumerne il controllo.

La violenza economica, infine, mira a rendere anche economicamente dipendente, impotente, isolato e, quindi, sottomesso ed assoggettato, il soggetto – controllandone in modo maniacale i conti e le finanze, sottraendogli le sue risorse, facendogli mancare i mezzi di sussistenza, conducendolo progressivamente alla perdita del lavoro (diretta, pretendendone l’abbandono, o indiretta, provocandone la perdita), sottraendogli del denaro o altri mezzi di pagamento (bancomat, carte…), obbligandolo all’assunzione di impegni economici… – colpendo, quindi, ulteriormente la sua capacità di autodeterminazione.

Dette forme di violenza, plurilesive di beni giuridici e, spesso, agite in parallelo ed in inscindibile commistione, si snodano nella c.d. spirale della violenza, efficacemente inquadrata attraverso la c.d. ruota del controllo e del potere (Domestica abuse intervention project – Minnesota), che segue, a sua volta, un più ampio andamento ciclico costruito sullo schema della tensione: creazione del conflitto – abuso/aggressione – negazione/minimizzazione/pentimento/riconciliazione – costruzione nuovo conflitto… poiché detti sono gli elementi della stessa in un continuum ciclico e perpetuo.

Il citato ciclo della violenza prende le mosse dalla volontà di dominare, subordinare e sottomettere l’altro, mantenendone il controllo, con episodi ciclici ed imprevedibili, dapprima più sporadici e via via più frequenti, tendenzialmente in spirale di gravità crescente. L’agente lo avvia con una prima fase d’intimidazione – attraverso sguardi, azioni, parole, gesti, via via più espliciti fino a insulto, umiliazione, colpevolizzazione e manipolazione – finalizzati all’isolamento della vittima. Spesso sono fornite giustificazioni colpevolizzanti la vittima e decolpevolizzanti l’aggressore. Ai fini di detta colpevolizzazione possono essere coinvolti eventuali figli, usati come veicolo o mezzo, fatti oggetto di minaccia (di recentissima giuridicizzazione anche il fenomeno della c.d. violenza assistita). La donna così indebolita, prostrata ed isolata può divenire oggetto di violenza economica, fino all’uso della violenza fisica in ogni sua forma.

In questo meccanismo s’insinuano e vengono richiamati ed utilizzati stereotipi di genere, dei quali la nostra cultura è impregnata, sulla dominanza e sulla superiorità maschile (con conseguente inferiorità e subordinazione femminile). Se così è, con una commistione tanto forte ed inscindibile di fattori, anche sociali e culturali, non deve certo stupire che, già dal 1995, in occasione della Conferenza di Pechino, l’accento sia stato posto fortemente sulla necessità che gli Stati si impegnino a promuovere una cultura non discriminatoria, a prevenire la violenza maschile, a proteggerne le vittime ed a perseguire i colpevoli, nonché ad assicurare il risarcimento di tutti i danni da ciò derivati. Più recentemente, la Convenzione di Istanbul ha ricordato e cristallizzato gli obblighi statali (e, non dimentichiamolo, ogni obbligo vincolante è fonte di responsabilità) nella prevenzione della violenza, nella protezione delle vittime e nel perseguimento degli aggressori. Senza andare troppo lontano, e volgendo l’occhio alla nostra Costituzione, vi ritroviamo il richiamo alla tutela dell’individuo e dei suoi diritti fondamentali, anche nelle relazioni e nelle formazioni sociali.

È in questo contesto che si inserisce il D.L. 14 agosto 2013, n. 93, recante Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province – convertito, con modificazioni, dalla L. 15 ottobre 2013, n. 119 – c.d. Legge sul Femminicidio – che affianca alle fattispecie sostanziali astratte, già previste dall’ordinamento ed integrate dalle condotte sopra richiamate – tra le altre, minaccia (612 c.p.), violenza privata (610 c.p.), lesioni (582, 583 c.p.), maltrattamenti (572 c.p.), sequestro (605 c.p.), omicidio consumato o tentato (585 c.p.), violazione degli obblighi di assistenza (570 c.p.), abuso dei mezzi di correzione (581 c.p.), sottrazione di minori (574 c.p.), mutilazioni genitali femminili (583 bis c.p.), atti persecutori (612 bis c.p.), violenza sessuale (609 bis c.p.), riduzione in schiavitù (600 c.p.), puri o aggravati – ulteriori strumenti processuali – obblighi d’informazione alla persona offesa, obblighi di comunicazione e notifica alla stessa, estensione dell’arresto in flagranza, modalità di audizione e di incidente probatorio protette, irrevocabilità della querela… – e sostanziali – previsione di aggravanti quali la c.d. violenza assistita e domestica, la violenza sessuale verso donne in gravidanza… – di protezione delle vittime e perseguimento dei colpevoli – tutte ancora sotto la giustamente severa lente analitica dei giuristi, degli avvocati e della giurisprudenza (in merito si richiama, ex multis, la recentissima sentenza delle S.U. della Cassazione n. 10959/2016, volta a definire il concetto di “violenza sulla persona”). A detto impegno normativo, sulla cui efficacia in astratto ed in concreto molto ci sarebbe e ci sarà da dire, anche alla luce dell’esperienza, mancherà, tuttavia, sempre una “stampella” se, alle dichiarazioni d’intenti del Governo e delle Istituzioni relative ai necessari interventi più squisitamente sociali e culturali (formazione, istruzione, promozione, rimozione degli ostacoli, sostegno ai centri antiviolenza…), non seguirà l’azione concreta (alla luce dei recenti propositi di riduzione delle risorse destinate), ad oggi ben lontana dall’essere efficacemente attuata.

Ed allora, scelgo di chiudere come ho iniziato, con l’utilizzo e la rilettura, questa volta, alla luce di quanto detto fin qui, della definizione e dell’analisi della condizione femminile, risalente, ma calzante, offerta nel 1949 da Simone De Beuvoir nel suo famoso saggio Il secondo sesso: “Donne in condizione di subordinazione non si nasce, ma lo si diventa. Non vi è, in altre parole, nessun destino alla subordinazione e sottomissione sociale, nessuna predisposizione alla vulnerabilità nell’essere donna in quanto tale (nessun sesso debole, quindi), essendo rimesso alla responsabilità della storia, della cultura e della società rielaborare e ridefinire detti concetti e la relazione intercorrente tra i medesimi, essendo loro preciso compito e, quindi, delle Istituzioni e della società tutta, rimuovere ogni discriminazione ed ogni stereotipo di genere che possano fornire appiglio alle più meschine azioni di coloro che, al limite, vorrebbero un sesso femminile reso e/o mantenuto debole, mantenuto oggetto e non riconosciuto soggetto, come più efficacemente osservato da altri prima di me. Donne non si nasce, lo si diventa”.

di Maddalena Bosio, avvocato

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