Appunti da una terra che non esiste

Viaggi, incontri, riflessioni sul destino del popolo kurdo, migliaia di persone divise tra Paesi diversi. Dall’incontro con Gino Strada nell’ospedale fondato da Emergency negli anni ‘90 ai profughi che, già alla fine del secolo scorso, cercavano fortuna e una vita migliore attraversando il Mediterraneo: ripercorro la mia personale storia con la questione kurda in alcuni estratti.

Giorgio Fornoni

Sulla strada tra Turchia e Iraq – gennaio 1997
ImmagineSono entrato per la terza volta nel “Paese che non esiste”, il Kurdistan, nell’agosto scorso, non più, come la volta precedente, da Zakho, ormai in mano ai soldati turchi e frontiera chiusa, ma attraversando in barcone il fiume che segna il confine tra Siria e Iraq. Ho viaggiato su un veicolo di “Emergency”, la ONG di Gino Strada guadagnatasi il rispetto di tutti i Curdi rimanendo sul posto mentre tutti gli altri se ne andavano in seguito alla guerra civile divampata tra Barzani (PDK) e Talabani (UPK). Ho attraversato il territorio presidiato dal primo e sono finito a Sulaimanya, caposaldo del secondo. Lungo il percorso, nei pressi di Zakho, quindi in pieno territorio iracheno, ho notato campi militari dell’esercito turco, posti di blocco ovunque, rassegnazione fatalistica nella gente. Ho trascorso alcuni giorni nell’oasi di pace costituita dall’ospedale diretto da Gino Strada, nel quale si rifugiano feriti di ogni genere, specialmente i colpiti dalle mine. Lì sono venuto a conoscenza di tante storie di orrori. Ho conosciuto Razà, un piccolo pastore. Dopo aver peregrinato da un villaggio all’altro con i suoi genitori, è saltato su una mina che gli ha tranciato una gamba. “Mi ha portato qui a spalle mio padre. Dopo tante sofferenze, ora, con la protesi, posso di nuovo camminare. Ritornando al villaggio non voglio più fare il pastore perché potrei calpestare un’altra mina. Mi piacerebbe andare a scuola oppure aprire un piccolo negozio…” Ho conosciuto Soran, 13 anni, sfollato e pure lui mutilato da una mina. Con la gamba artificiale va a scuola zoppicando: frequenta la scuola secondaria. Piccole, grandi storie di ordinaria sofferenza, purtroppo, qui in Iraq.

Saddam non li ama
Il Kurdistan è ritagliato nel nord dell’Iraq, ma Saddam non poteva accettare di cedere ai Kurdi la regione di Kirkuk, una delle aree più ricche di petrolio. Sul finire degli anni ‘80 vennero uccisi almeno 100.000 Kurdi, 180.000 scomparvero nel nulla, 4.000 villaggi vennero rasi al suolo e 200.000 profughi affollarono le tendopoli oltre il confine di Iran e Turchia. Torture, mutilazioni ed esecuzioni erano fatti quotidiani. Nel 1988, l’armata irachena lanciò bombe chimiche e di gas tossico sulla regione del Kurdistan causando migliaia di vittime, quasi 5.000 solo ad Alabja.
Una strage silenziosa che non scosse la coscienza dell’Occidente: in quegli anni, vedeva ancora in Saddam il campione della lotta contro l’integralismo islamico dell’Iran. Durante la Guerra del Golfo, Saddam pretese dai Curdi la passività sotto la minaccia del ripetersi di bombardamenti con armi chimiche. La sconfitta di Saddam nella Guerra del Golfo riaccese la volontà separatista dei Kurdi. Ma la rivolta fallì, tra nuove stragi e nuovi orrori. Due milioni di persone furono costrette a varcare il confine di Iran e Turchia, spinte dalla disperazione nelle braccia di vicini tutt’altro che amichevoli. Si mobilitarono le organizzazioni umanitarie, ma la situazione rimase drammatica. Diviso tra i due contendenti politici, Talabani e Barzani, incerto sulla linea da adottare nei confronti dell’Iraq, schiacciato dal doppio embargo delle Nazioni Unite e di Saddam Hussein, il Kurdistan iracheno visse in condizioni drammatiche di povertà e di sussistenza. Il sogno di uno Stato autonomo naufragò nella lotta fratricida tra le fazioni. A complicare la situazione, entrò in gioco anche il partito armato PKK, in guerra con la Turchia.

Le minoranze cristiane maggio 1994
Incontrai Talabani, ex leader dei Curdi. Mi parlò anche dei Cristiani kurdi: “Nel Kurdistan la religione cristiana ha radici antiche.
Alle origini vi erano moltissime chiese nel Kurdistan e la gente di molte zone era cristiana. Poi giunse l’Islam e la maggior parte dei Kurdi divenne musulmana. È comunque rimasta una nutrita comunità di Cristiani nel Kurdistan iracheno. Avevano le loro chiese, c’erano molte chiese storiche in Kurdistan, ma sono state distrutte dal regime iracheno. Oltre 17 antiche chiese, costruite 1500 anni fa, sono state distrutte dagli Iracheni. Dopo la liberazione di questa parte del Kurdistan dal giogo iracheno, i nostri fratelli cristiani hanno potuto veder riconosciuti i propri diritti, i diritti democratici. In qualche parte del Kurdistan, forze sovversive ed alcuni fondamentalisti oppongono resistenza a questo stato di cose, ma il Governo regionale ha stabilito di portare avanti la politica democratica nei confronti dei nostri fratelli cristiani. I Cristiani hanno anche due partiti e le loro organizzazioni. Hanno dei centri culturali. Ne hanno uno a Sulaimanya. Li abbiamo aiutati a costruire una chiesa e l’edificio che ospita il centro culturale. Inoltre, li abbiamo aiutati a ricostruire un’antica chiesa distrutta dagli Iracheni”.

La guerra cieca contro le mine antiuomo – febbraio 1999
Il Centro chirurgico voluto da Emergency a Sulaiymanya, nella regione settentrionale dell’Iraq rivendicata dai Kurdi, non è un ospedale come tutti gli altri. È un posto medico di prima linea, in un Paese nel quale la guerra rappresenta una dimensione quotidiana, mai dichiarata eppure quotidianamente sofferta, sulla propria pelle, da tre milioni e mezzo di civili inermi. Qui sfilano ogni giorno le vittime di un conflitto dimenticato che alterna occasionali esplosioni di battaglia a più lunghi periodi nei quali, a fare strage e a seminare lutti e dolore, sono le armi più vili: le mine antiuomo. È per rispondere a questa guerra strisciante e infinita, per ridare speranza e fiducia a questa gente, che il medico italiano Gino Strada, chirurgo senza frontiere con lunghe esperienze in Afghanistan, Ruanda, Cambogia, fondatore dell’associazione Emergency, ha promosso, nel 1995, la costruzione di un ospedale moderno, l’unico specializzato della regione nella chirurgia di guerra e da mine. Visitiamo l’ospedale ed incontriamo alcune delle tante vittime della sporca guerra delle mine che sta devastando il Kurdistan. Incontriamo un ferito: la sua gamba è stata spappolata dalle schegge due settimane fa, ma sono le sue condizioni generali a destare preoccupazione. Il Centro medico di Sulaiymanya opera a pieno ritmo da tre anni, con cento posti letto, tre sale operatorie e reparti specializzati in grado di far fronte ai casi più difficili. Qui lavorano 270 persone, una vera sfida alle tante incertezze legate all’evoluzione della guerra e allo stato giuridico della regione, rivendicata da tutti, ma, di fatto, “terra di nessuno”.
Il Centro medico ha visto transitare oltre 4.000 feriti da arma da fuoco o da mina. Accanto al Centro chirurgico ne è stato aperto uno di riabilitazione per pazienti con arti amputati: bambini, soprattutto, ai quali una protesi riesce a garantire la speranza di una vita quasi normale. Nel laboratorio del Centro se ne costruiscono 50 al mese. L’iniziativa di Gino Strada è nata in piena emergenza per un’epidemia di colera, unico approdo medico nella “no fly zone” a nord dell’Iraq. Nell’estate del 1996, l’esplodere di una nuova guerra civile tra le fazioni e l’offensiva delle truppe irachene hanno richiesto ai medici di Emergency un impegno sovrumano, con centinaia di feriti al giorno che affluivano dalla prima linea. Si calcola che nel solo Kurdistan iracheno siano disseminate 10 milioni di mine, retaggio di guerra e alterni spostamenti di fronte, un rischio mortale che rende impraticabile oltre la metà della regione. Buona parte di queste sono di fabbricazione italiana, vendute a Saddam negli anni ‘80, quando l’intera politica estera dell’Occidente si era schierata con il “rais” nella guerra con l’Iran, chiudendo gli occhi sull’autentico genocidio di massa iniziato in quegli anni per “risolvere” il problema kurdo. Lo scoppio di una mina non è devastante solo per il fisico. Un trauma altrettanto grave è quello psicologico, che toglie alla vittima, a volte per sempre, le capacità e la voglia di vivere. Nel Centro chirurgico di Sulaiyamanya, vediamo una bambina di 12 anni ferita al capo da una scheggia. Non ha subito danni irreversibili nel fisico, ma ha visto morire, straziate dallo scoppio, le sue compagne di giochi. È successo otto mesi fa e lei ancora non parla, non ride, non reagisce agli stimoli esterni. I medici sono convinti che ce la farà, aiutata, forse, anche dal coraggio di altri suoi coetanei ricoverati.
Con amore, sensibilità, pazienza infinita, si cerca di ridare alla piccola Nura la gioia di vivere. Si cerca di rianimare la sua capacità di reazione, di smuoverla da un torpore che, in altre circostanze, avrebbe distrutto la sua vita per sempre. Gli infermieri del Centro di rieducazione di fisioterapia sanno bene quali siano i problemi da superare. Il 70% del personale impiegato nel Centro di Sulaiyamanya è, a sua volta, vittima di qualche handicap fisico.
Coraggio e dedizione verso i pazienti si dimostrano, spesso, l’arma vincente della terapia. Anche la piccola Nura, col tempo, imparerà a ridere e a giocare come tutti i bambini della sua età.
Le mine continuano a militare sotto diverse bandiere. Un giorno finiranno dimenticate in un campo, dove finalmente colpiranno nella maniera più stupida e a tradimento: un anziano pastore, una donna, un bambino. In posti come questo anche la messa al bando internazionale della produzione suona tardiva, lontana e inefficace.
Ecco un atroce esempio. “La mina era lì – racconta Abdul, un vecchio contadino che vive sul rilievo vicino a Penjuin, una delle aree più infestate – nascosta sotto una zolla di terra. Ho sentito la terra esplodere sotto i piedi, non ricordo altro. Qualcuno mi ha portato all’ospedale, mi hanno tagliato la gamba sotto il ginocchio”.
Si alza, si allontana un poco per guardare quel territorio, come da un terrazzo, voltandoci le spalle, versando una lacrima. “Sono vecchio, ma continuerò a venire qui ogni giorno perché questo è il mio campo, questa è la mia terra. E, con l’aiuto di Allah, sarà anche la terra dei miei figli”.

Profughi nel Mediterraneo -dicembre 1998
La Cometa del Natale 1997 aveva portato in Italia un nuovo carico di disperati. “Cometa” è il nome del mercantile turco che, nel giorno di Capodanno del ’97, ha riversato nel porto di Otranto altri 386 profughi del Kurdistan, a pochi giorni dallo sbarco degli 835 clandestini della nave “Ararat”, arenatasi sulle coste calabre.
Com’è ormai cronaca di tutti i giorni da tanti anni, sulle stesse coste, come su quelle delle isole di Pantelleria e Lampedusa, sono sbarcati centinaia di disperati. Uomini, donne e bambini fuggiti da guerre e sofferenze infinite, vittime delle repressioni dei Governi di Turchia, Siria, Iran e Iraq, hanno affrontato dieci giorni di navigazione nel periodo più freddo dell’anno, confinati nella stiva, nutrendosi solo di pane e acqua. A Istanbul hanno dovuto sborsare 5.000 dollari a testa per comprarsi il miraggio della fuga in Europa. Sono stati derubati di tutto quel che avevano dalle bande albanesi che taglieggiano le carrette che solcano l’Adriatico.
L’Italia, con i partner dell’Unione Europea, vuole finalmente concedere ai Kurdi lo status di “profughi di guerra”, ma il tutto è frenato dalle lungaggini della burocrazia e dai sofismi della legge internazionale. Vittime di chi non vuole riconoscere l’identità etnica e nazionale del Kurdistan – un Paese disegnato sulla carta geografica, ma, di fatto, inesistente e diviso fra Stati, movimenti di guerriglia, partiti, clan tribali, merce di scambio nel gioco degli interessi economici internazionali per la ricchezza dei giacimenti petroliferi nascosti dietro quei labili confini – 22 milioni di persone sono ormai allo stremo. E in decine di migliaia sono disposte a tutto pur di fuggire dall’inferno nel quale sono relegate da decenni e tentare di ricongiungersi con i familiari e gli amici dispersi in Germania, Francia, Svezia e Finlandia. Solo dall’ottobre del ’97 alla fine del ‘98 ne sono arrivati in Italia oltre 4.000 e altri si preparano a partire dalla Turchia. Sulle coste italiane dell’Adriatico, la porta dell’Europa, la nuova Terra Promessa del “popolo senza terra”, è ormai emergenza continua.

di Giorgio Fornoni, giornalista italiano e corrispondente di Report

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